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Germania, sentenza protegge la “scrofa degli Ebrei” dalla cancel culture

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HENDRIK SCHMIDT | dpa Picture-Alliance via AFP

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 12/11/22

Da tre anni c'era una causa aperta sulla “Scrofa degli ebrei” incorporata nella cattedrale di Wittenberg. Ora il Tribunale Supremo Federale vieta che essa venga rimossa. Luminose le parole del direttore del Luthersmuseum: «Certe ferite vanno tenute aperte». Ed è una lezione mirabile sulla vanità della “cancel culture”.

Lo storico Macrobio ci ha riferito che Augusto, venendo a conoscenza della morte di Alessandro e Aristobulo, figli di Erode (detto – essenzialmente da lui stesso – “il grande”), avrebbe commentato sarcastico: «Meglio essere il maiale di Erode, piuttosto che suo figlio». L’Imperatore intendeva dire che i suini rischiavano la pelle meno dei figli, a casa del reuccio di provincia, il quale in ossequio ai dettami della fede giudaica non mangiava carne di maiale, ma non per questo si guardava dall’eliminare fisicamente gli avversari politici (non si fece più scrupolo per i propri figli che per i «figli di Rachele» massacrati a Betlemme e dintorni con la speranza di uccidere anche Gesù Bambino). 

Un Leitmotiv irresistibile 

Questa storia del maiale non era mai andata giù a nessuno: già prima, durante le rivolte maccabaiche, c’era stato «il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono forzati a nerbate dal re a cibarsi di carni suine, proibite dalla legge» (2Mac 7,1). Rapidamente, i giudeo-cristiani si “smarcarono” dall’impasse riconoscendo nell’insegnamento di Gesù il permesso di usufruire di tutti i cibi. Questo fece però sì che topos del “maiale antigiudaico” venisse raccolto anche dai cristiani, i quali se ne sarebbero lungamente serviti per irridere, quando non apertamente perseguitare i loro “fratelli maggiori” (cosa che rende tanto più odioso il loro crimine e abominevole il loro peccato). 

In particolare, si diffuse nel medioevo l’usanza di introdurre tra le decorazioni delle chiese (specie delle cattedrali) una scrofa, che in molti casi è ritratta mentre – grottesco rovesciamento della mitologia eziologica dell’Impero (ormai cristianizzato) – allatta dei piccoli ebrei. Molte di queste scrofe allattanti sono state rimosse dalle loro posizioni, soprattutto nel XX secolo (e all’indomani della Seconda Guerra mondiale). 

Il “dolce porco” della letteratura e del cinema 

Poco prima, peraltro, il topos del “maiale ebreo” era stato oggetto di una sequenza (ormai perlopiù dimenticata) di successi mediatici interdisciplinari: nel 1925, infatti (quasi cent’anni fa e otto anni prima dell’ascesa politica di Hitler al vertice dello Stato tedesco), Lion Feuchtwanger aveva pubblicato un romanzo di grande successo intitolato “Süß l’Ebreo” (“Süß” è il nome del protagonista, ispirato a Joseph Süss Oppenheimer, vissuto nel XVIII secolo, e alla lettera significa “dolce”, “gentile”, “carino”, ma fa sinistra assonanza con “Sau” – maiale nella sua accezione dispregiativa, diciamo “porco”). 

Già nel 1827 era stato dedicato un romanzo, scritto da Wilhelm Hauff, alla tragica figura di Süß, dotato di genio politico ed economico ma tentato dal lusso e dalle donne, che per insidiare la figlia del principe al cui servizio stava vide volgere in tragedia la propria ascesa. Dopo intrighi, colpi di stato schivati e la sottotrama del conflitto tra confessioni cristiane che si intreccia alla questione giudaica, Süß viene condannato a morte (e rifiuta il battesimo, che pure gli viene offerto come via di fuga) e in attesa dell’esecuzione vive una conversione religiosa che lo porta ad avvicinarsi al patibolo forte della ritrovata Sapienza di Israele. 

Come si vede, la carica antisemita era già virtualmente presente, nel libro, ma non esplicitata. A far questo – cosa che avrebbe trascinato in un balzo straordinario anche le vendite del romanzo – pensò Joseph Goebbels, che nel 1939 lavorò febbrilmente alla realizzazione di una versione cinematografica declinata in funzione della propaganda del Reich. 

Süß è ora un uomo ambizioso che diventa ministro delle finanze del fiacco duca di Würtemberg e che, a forza di usure ed estorsioni, s’infiltra nello stato. Di mano in mano, riesce a estromettere “gli altri” dal governo della cosa pubblica, causando povertà e miseria, sfrattando persone e costruendo a Stuttgart un’oasi giudaica, che non esita a difendere col ricorso a un esercito di mercenari. 

Dolce nei modi ma porco di fatto, Süß è un incallito tombeur de femmes (un po’ di pepe per ravvivare la trama), e questo elemento conduce le vicende verso l’escalation, ossia alla rovina dell’uomo, che finisce impiccato in pubblica piazza con grande soddisfazione di popolo. 

La pellicola ricevette il Leone d’Oro a Venezia, nel 1940, e il nostro Michelangelo Antonioni salutò in essa «l’incontro riuscito tra l’arte e la propaganda» (!). 

A poco valsero le proteste del romanziere (comunque emigrato negli Stati Uniti…) e la censura elvetica al film: il film fu visto da un milione di spettatori paganti, tra il 1941 e il 1944: un’enormità. 

La scrofa dello scandalo 

È difficile capire – prescindendo dal contesto or ora accennato – perché ci si stia tanto accanendo sulla “troia degli ebrei di Wittenberg”, annidata alla base esterna di uno dei pilastri di quella stessa cattedrale dove – stando alle leggende agiografiche luterane (poco o nulla fondate nella storia) – il giovane Lutero avrebbe affisso le famose 95 tesi: da decenni si chiede di rimuovere quella parte del monumento, ottenendo nel 1989 appena una targa esplicativa del contesto che produsse l’altorilievo; da due anni poi si chiede, ai massimi vertici del sistema giudiziario tedesco, la Corte Suprema Federale, una sentenza che consenta di rimuovere il manufatto della discordia. 

Il fatto che questa “scrofa ebrea” (traduzione letterale di “Judensau”) sia una delle poche sopravvissute, e che si trovi proprio nella città dove Lutero insegnò e diede avvio alla Riforma protestante, non è un dettaglio di poco conto, nella coscienza nazionale tedesca: quattro secoli prima della “soluzione finale” hitleriana, infatti, nel 1543, il Riformatore diede alle stampe l’opuscolo “Sugli Ebrei e sulle loro bugie”, nel quale si consigliavano azioni tremende contro la stirpe del padre Abramo. Ne vanno ricordate almeno sette: 

  • incendiare scuole e sinagoghe e segnalare la loro presenza alle altre persone; 
  • impedire che gli ebrei siano affittuari di cristiani; 
  • dare la caccia ai testi sacri degli ebrei; 
  • impedire ai rabbini di predicare; 
  • negare agli ebrei salvacondotti per viaggi lunghi; 
  • proibire agli ebrei di prestare denaro a interesse, confiscare tutti i loro beni preziosi; 
  • costringere ai lavori pesanti gli ebrei in forze. 

È il programma della Kristallnacht, anzi anticipa decisamente la Endlösung (con la quasi unica differenza che Lutero concede volentieri amnistia a quanti realmente si convertano al cristianesimo – la vicenda di Edith Stein, una per tutte, ricorda che i nazisti non ebbero neanche l’ipocrisia del proselitismo, con quella parvenza di bene che essa millanta). 

Quando Lutero era a Wittenberg, la scrofa troneggiava sulla strada che molte volte egli ha certamente percorso da due secoli circa, ed era espressione di un vasto sentimento antigiudaico che serpeggiava ampiamente (benché non universalmente) nella produzione intellettuale dei cristiani. Con Lutero si ponevano le basi perché si passasse dall’antigiudaismo teologico, antico e medievale, all’antisemitismo razziale, propriamente moderno: si farebbe male, tuttavia, a leggere questa degenerazione come il subitaneo pervertimento di qualcosa di sensato e accettabile. L’antigiudaismo non reca infatti evidenti le marche orrifiche dell’antisemitismo, ma costituendone una delle radici va rigettato in sé come cosa perversa e contraria alla ragione (oltre che alla fede). 

Tenere la ferita aperta 

Ora la questione è che sono degli ebrei a chiederne la rimozione, laddove Stefan Rhein, direttore del Luthermuseum del Sachsen-Anhalt ha anticipato, nello scorso agosto, la linea che sarebbe stata ribadita pochi giorni fa dalla sentenza che pare definitiva: 

È parte della storia della città, ma anche della storia tedesca, e deve restare lì, come una ferita aperta, per essere commentata. 

Parole mirabili per saggezza, e anche per umiltà. In un mondo improvvisamente divenuto lineare e razionale sarebbero stati i Luterani a supplicare lo Stato di poter rimuovere quel marchio d’infamia della loro storia, e per contro gli Ebrei avrebbero lanciato l’allarme contro tentativi di rimuovere la memoria storica. 

Cecilia Sala ha parlato della vicenda nell’episodio 199 del podcast Stories: ha ripercorso i passi della vicenda legale (dal 1989 e soprattutto dal 2020 in qua) e ha posto una domanda generale – «prevale il diritto di chi si sente offeso da un oggetto del passato, o la storia non va “cancellata”?». 

Siamo in Germania, dove l’antisemitismo è una questione sensibile e la cancel culture è arrivata prima della sua ultima ondata globale. In Germania più che altrove la memoria pesa sulle coscienze: per generazioni, dalla fine della guerra, i tedeschi hanno vissuto nel senso di colpa collettivo per i crimini del nazismo; un senso di colpa tanto forte da far reinterpretare tutta la storia della Germania come una preparazione al Terzo Reich. 

La puntata 199 del podcast Stories

La podcaster osserva correttamente che ci sono provvedimenti di cancel culture così forti (rimuovere dipinti fiamminghi raffiguranti nature morte per timore di offendere i vegani) da lasciar porre domande sulla sensatezza delle operazioni-cancel culture, e aggiunge che anche la via del “decidiamo caso per caso” ha i suoi inconvenienti, in quanto virtualmente ogni cosa, per qualcuno, è passibile di risultare offensiva. 

Tra Germania e Italia, due errori uguali e contrarî

«La Germania – ha poi sottolineato – ha rimosso tutte le svastiche dal territorio nazionale, noi abbiamo lasciato i fasci littorî al Foro Italico…». È vero che la nostra cultura nazionale corre forse il pericolo (uguale e) contrario rispetto a quella tedesca: quelli vivono sotto un senso di colpa soverchiante, come se tutti e tedeschi prima e dopo della stagione nazista, fossero stati o ancora siano nazionalsocialisti; noi ci concediamo forse troppo facilmente un atteggiamento autoassolutorio, che neppure ha il coraggio di assumere quel che è stato. Così viene fuori un momento imbarazzante se sentiamo qualcuno fischiettare “Faccetta nera” (mentre per Lili Marlene non battiamo ciglio), ma permettiamo che si stampino e vendano calendari mussoliniani, che si organizzino pellegrinaggi a Predappio e via dicendo. Sono segni, anche i nostri, di una schizofrenia cui sarebbe meglio porre rimedio prima che le sue cause producano sintomi devastanti. 

Sala osserva pure che la Germania restituisce la refurtiva del proprio imperialismo, mentre «noi i nostri obelischi ce li teniamo». Ora qui però s’impone un’osservazione “correttiva”, diciamo (e non perché dobbiamo a tutti i costi “tenerci gli obelischi”): il punto è che nel XVI secolo la Germania esisteva, come nazione e come coscienza popolare, mentre da noi Machiavelli si lagnava che nessuno si desse pena di raccogliere le sorti italiche (le cosiddette “guerre italiche”, in fondo, non erano state una questione italiana…). I famosi obelischi, a Roma e altrove, insomma, non li hanno portati gli Italiani, e neanche i Papi, bensì soprattutto i Romani. Sisto V volle raccattarli dalle campagne e farne cardini della propria concezione urbanistica, ma questo significa che effettivamente, non potendoli riconsegnare ai Tolomei, e non togliendoli più ai Papi (a parte il solo obelisco Vaticano)… di fatto li toglieremmo a noi stessi. Per far che? 

Troppo comodo, cancellare “gli eroi di Dogali”!

Ogni volta che passo a Largo Dogali, tra Piazza dei Cinquecento e Piazza Esedra, in Roma, guardo con un po’ di vergogna l’obelisco e l’obbrobriosa iscrizione “agli eroi di Dogali”: quali eroi? Degli invasori che giustamente erano stati respinti dagli eritrei in quella confusa fase post-risorgimentale quando gli Italiani, per darsi un tono, dopo aver giustamente rivendicato la propria libertà andarono sconsideratamente a insidiare quella altrui? Questo era il 1887, e quelli erano Italiani fatti e finiti, non truppe pontificie né legioni romane. 

Ma chi sa della Battaglia di Dogali? Giolitti era deputato da un anno, all’epoca, ed era critico sulle spese militari del governo Crispi. Ma chi sa di Crispi? E Giolitti chi? «Ah, sì – dirà qualche studente meno disattento –, quello della Libia». Sì, perché un trentennio dopo anche Giolitti si mise a fare la guerra (Mussolini era ancora socialista e pacifista, all’epoca). Ora, tutte queste cose (e molte altre ancora) sono ignote alla stragrande maggioranza degli italiani, e per la gran parte dei romani che non ignorano l’esistenza di Largo Dogali in Roma vi diranno che è “quello che puzza di urina da quanti barboni e stranieri vi bivaccano” (cosa tristemente vera e veramente triste da più punti di vista). La cosa migliorerebbe se rimuovessimo quell’iscrizione vergognosa e rimandassimo l’obelisco in qualche piazza d’Egitto che non ne ha mai avvertito la mancanza? 

Verità e amore sono i passi che portano alla riconciliazione

Per questo mi sembrano radiose, oltre che ragionevoli e umili, le parole di Stefan Rhein: certe ferite vanno tenute aperte, perché questo è la storia. Wiston Churchill raccomandò alle truppe che entravano in Auschwitz di fotografare tutto, perché «certamente verrà fuori – disse – qualche imbecille a negare che tutto ciò sia mai accaduto». E lo negano lo stesso, lo sappiamo, pure se le foto sono state scattate! Per questo ci si può chiedere se facciano i propri interessi, gli ebrei che chiedono di rimuovere la Scrofa di Wittenberg. Il confine franco-tedesco è disseminato di cippi in cui i francesi tengono memoria delle manciate di soldati che qui e lì resisterono alle incursioni degli «allemands» (non dei «nazis», proprio dei tedeschi), pagandone il prezzo con la vita. E se qualche tedesco passasse di lì e si sentisse offeso? Toglieremmo quei cippi per non urtare la sensibilità dei tedeschi? Toglieremo il monumento agli “eroi di Dogali” per non dovercene vergognare ogni volta che ci passiamo davanti? 

Il punto è che sia l’autoassoluzione sia il senso di colpa indiscreto spingono la coscienza a negare l’insostenibile, per una via o per l’altra. Assumere il passato, riconciliarvisi e riconciliarsi con i discendenti di quanti sono stati offesi o lesi dai nostri antenati, è cosa che si fa per un’altra via: abbinando cioè da una parte passi di verità e dall’altra passi di carità. Non siamo e non siamo stati “brava gente”, noi Italiani, ma questo non ci impedisce di diventarlo. A meno che non ci lusinghiamo che, per esserlo, basti occultare le prove dei nostri delitti passati. Cosa che ci confermerebbe nella sicura certezza di reiterarli in futuro. 

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