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Che cos’è il “Quiet quitting”

felicità

Ragazzi si prendono un pausa in allegria

Lucandrea Massaro - pubblicato il 04/10/22

Una moda passeggera o una nuova consapevolezza delle giovani generazioni non più ossessionate dalla carriera?

Non si tratta di abbandonare il lavoro, non è questo il “quiet quitting” di cui si parla da qualche tempo sui social e sui giornali italiani e americani. Si tratta piuttosto di un modo diverso di pensare il proprio rapporto con la carriera e sono i più giovani ad usare questo hashtag per parlarne.

In cosa consiste?

Inquadriamo meglio la questione, cosa si intende quando si parla di “quiet quitting”? Sostanzialmente questo: anziché lasciare il posto fisso come hanno fatto 8 milioni di italiani nel dopo pandemia (dati Inps) preferendo spesso la libera professione, ci si limita a lavorare lo stretto necessario. Letteralmente si «lascia lentamente». Cosa vuol dire nella pratica quotidiana? Che si mettono dei paletti. Si lavora quanto basta, evitando ad esempio gli straordinari oppure si evitano mansioni non espressamente contenute nel proprio contratto o in generale qualsiasi extra oltre il dovuto. A volte si evitano anche forme normali di collaborazione tra colleghi non esplicitate tra le proprie mansioni, cosa che talvolta può diventare problematico.

Dalla pandemia una svolta?

I due anni alle nostre spalle di pandemia hanno avuto sicuramente un impatto sulle vite di moltissime persone, in particolare i giovani e giovanissimi che magari si sono affacciati al mondo del lavoro da poco o addirittura direttamente durante il periodo dei lockdown e dello smartwork massivo e hanno potuto farsi una idea molto precoce su quanto – spesso – il lavoro diventi oltre alla necessità di portare a casa uno stipendio, anche un peso che confligge con le aspettative di vita e di una vita fatta di relazioni, amicizie, tempo libero. Il mito della vita dedicata al lavoro sembra scricchiolare laddove è più radicato, gli Stati Uniti, da cui proviene questa nuova richiesta: conciliare i tempi di vita con quelli di lavoro. In una parola? Respirare.

Diversi esperti tendono ad associare questo fenomeno a un calo significativo delle sensazioni di gratificazione e soddisfazione sul lavoro, e in parte alle conseguenze a medio e lungo termine della pandemia. «Dalla pandemia in poi il rapporto delle persone con il lavoro è stato studiato in molti modi, e la letteratura sembrerebbe sostenere in generale che in tutte le professioni quel rapporto sia cambiato», ha detto al Guardian la docente della University of Nottingham Maria Kordowicz, che si occupa di comportamento organizzativo nelle imprese.

Il Post

Vedere che si può stare a casa invece che nel traffico, poter pranzare con il coniuge invece che separati, scoprire che quando si timbra virtualmente il cartellino da casa si possono fare ancora molte cose insieme o con gli amici è una opportunità a cui molti non vogliono più rinunciare, e in fondo – fatta salva una buona etica del lavoro – perché dovrebbero?

Colpa dei manager?

Esiste però un’altra interpretazione della questione, supportata da una analisi della prestigiosa Harvard Business Review, secondo la quale il cosiddetto “quite quitting” (o abbandono silenzioso) non riguarda tanto la volontà dei dipendenti di lavorare di più o di meno o con maggiore o minore coinvolgimento, quanto invece dalla capacità di un manager di costruire un rapporto con i suoi sottoposti che non li induca a fare come scatti degni di un centometrista quando arriva l’orario di uscita.

Secondo il report 2022 State of global workplace di Gallup – che ogni anno fornisce dati di vario tipo sul lavoro in giro per il mondo – solo il 14% dei dipendenti in Europa può essere ritenuto davvero coinvolto nella propria attività lavorativa. La tesi della Harvard Business Review è quindi che la diffusione del fenomeno in questi mesi ha molto a che vedere con un fallimento dei manager nel conciliare gli obiettivi aziendali col benessere individuale e collettivo dei propri dipendenti. 

Wired

Una frattura generazionale

Sono cambiate le priorità esistenziali delle persone, questo accade per tutte le generazioni naturalmente, ma per i giovani c’è anche un substrato ulteriormente diverso, parliamo dei 20-30enni, la Generazione Z, che sono abituate a vivere la propria esperienza come qualcosa che li riguarda integralmente e su cui non sono disponibili a fare compromessi. E’ quello che dice il sociologo e saggista Francesco Morace al Corriere della Sera:

non sono disponibile a fare compromessi. Fanno il minimo sindacale […] questa generazione in particolare si comporta così perché noi adulti li abbiamo messi nella condizione di comportarsi così e dall’altra parte perché il mondo del lavoro ha una grande responsabilità di aver svuotato di valori questo momento. […]

D’altro canto il mondo del lavoro offre ai giovani meno stabilità, stipendi più bassi e meno occasioni di crescita personale e professionale

questo incide molto ma incide ancora di più il rapporto che le giovani generazioni con il denaro. Non dimentichiamoci che questa è una generazione ad avere tutto gratuito o tramite scambio […] sono abituati a relativizzare il valore del denaro.

Il tempo vale molto di più e le aziende – che finora lo hanno monetizzato in molte forme – non hanno quasi nulla da offrire a questi ragazzi. Siamo di fronte ad una nuova fase del capitalismo, con molte implicazioni ancora da comprendere appieno…

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