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Plusdotato bullizzato si suicida. La madre scrive un libro riflettendo

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Marie Lucas - pubblicato il 12/09/22
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Marie ha attraversato l’indicibile, eppure oggi è una madre solida, vivace e gioiosa, la cui forza (mescolata a fragilità) impone ammirazione. Ad Aleteia questa donna affida una forte testimonianza in seguito al suicidio del secondo figlio, Adrien, morto all’età di 25 anni.

«Sai, mamma, dopo l’inverno viene sempre la primavera: la vita non si ferma mai»: le aveva detto un giorno il figlioletto 3enne. Assai rapidamente lei comprese, nel suo cuore di madre, che quel bambino era “differente”. “Superdotato”, le disse una psicologa senza mezzi termini. Seguì un percorso molto impegnativo per accompagnare quel ragazzo straordinario, appassionato, esigente, riservato, idealista, musicista, che progrediva nella vita come un funambolo… 

Brillante, Adriano portava in sé grandi speranze e grandi vulnerabilità. Alla fine, malgrado la tenerezza dei genitori e dell’entourage, finì per scegliere di volare via definitivamente il 24 luglio 2018. 

Mamma dal cuore strozzato, mamma amorevole, mamma spesso smarrita, Marie ci ricorda come la vita di Adrien sia stata una grande gioia e anche un grande mistero. Grazie a Dio – «mi ha confortato trovare nella Bibbia qualcosa che riecheggiasse la mia sofferenza» – e alla Vergine santa, Madre dei dolori, questa madre vuole portare un messaggio di Vita. Con umiltà rara ha consegnato qui una testimonianza potente, di verità disarmante. Marie porta in sé il desiderio di gettare una luce sul cammino degli altri «perché le persone siano rischiarate dagli scogli su cui noi ci siamo incagliati». Dal Bujais, dove vive col marito Arnaud e due delle loro figlie – la maggiore invece è sposata – ha accettato di rispondere alle nostre domande. 

Aleteia: Suo figlio si è suicidato all’età di 25 anni, lei dice di aver avuto bisogno di scrivere per cercare di comprendere… vale a dire? 

Marie de Jauréguiberry: Volevo comprendere perché mio figlio avesse deciso di morire. È impossibile, per una madre, pensare al suicidio del figlio. Per uscire dal trauma avevo bisogno di rileggere la storia di Adrien per trovarvi una qualche logica – la nostra anima ne ha bisogno. E poi credo alla forza della testimonianza, specialmente per quanto riguarda il bullismo. Allora ho fatto la mia indagine… Adrien mi ha aiutata, e poco a poco dei pezzi di puzzle si sono avvicinati ed è apparso uno scenario che mi era ignoto. 

A.: Si riferisce all’infanzia di Adrien e in particolare al suo “essere diverso”? Vede un nesso causale? 

M. de J.: È difficile dirlo. La “differenza” relativa all’Alto Potenziale Cognitivo (APC) si esprime nel modo di guardare il mondo, con un’ipersensibilità e una coscienza aumentata delle questioni esistenziali. Vedono ciò che gli altri non vedono, restano a distanza e hanno difficoltà a unirsi ai loro simili. Partecipare a una conversazione banale non è possibile, per loro, perché cercano del senso in tutto e in tutti – Olivier Revol, uno degli psichiatri che ha accompagnato Adrien, li definisce “sentinelle”. Talvolta attraversano terribili angosce, si annoiano in compagnia, si sentono incompresi e si isolano. Tuttavia ne soffrono terribilmente, perché hanno sete di incontri e desiderio di essere riconosciuti nella loro originalità. È lì che talvolta s’insinua il bullismo… E Adrien, che non si sapeva difendere, l’ha subito per tre anni. 

A.: Il bullismo che suo figlio, nonché alcuni suoi compagni, ha subito, mette i brividi… È questa la causa del suicidio di suo figlio? 

M. de J.: Non so dirlo. Il bullismo ti soverchia, distrugge durevolmente l’autostima e chi lo subisce conserva angosce e traumi per tutta la vita. Talvolta fino al peggio. È perciò che ho scritto questo libro, per scendere nelle profondità dell’essere e della sofferenza di una persona con APC che subisce bullismo. Fortunatamente ci sono anche begli incontri, belle amicizie – ce ne sono stati per Adrien –, ma sono rare… Aggiungo che gli adulti hanno un ruolo importantissimo nella prevenzione del bullismo, specialmente negli istituti scolastici (con l’associazione “Marion la Main tendue” o col metodo della preoccupazione condivisa, per esempio). A casa è più complicato, perché il bambino non parla e i genitori non vedono niente, anche se spesso ci sono piccoli segnali d’allarme. 

A.: Lei dice che il senso di colpa è una «strada senza uscita»… e allora come fa a disfarsene? 

M. de J.: È la sensazione più violenta che assale i genitori di figli suicidi. Ho finito per comprenderne il funzionamento, e soprattutto ho percepito che tale senso di colpa è, letteralmente, un male – che ci si fa da sé – da combattere. Alla bisogna ho diverse armi. Anzitutto mi colloco sotto al cuore di Dio, e così mi decentro. Mi sono anche fatta un’immagine mentale di pellicola e forbici per tagliare il film che mi scorre davanti a nastro… E poi mi capita di gridare verso il cielo, e allora mi calmo. 

A.: Quando suo figlio ha attraversato la prima crisi di angoscia con ospedalizzazione, lo psichiatra la escluse dall’alleanza terapeutica, giusto? 

M. de J.: Sì. Adrien ha incontrato uno psichiatra che mi ha messa molto in discussione nella mia capacità di essere madre. Non ho avuto il diritto di scambiare una sola parola con lui, è stato molto violento. Poiché ero emotivamente debordante non ho osato affrontarlo – anche per mancanza di esperienza. Il figlio, pur se diventato adulto, resta figlio dei suoi genitori: ha la sua storia e chi se ne prende cura deve tenerne conto. Sennò è una cosa grave. Un genitore non può e non deve affidare il proprio figlio a una persona che escluda dalla cura la famiglia. Ciò detto, le cose evolvono – fortunatamente! Bisogna sapere pure che esistono altre strutture di accompagnamento, come ad esempio i day hospital con una équipe multidisciplinare che segua il paziente. 

A.: Accompagnare la sofferenza psichica del figlio è una prova pesante davanti alla quale i genitori sono spesso impreparati… Che cosa vorrebbe dire oggi a quei genitori? 

M. de J.: Non bisogna restare soli. Bisogna avvicinarsi ad associazioni – ad esempio Phare Enfant Parent – che accompagnano i genitori e i figli affetti da malessere. Isolarsi significa privarsi di aiuto esterno. Così mi sono potuta confrontare con altri genitori che davano una mano all’Unafam, e anche con una ragazza che un tempo viveva una sofferenza di quel tipo: grazie a lei ho meglio compreso la meccanica delle angosce e delle idee suicide. In ultimo, vorrei dire loro che la vita non finisce col suicidio del figlio. Quando si perde quello che era il centro della propria vita ci si può ridestare agli altri, e ci si accorge che c’è una fonte di ricchezze e che tutto ci invita alla vita! 

A.: Lei ha parole molto belle sulla madre: “ricettacolo”, “pattumiera per le angosce”, “mano tesa”… come una madre può aiutare il figlio? 

M. de J.: È essenziale che le madri custodiscano la fiducia in loro stesse e in quanto possono dare al figlio. Personalmente, io ho dubitato, specialmente per via di quello psichiatra; e invece quel legame di amore indefettibile il figlio deve assolutamente sentirlo. Noi siamo il suo pilastro, che gli permette di avere e mantenere fiducia in sé stesso, nella vita, e di guardare più in là, oltre le sofferenze. Questo vincolo di fiducia lo aiuta a proiettarsi in avanti. 

A.: La sua fede ha avuto un ruolo importante, nella sua discesa negli abissi… Ce ne può parlare? 

M. de J.: Ho sempre avuto un legame molto forte con il Cielo. Da giovane ho conosciuto il dolore di perdere mia sorella, e sono stata consolata dalla potenza di pace, d’amore, di gioia che promana dal Cristo. Quando mio marito mi ha annunciato la morte di Adrien, di colpo sono come stata “portata” in cielo con Adrien. Poi è stato terribile. Mi sono sentita spaccata in due, fra terra e cielo, per almeno un anno… Fortunatamente sono stata accompagnata da uno psicologo cristiano – l’ho cercato fiduciosamente e l’ho trovato! – e oggi Cristo mi guida, la sua Parola parla al mio cuore e grazie alla musica di un gruppo di lode (Glorious) sono immersa nella lode e nella luce. 

A.: C’è un ultimo messaggio che vorrebbe rivolgere ai nostri lettori? 

M. de J.: Quando Adrien è morto, Natacha St.-Pier stava uscendo col cd “Aimer c’est tout donner”. Mi ricordo di quel 23 agosto in cui sono andata in giardino e mi sono sentita nuovamente capace di ascoltare della musica – era un canto che riprendeva le parole di santa Thérèse [di Lisieux] “tu jetteras des fleurs” [“spargerai fiori” N.d.T.]. Ho sentito allora una gioia immensa, con la certezza che mio figlio fosse nella Pace. Per questo chiudo così il mio libro

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]