Chi crede in Dio è meno capace di pensare analiticamente rispetto ad un ateo? Un ateo ha un pensiero critico più sviluppato rispetto ad un credente? Secondo uno studio americano le persone credenti si fanno condizionare da empatia e emotività e sarebbero meno capaci di pensare in modo critico. Ma, come ci spiegano due esperti di neuroscienza, non c'è alcun nesso tra Dio e la capacità di pensiero.
Lo studio
Credere in Dio modifica il cervello: è quanto emerge da uno studio pubblicato dalla rivista 'Plos One' e riportato qualche anno fa da 'The Independent', secondo il quale chi crede in Dio tenderebbe a reprimere un'area usata per il pensiero analitico e ad attivare quella responsabile dell'empatia.
Otto esperimenti
«Da quello che sappiamo sul cervello - ha detto il professor Tony Jack, responsabile dello studio - credere in qualcosa di soprannaturale ci porta a mettere da parte il pensiero critico, per aiutarci a raggiungere una maggiore comprensione delle cose dal punto di vista sociale ed emotivo» (Adnkronos).
Analizzando otto esperimenti diversi, condotti su campione di 159-527 adulti, i ricercatori hanno riscontrato che le persone religiose sono più empatiche rispetto a quelle che non credono. Secondo gli studiosi, il cervello usa una rete 'analitica' di neuroni che permettono all'uomo di pensare in modo critico e una rete 'sociale' che gli fa provare empatia. «A causa della tensione tra le due reti - conclude Jack - è possibile approfondire il nostro lato sociale ed emozionale. Questa potrebbe essere la chiave per spiegare perché credere nel soprannaturale è qualcosa che accomuna la storia di culture diverse».
Pensiero analitico ed empatia
Il professore Paolo Maria Rossini, direttore dell'Area Neuroscienze del Policlinico "Agostino Gemelli" di Roma evidenzia che quello di Jack «è uno studio espletato presso la Case Western Reserve University di Cleveland negli USA, che parte da pubblicazioni precedenti del medesimo gruppp di lavoro, secondo cui il “pensiero analitico” è di frequente associato all’ateismo. Mentre un pensiero religioso e trascendente e più di frequente legato ad un temperamento socializzante ed empatico».
Un aspetto in comune
Alcuni ritengono che questi due modi di mettersi in relazione con la realtà e con gli altri, prosegue Rossini, «siano in netta contrapposizione tra di loro. In entrambi i casi sono particolarmente coinvolti nel pensiero circuiti neurali passanti per i lobi frontali, le strutture che regolano le emozioni, la memoria, le capacità di relazione individuale».
Ideazione e preoccupazione morale
Gli autori dello studio hanno esaminato otto pubblicazioni scientifiche sull’argomento, tutte inquadrate in un modello teorico che «si incentra su distinti deficit di “processamento sociale ed emotivo” tipici dello spettro di disturbi autistici (tipo di ideazione) e di tipo psicopatologico (preoccupazioni morali)».
Così sono giunti a conclusione, commenta Rossini, che «il credo religioso è positivamente associato alle preoccupazioni morali e che l’associazione negativa tra ‘credo religioso’ e pensiero analitico possa essere spiegata dalla correlazione negativa che lega la preoccupazione morale al medesimo pensiero analitico».
Gender e percezione morale
Non hanno invece rilevato «alcun legame tra la tipologia di ideazione e l’esistenza di un credo religioso e spirituale. E ritengono che quanto da essi trovato: 1) mal si colleghi con la teoria che un credo religioso e spirituale si correli con la percezione delle proprie azioni; 2) suggerisce che le differenze di genere (maschi/femmine) possano essere spiegate da differenze nella percezione morale».
Deduzioni "poco scientifiche"
In tal senso, anche il professor Filippo Tempia, neuroscienziato, docente all'Università di Torino e membro dell'istituto scientifico della fondazione "Cavalieri-Ottolenghi" precisa ad Aleteia che «nell'articolo di Jack e collaboratori non si dice assolutamente che la fede religiosa modifica il cervello o che ci porta a pensare in modo meno critico e più sociale ed empatico. Lo studio paragona semplicemente persone che hanno la tendenza a ragionare in modo più critico e analitico, rispetto a persone che rispondono in modo più intuitivo (nei problemi posti in questo studio le risposte intuitive sono errate)».
Il fine della ricerca
La prima conclusione è che il numero di persone che credono in Dio è minore nel gruppo di individui che ragiona in modo più analitico. «Questo risultato non è nuovo, il primo studio risale al 2012. Infatti il fine di questo nuovo studio è un altro: distinguere se la maggiore frequenza di credere in Dio sia correlata con maggiore attitudine sociale o maggiore preoccupazione morale. I risultati mostrano che quest'ultima è correlata ad una più alta frequenza di credere in Dio, mentre l'attitudine sociale non lo è per nulla».
Le teorie smentite
Questo risultato, aggiunge Tempia, «smentisce molte teorie sociali che tendono a spiegare il credere in Dio come un tratto evolutivo che è stato selezionato per i vantaggi sociali che forniva. Un'altra falsa teoria che viene smentita è che il credere in Dio derivi dalla tendenza del nostro cervello ad attribuire una mente a tutto ciò che agisce: la pietra che cade, l'acqua che scorre, ecc».
Questo studio, inoltre, «dimostra che la capacità di comprendere le altre persone in quanto agenti dotati di volontà non è correlata con una maggiore, né minore tendenza a credere in Dio. L'unico fattore veramente correlato con il credere in Dio, per questo studio, è la preoccupazione morale».
Il cervello non c'entra
Inoltre il neuroscienziato rimarca che «questo studio non lo ha proprio guardato il cervello: si tratta di esperimenti di psicologia senza nessuna misura strumentale».
Lo studio di Jack e collaboratori dimostra che «la correlazione tra maggiore tendenza a credere in Dio e minore ragionamento analitico non è vera, ma è il risultato del fatto (dimostrato in questo lavoro) che le persone con maggiore ragionamento analitico hanno meno preoccupazione morale per gli altri. La vera relazione, secondo questi autori, è unicamente tra maggiore credere in Dio con maggiore preoccupazione morale».
Causa o effetto?
Un limite dello studio di Jack, rileva infine Tempia, è che «non è in grado di dire quale è la causa e quale l'effetto, ovvero se la preoccupazione morale porta a credere in Dio o se il credere in Dio generi la preoccupazione morale, o ancora se la correlazione è dovuta ad un terzo fattore non considerato nello studio».