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La Grande Guerra vista dai religiosi che andarono al fronte

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Lucia Graziano - pubblicato il 04/11/22
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Furono oltre 22.000 gli ecclesiastici italiani che, a partire dal 1915, furono chiamati al fronte; e molti di loro vollero mettere per iscritto quest’esperienza, componendo diari di guerra che sono per noi una testimonianza preziosissima. Scopriamone alcuni

Religiosi al fronte durante la Grande Guerra? Facilmente l’immagine potrà sembrarci strana, anzi innaturale: certo, esistono i cappellani militari, ma pare fortemente stonato il pensiero di un sacerdote che è costretto giocoforza a trasformarsi in soldato, combattendo in trincea per difendere la linea del fronte.

Eppure, questa fu una dolorosa realtà negli anni della prima guerra mondiale: una pagina di Storia forse poco nota, ma certamente non priva di interesse. 

Lo strano caso dei religiosi al fronte, durante la Grande Guerra

“Ma come”, potrebbe chiedersi il lettore: “gli uomini che si erano votati a una vita religiosa non godevano di una qualche forma di esenzione dal servizio militare attivo?”. In effetti no: non negli anni della prima guerra mondiale.

In un clima di forte tensione nei rapporti Stato-Chiesa, il servizio di leva obbligatorio per tutti i maschi abili alle armi (senza eccezione: dunque, religiosi inclusi) era stato istituito nel 1854 nel Regno di Sardegna e poi gradualmente esteso a tutto il territorio della penisola nell’ambito del processo di unificazione nazionale. La Chiesa italiana aveva accettato con rassegnazione lo status quo per cui novizi e seminaristi si trovavano costretti a sottoporsi alla naja; e anzi, nei periodi di pace capitava spesso (ma non sempre) che, dopo la visita di leva, i religiosi venissero riformati o comunque esentati dal servizio attivo. Ma, ovviamente, lo scoppio della prima guerra mondiale ribaltò completamente le carte in tavola: gli Italiani abili alle armi furono massicciamente richiamati al fronte, e i membri del clero non fecero eccezione. 

Padre Giovanni Semeria, all’epoca cappellano militare presso il Comando Supremo del general Cadorna, ebbe poi a commentare che le gerarchie ecclesiastiche non furono sfiorate per un solo istante dal pensiero di potersi sottrarre alla chiamata. La legge, purtroppo, era chiara, e la Chiesa non volle sottrarcisi; del resto, nessuno voleva dar l’impressione che il clero italiano fosse composto da una banda di disertori che cercavano sotterfugi per sfuggire alla chiamata alle armi, mentre i laici venivano mandati a morire al fronte. E infatti, furono più di 22.000 gli ecclesiastici italiani che, tra il 1915 e il 1918, si trovarono a vestire la divisa militare: 13.000 erano sacerdoti diocesani; 9000 erano monaci, frati e membri di istituti di vita consacrata. Alla fine della guerra, la triste conta dei morti registrò 845 caduti e 759 invalidi. 

Una volta arruolati, non tutti i religiosi andarono incontro al medesimo destino. Maggior fortuna, per così dire, ebbero i sacerdoti: molti di loro furono inquadrati con il ruolo di cappellano militare, potendo dunque continuare a svolgere (ancorché in contesti estremi) una missione di tipo pastorale. Altri furono assegnati ai reparti di sanità, secondo la logica per cui si presumeva che i soldati ormai prossimi alla morte avrebbero apprezzato la possibilità di avere al capezzale un infermiere in grado di offrire i conforti cristiani, oltre che le normali cure mediche. 

Ma una sorte assai diversa toccò a quei sacerdoti che non fu possibile destinare alle due mansioni di cui sopra. E, soprattutto, toccò a quegli individui che, pur essendo religiosi e tutti gli effetti, non avevano (o non avevano ancora) ricevuto gli ordini sacri: vuoi perché seminaristi, vuoi perché “semplici” monaci e frati. Molti di loro furono mandati a combattere in prima linea e dovettero scontrarsi con lo shock della vita di trincea: un’esperienza sconvolgente, che diversi religiosi vollero mettere per iscritto in intimi e dolorosissimi diari di guerra che sono per noi una testimonianza preziosa.

L’esperienza della guerra attraverso gli occhi dei religiosi al fronte

Quasi tutti i religiosi chiamati al fronte vissero quell’esperienza come un periodo di prova, durante la quale la loro vocazione sembrò essere sottoposta a verifica. In trincea, alcuni sperimentarono una forte crisi spirituale («questa vita uccide tutto me stesso, piano piano» scrisse con dolore don Carmine Cortesi); onnipresente nelle testimonianze è la sofferenza data dal poter dedicare alla preghiera solamente pochi stralci di tempo, durante la giornata. I cappellani militari, poi, dovevano scontrarsi con la dolorosa impossibilità di dare l’adeguata assistenza a tutti gli uomini su cui avrebbero dovuto esercitare cura d’anime, tenendo conto che a ogni sacerdote era assegnato un reggimento di 3000 soldati. Strazianti furono i conseguenti sensi di colpa di quei cappellani che avrebbero voluto fare di più, ma materialmente non riuscivano ad arrivare ovunque. 

Ma, ovviamente, non furono queste difficoltà logistiche a causare la maggior fonte di sofferenza. Sperimentare gli orrori della guerra e la necessità di dover uccidere fu evidentemente uno shock che investì chiunque: laici e religiosi in ugual misura. Ma furono i religiosi in particolar modo a denunciare nei loro scritti l’agghiacciante dimensione a-cattolica (cioè, etimologicamente non universale) di una guerra che metteva l’uno contro l’altro dei fratelli in Cristo, in tutto e per tutto identici se non fosse stato per la nazionalità stampigliata sul loro passaporto. 

La demonizzazione del nemico, cui si fece ampio ricorso in un’ottica di propaganda, suonava irricevibile alle orecchie dei religiosi. Don Primo Discacciati, che lavorava come infermiere in un ospedale da campo, ricordò di aver dovuto impiegare una certa fatica per ottenere che fosse usato il dovuto rispetto nei confronti di alcuni soldati austriaci che erano stati fatti prigionieri di guerra e che erano stati portati in infermeria per le dovute cure. Alcuni suoi colleghi avrebbero voluto cogliere l’occasione per vendicarsi sull’odiatissimo nemico: nei feriti che avevano di fronte, non sembravano più in grado di scorgere un essere umano che chiedeva aiuto.

E, paradossalmente, tornare a casa nei brevi periodi di congedo fu fonte di ulteriore disagio per molti religiosi, che restarono sgomenti nel dover esercitare la cura d’anime su parrocchiani che non erano mai partiti per il fronte e che ciò nonostante sentivano il bisogno di esternare le loro granitiche certezze sul miglior modo in cui sarebbe stato necessario gestire il conflitto. «Patrioti tabacconi che fanno la guerra al tavolino del caffè», ebbe a chiamarli don Francesco Piantelli, con concludendo con un tranchant: «in trincea li vorrei io, questi eroi da poltrona». 

Il lento ritorno alla normalità 

Quando finalmente la guerra terminò, nessuno degli uomini che erano stati al fronte tornò a casa senza sentirsi profondamente cambiato; i religiosi non fecero eccezione, e anzi dedicarono profonde riflessioni agli anni che avevano trascorso in trincea. 

Alcuni ritennero che quell’esperienza, pur tragica, li avesse in qualche modo arricchiti in positivo: vivere a strettissimo contatto coi commilitoni laici, stringendo con loro amicizie profonde e sincere, aveva permesso loro di comprendere meglio i bisogni quotidiani dei padri di famiglia, dei coniugati, dei giovani scapoli. Molti religiosi, segnati da quanto avevano visto in guerra, sentirono il bisogno di dedicarsi ad attività assistenziali a favore dei bisognosi e, ancor più, a favore di quelle famiglie che erano state direttamente danneggiate dal conflitto. Celebre è il caso di padre Giovanni Semeria e don Giovanni Minozzi: spinti dall’urgenza iniziale di garantire assistenza agli orfani di guerra, finirono col fondare la colossale Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia, ancor oggi attiva. 

Ma, inevitabilmente, vi furono anche sacerdoti che, durante la permanenza al fronte, collezionarono più traumi che insegnamenti. E nei loro confronti la Chiesa agì con riguardi francamente non comuni per quell’epoca. 

Il 25 ottobre 1918, la Sacra Congregazione Concistoriale pubblicò un decreto De clericis e militia redeuntibus stabilendo norme rigorose da seguire per il graduale reintegro dei sacerdoti-soldato. Fu giudicata indispensabile un’accurata verifica delle condizioni morali e psicologiche del religioso, il quale avrebbe comunque dovuto sottoporsi a un lungo periodo di esercizi spirituali appositamente organizzati per reduci di guerra. Si valutava anche l'eventualità di trovarsi di fronte a sacerdoti che, a causa dei traumi subiti, non parevano in condizione di poter tornare a esercitare cura d’anime sui fedeli: in quel caso, la diocesi avrebbe dovuto affidarli alle cure di religiosi appositamente formati, che li avrebbero presi sotto la loro ala protettrice ospitandoli in strutture dedicate ove i reduci di guerra avrebbero potuto dedicarsi a un periodo (anche molto prolungato) di recupero, riposo ed esercizi spirituali. Verrebbe quasi da definirla una rudimentale forma di cura dallo stress post-traumatico; e questo, da parte della Chiesa, fu davvero un precorrere dei tempi, in un’epoca in cui si parlava ancora molto poco dei traumi psicologici di chi torna dal fronte.

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