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La cura contro la malaria? Fu scoperta dai gesuiti!

Lucia Graziano - pubblicato il 09/11/22

Il chinino è estratto da un sempreverde che cresce in abbondanza sulle montagne andine. Fin dalla notte dei tempi, la popolazione locale conosceva le proprietà febbrifughe di questa sostanza: ma furono i missionari cattolici i primi a intuire che il farmaco avrebbe potuto essere prezioso nella cura della malattia che in quei secoli flagellava l’Europa.

Chiudiamo gli occhi e immaginiamo uno scenario in cui Roma è vittima di una pestilenza che nessuno riesce ad arrestare, così violenta che turisti e viaggiatori hanno paura a recarvisi. 

A un certo punto, anche il papa si ammala e muore. Non senza un certo timore, i cardinali sfidano il pericolo per riunirsi in conclave ed eleggere il nuovo pontefice… che muore a sua volta, tredici giorni più tardi, contagiato e ucciso dalla stessa malattia che aveva stroncato il suo predecessore. Potrebbe sembrare uno scenario distopico degno di un film apocalittico; invece, tutto questo accadde per davvero quando la malaria uccise in rapida successione Sisto V e Urbano VIII, morti esattamente a un mese di distanza il 27 agosto e il 27 settembre 1590.

La malaria: una piaga che non si riusciva a debellare

La morte consecutiva di due papi nel mezzo di un’epidemia di malaria non va considerata alla stregua di uno strano ed eccezionale strano scherzo del destino. Al contrario, è un aneddoto che ben si presta a descrivere una situazione ormai sfuggita al controllo: nel XVI secolo, la malattia era endemica in buona parte della penisola italiana (e il resto d’Europa non se la passava molto meglio). Un problema evidentemente serio, soprattutto visto il dettaglio per cui non esisteva cura per questa malattia.  

Concettualmente, non mancava la consapevolezza che una bonifica delle zone paludose avrebbe potuto arginare il problema. Pochi anni prima d’essere stroncato a sua volta dalla malattia, papa Sisto V aveva disposto un risanamento dell’Agro Pontino, affidando l’incarico a un certo Ascanio Finizi. Nel 1589, dopo tre anni di lavori interrotti, la bonifica si trovava già in uno stato molto avanzato; ma le piogge torrenziali di quell’autunno bastarono a cancellare nell’arco di pochi giorni tutti gli effetti di tanto sforzo. E analoghi tentativi di risanamento, portati avanti in altre zone d’Europa, erano riusciti unicamente a dimostrare che una bonifica su larga scala era pressoché impossibile per le limitate tecniche dell’epoca: insomma, non restava che arrendersi all’ineluttabilità del contagio, cercando piuttosto una cura per i malati. 

E per quegli strani scherzi che ogni tanto fa la Storia, furono dei sacerdoti a scoprire il rimedio miracoloso.

La scoperta del chinino? Tutto merito dei missionari

La cura per la malaria, come è ben noto, è costituita dal chinino, una sostanza che si ricava dalla corteccia dell’albero cinchona, un sempreverde che cresce in abbondanza sulle montagne andine. Nel momento in cui i conquistadores sbarcarono nel ‘Nuovo Mondo’, la popolazione locale conosceva già da tempo le proprietà antifebbrili di questa sostanza: che, essiccata, ridotta in polvere e mescolata con acqua dolcificata, ad alleggerirne il sapore aspro, veniva somministrata agli ammalati fino ad abbassamento della temperatura corporea.

Leggenda narra che il primo occidentale a essere curato con lo stesso trattamento fu la contessa di Chinchon, moglie del viceré spagnolo in Perù. La donna, ammalatasi di malaria attorno al 1638, sarebbe stata giudicata incurabile dai medici di corte; disperato, il marito avrebbe accettato di far ricorso a un guaritore locale che assicurava di poter sanare la contessa mediante una polvere di sua conoscenza, così come infatti accadde.

L’aneddoto è sicuramente suggestivo, anche se probabilmente in larga parte immaginario. Le carte appartenute al segretario personale della contessa non fanno menzione di questo episodio; per contro, il timoroso viceré non sarebbe stato necessariamente costretto ad affidarsi a un guaritore indigeno per ridare la salute alla sua sposa: entro la fine degli anni ’30 del XVII secolo, esisteva già un’altra categoria professionale che conosceva e sfruttava le proprietà curative del chinino. Si trattava dei missionari cattolici: individui che, vivendo a stretto contatto con la popolazione locale per ragioni di evangelizzazione, avevano gradualmente appreso i costumi dei nativi. Conoscenze mediche incluse.

È infatti un monaco agostiniano, padre Antonio de la Calancha, il primo occidentale a citare per iscritto la sostanza, parlando delle sue proprietà curative in una lettera che nel 1633 inviava ai suoi confratelli in patria. Ma se fu un agostiniano il primo a dar notizia scritta del rimedio, fu un gesuita a portare materialmente il farmaco in Europa.

Il suo nome non ci è noto, o per meglio dire: sono due i confratelli che si contendono il primato: secondo alcuni, spetta a padre Agostino Salumbrino il merito di aver inviato per primo a Roma un campione di chinino, nei primissimi anni ’30; secondo altri, fu il suo confratello Bernabé da Cobo a portarne con sé qualche dose nel 1632, durante il suo viaggio di ritorno dal Perù.  

Di quando il chinino si chiamava la “scorza loyolitica”

Quel che è certo è che, entro la fine degli anni ‘30, il chinino era ben noto nelle case italiane dei Gesuiti. E non solo: aveva trovato nella persona di padre Juan de Lugo il suo più entusiastico sostenitore. 

Con l’appoggio dell’archiatra pontificio, il sacerdote cominciò a sperimentare il farmaco nella spezieria del Collegio Romano, somministrando gratuitamente dosi della polvere a qualsiasi malato gliene facesse richiesta. I risultati furono così strabilianti che, nel 1649, la spezieria emanò un prontuario rivolto alla comunità medica internazionale, col quale comunicava il frutto delle sperimentazioni e illustrava il corretto dosaggio da utilizzarsi nella terapia.

Nel frattempo divenuto cardinale, Juan de Lugo aveva raccomandato ai suoi confratelli di favorire la diffusione del farmaco in tutta Europa, sfruttando la capillarità della rete di conventi della Compagna di Gesù. E così fu: nell’arco di pochi anni, la sostanza era entrata a buon diritto nei prontuari farmaceutici di tutto l’Occidente, con un nome che fin da subito denunciava il debito di gratitudine con cui la comunità medica internazionale guardava a quei ricercatori che per primi ne avevano intuito e poi sperimentato l’efficacia.

Incredibile ma vero, per diversi secoli il chinino fu conosciuto in tutta Europa sotto il nome di “scorza loyolitica”: un evidente omaggio a sant’Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti. I quali, ai loro tanti meriti, possono a ben diritto aggiungerne uno che forse non avremmo immaginato: quello di esser stati, a tutti gli effetti, dei ricercatori farmaceutici ante litteram. E con che successo!

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