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Sapete chi è il mito di Alessandro D’Avenia? Proprio Lui

ALESSANDRO D'AVENIA

OMAR BAI / NURPHOTO / NURPHOTO VIA AFP

Paola Belletti - pubblicato il 27/09/22

L'insegnante e scrittore ha accettato la sfida che il Corriere della Sera ha proposto a lui e altri autori: racconta il tuo mito. Cristo è il vero mito, ma non nel senso superficiale e riduttivo che intendiamo di solito. E' Lui che è in grado di raccontare a noi la nostra stessa storia, è in Lui, nella relazione reciproca, che scopriamo non solo chi è Dio, ma anche il nostro volto.

Alla ricerca del nostro volto

Mi ricordo esattamente il momento in cui ho visto questa realtà, strana ma così ragionevole e commovente che non mi ha sfiorato il sospetto fosse una suggestione. La vedevo.

Ero una bambina di circa undici anni: camminavo sul vialetto di casa della mia migliore amica. “la Greta”, mentre stavamo uscendo per andare a fare un giro in bici, stavo pensando a Gesù e, contemporaneamente, come a precipizio, ho pensato a me e a tutti gli uomini esistenti, esistiti e futuri: d’improvviso ho visto che il Suo volto era dentro a quello di ognuno di noi, lo spiegava, gli dava la matrice, si nascondeva nei suoi difetti e ne suggeriva la perfezione. Era semplicemente una cosa che stavo osservando – con gli occhi della mente – e che mi fece accelerare il battito e provare spavento, ma soprattutto meraviglia e una specie di allegria, come se finalmente il segreto più importante di tutti mi fosse stato svelato. Credo sia stato un dono, ecco.

Ora, questo ricordo personale – più ancora di letture autorevoli che pure ci evitano di sbandare su temi tanto delicati, mi ha permesso di trovare particolarmente familiare e illuminante la riflessione di Alessandro D’Avenia del 24 settembre. Che questa volta va spedito alla sorgente, alla sua, delle sue intuizioni, del mestiere che fa, di ciò che è come persona: Cristo.

Mi dispiace se come un’edera ostinata e infestante quasi ogni settimana allungo un tralcio in più per attingere da parassita alle sue parole, ma credo convenga approfittare e nutrirci di cibo buono, salubre, gustoso ogni volta che se ne abbia l’occasione.

Cosa c’è di più decisivo, nella vita di una persona, che decidersi rispetto a Cristo? O è un folle o Dio stesso. Tertium non datur, si dice in questi casi.

Esercizio dialettico? Potrebbe, certo, ma difficile reggere un gioco simile, essendo talmente attanagliati, anche i più per bene e distratti, dal problema dei problemi: perché ci troviamo al mondo? E il dolore, la gioia, l’amore?

Qual è il tuo “mito”? E cosa racconta?

Leggendo a colpo d’occhio gli altri titoli della serie CorSeraRitratti d’Autore viene in mente proprio una cosa simile a quella che confusamente ho provato a descrivere col mio ricordo infantile: il volto che sceglie di ritrarre D’Avenia è il volto di tutti gli altri volti, il nome del gruppo a cui tutti gli altri elementi, strani, originali, eroici o dissoluti che siano, appartengono. (E molte opere ben prima, meglio e più a fondo di qualsiasi pensiero personale nella Chiesa ci educano a riconoscere in Cristo il calco in cui tutti prendiamo forma definitiva. Non ultimo il Sommo Poeta balbetta mirabilmente questo mistero in cui, sempre per mezzo di Dio, riesce a guardare: «dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige»)

La cosa interessante in senso letterale, poiché entra di prepotenza e si piazza nel mezzo della vita, è che Cristo non è osservabile con distacco, da fuori; non lo si può studiare davvero senza lasciare che Egli manifesti la Sua natura di perenne relazione: in “su”(Trinità), e in giù verso di noi.

Ma basta complicare, D’Avenia parte dalla richiesta della rubrica: comporre il ritratto del proprio mito. Per lui è Cristo e Cristo come mito reale, storico, ontologicamente vero: come fanno le storie, i miti, racconta e spiega Dio a noi e noi a noi stessi.

Conoscere entrando in relazione

Dice infatti che l’unico modo che ha a disposizione per raccontare Cristo è

provare a raccontare il rapporto con lui, e non perché sia rilevante, ma perché il suo volto si mostra solo in modo relazionale: lo vedi nella misura in cui rispondi al suo sguardo.

CorSera

Cristo non rimuove ostacoli, anzi, l’immagine che l’autore richiama come una delle più significative per il suo pensiero su Cristo è quella in cui Lui stesso è schiacciato da un peso e un altro, un uomo normale e probabilmente impegnato in altro fino a quella molesta richiesta, lo aiuta a sollevarlo.

(…) da bambino, del divino mi affascinò il contrario (della fuga dalla realtà in un mondo superiore, composto e consolante, NdR). In chiesa vidi l’immagine di un uomo che ne aiuta un altro schiacciato da una trave: si trattava di un contadino di Cirene che sorregge un condannato alla crocifissione, Cristo. Quell’immagine non mi consolava, mi guardava e sfidava. Era il contrario di un tranquillante: Cristo non mi ha protetto dalla vita, mi ci ha spinto dentro o contro.

Ibidem

Tutte le cose ha fatto nuove, a partire dal sacrificio

Ora arriva l’affondo, qualcosa che sempre fatichiamo a comprendere, come restassimo ostinatamente dei pagani naturali: Cristo viene a fare nuove tutte le cose, a partire proprio dal sacrificio. Sembra una contraddizione: non ci hanno tormentato fin da piccoli con l’insegnamento spigoloso e duro di come il figlio di Dio sia venuto a scarificarsi per noi e di quanto noi dovremmo almeno provare a ripagarlo per questo arduo lavoro?

La prima cosa che ha sacrificato, bruciandola in un mistero nuovo, è proprio il modo in cui noi concepiamo il rapporto con Dio: non ci chiede di offrire sacrifici, di rinunciare a qualcosa per ottenere da lui protezione e la possibilità di passare illesi nella tempesta furiosa dell’esistenza.

Cristo invece dice: «Misericordia io voglio e non sacrificio»(Mt 9), ponendo fine al rapporto commerciale e sacrificale con Dio (se fai il bravo e ti sacrifichi per lui, Dio ti ama) e inaugurandone uno gratuito (Dio già ti ama, non vuole niente se non che tu lo sappia e lo sperimenti).

Ibidem

Ma che liberazione sarebbe la Sua se ai soliti sacrifici che già offriamo ai diversi idoli che ci costruiamo o ci troviamo imposti ne avesse aggiunto uno impossibile da eguagliare o compensare in alcun modo? Infatti non è questo che è venuto a fare, ma proprio il contrario:

Cristo è stato ucciso perché metteva in crisi il sistema sacrificale e di potere degli uomini, per restituire all’uomo l’energia creativa e libera dell’amore al posto di quella distruttiva e ripetitiva del potere: non domino dunque sono (qualcuno), fonte di ogni violenza e frustrazione, ma sono amato dunque (vado bene come) sono, fonte di ogni creatività e crescita.

Ibidem

Mi stai guardando e amando?

Ci giriamo intorno tutti, affannosamente, a volte disperatamente, spesso da adulti compassati dissimulando la fame e spacciandola per controllato digiuno: è l’essere amati che cerchiamo, essere guardati, compresi come intero, accettati prima di emettere alcun suono intellegibile.

Questa compassione preventiva e totale è la sola condizione che ci permette di metterci a correre e cantare e, se ne siamo richiesti, persino a costruire sofisticate strutture, immaginare mondi, costruire macchine. Tutto, ma dopo e solo dentro questo sguardo appagato di continuo.

Il frutto di questa relazione primaria dunque non è l’inattività, pur generando pace, ma una pace febbrile, vivacissima, instancabile.

Se si diventa cristiani così – che poi è l’unico modo: che significa credere senza praticare, si chiede D’Avenia? Come fai ad amare una donna e a non frequentarla e spenderti con la vita nel rapporto con lei?- la fede è liberata da quell’ossessione che ha soggiogato praticamente l’intera civiltà contemporanea, quella della prestazione.

Essere amati e amare (cioè ri-crearsi e ri-creare il mondo, ogni giorno, con l’inventiva e l’energia che l’amore ha e dà) è l’unico modo che ho trovato per godermi la vita. Cristo, se è Dio fatto uomo, non è la favola che spinge a puntare sull’aldilà, ma una sfida lanciata all’aldiquà. Cristiano non significa buono, serioso, angelico, perfetto, ma imperfetto, sveglio, inquieto, innamorato, creativo, combattivo, di buon umore, nei limiti dei propri limiti che diventano bellezza, come il ruscello che feconda i campi correndo negli argini e cantando quando trova un ostacolo.

Ibidem

In questa compassione profonda nasce la creatività

Così, armati della propria imperfezione strutturale, siamo capaci di metterci per strada e di fermarci ad aiutare quel povero Cristo che sta crollando sotto alla trave. La richiesta la sentiremo arrivare direttamente da lui:

«Dammi una mano, guardati intorno, non scappare, moltiplica la vita in e attorno a te», ma nascono in me energie che vincono la mia pigrizia, indifferenza ed egoismo. E soprattutto la noia. Per me Cristo è adrenalina non oppio, vita che sveglia la vita: inferno, purgatorio e paradiso non sono posti in cui andrò, ma posti in cui sono già in base a quanto amore (vita) ricevo e do.

Ib.

Questa postura è la sola che ci consente di vivere non più come sotto una pioggia incombente di meteoriti da evitare (a proposito: avete saputo della sonda Dart che ha colpito un asteroide? Incredibile frontiera della difesa del nostro bellissimo pianeta), ma disponibili a fare la nostra parte, soprattutto quella nascosta. Non ha fatto così anche Lui? per trent’anni è rimasto nel suo paesino all’estrema periferia dell’impero e ha lavorato come carpentiere.

Vita nascosta, non invisibile

Mi trovo bene con uno che «salva» il mondo, spendendo trenta di trentatré anni a fare il falegname in un paesino sperduto. Per essere pienamente me stesso non conta che parte io reciti nel teatro del mondo, ma se vivo tutto per amore e per amare. Non è un modo per farmi piacere la vita — ne scorgo e soffro i limiti con il dolore che la passione per la bellezza comporta — ma per non voltarmi dall’altra parte. Anche in croce Cristo non smette di amare, la sua «passione» è eros per l’uomo e per Dio. E anche io voglio vivere sempre di e con «passione», libero dall’illusione che la felicità consista nel proteggersi dal male e dal dolore, quando è invece vivere tutto, anche il dolore e il male, per e con amore.

Ibidem

Se solo riuscissi ad abbassare più spesso il volume delle mie lamentele su quanto dura sia la vita e ostiche alcune circostanze, potrei godermi il piccolo inestimabile lavoro che solo io posso portare avanti.

E così si impegna a renderlo presente agli altri in quell’inferno, non usando il male come alibi per fare altro male o per disperarsi, ma per superarlo con un bene, anche minuscolo. Infatti nella stessa pagina Etty annota: «Adesso apparecchio la tavola». Dove qualcuno apparecchia per amore c’è Cristo, cioè Dio che s’incarna in chi glielo permette vivendo con «passione» ogni situazione.

Ibidem

Non tendiamo solo a Dio come destino appagante ogni nostro desiderio ma siamo mossi da lui come inesausta origine di ogni volere.

Chi dipinge chi, dunque, mentre cerchiamo di fare il ritratto a Dio? Più cerchiamo di distinguerne i tratti e di riprodurli su tela (carta, pietra, vita) più lui resta impegnato nell’opera di disegnare noi. Non c’è altro modo se non entrare in, accettare anzi, questa dinamica già in atto.

Chi dipinge chi?

Così il suo ritratto si rivela essere anche il mio e il nostro, come nel sorprendente Autoritratto che Albrecht Dürer dipinse nel 1500 identificandosi con Cristo o come il monaco e pittore Epifanio che, non riuscendo a trovare un modello adatto per dipingerne il volto, decise di prendere il tratto più vero di ogni persona che incontrava: il sorriso di un bambino, la tristezza di una prostituta, la malinconia di un mendicante, la gioia di un’innamorata, il dolore di una madre in lutto, la forza di un contadino…

Ibidem
Durer_-_Selbstbildnis_im_Pelzrock_-_Alte_Pinakothek.jpg
Dürer – Selbstbildnis im Pelzrock – Alte Pinakothek, Public Domain
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alessandro d'aveniagesù cristo
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