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D’Avenia e il ritorno sui banchi del presente

ALESSANDRO D'AVENIA

OMAR BAI / NURPHOTO / NURPHOTO VIA AFP

Paola Belletti - pubblicato il 06/09/22

Che bello, si ri-comincia! Cosa significa riprendere, dove si nasconde la gioia, come si scopre lo straordinario di cui abbiamo fame nell'ordinario che a volte ci nausea?

Settembre, si riparte

Siamo alle soglie, ormai: davanti a noi la porta del nuovo inizio. L’anno – scolastico, certo, ma anche sociale, professionale, sportivo, quello pieno di “a settembre ricomincio” – ci sta guardando, aspetta di cominciare. Basterà una bussatina e si aprirà.

E’ nuovo, non c’è mai stato prima, questo anno, eppure tutti si ragiona soprattutto in termini di ritorno, ripresa, ripetizione, routine e normalità. La “erre” chiama lo scorrere, il divenire come il panta rei di Eraclito – forse – (ma anche di Francesco Gabbani, va bene lo stesso). E allora perché diciamo noia e non gioia?

Siamo bizzarri, tanto poco noti a noi stessi o vergognosi addirittura da non voler ammettere che, invece, le solite cose, i ritmi che conosciamo, il ritorno a luoghi familiari – più o meno amati, ci attira e ci fa stare bene.

Ma dove eravamo stati?

Frenetici e poco convinti auto-promotori dell’eccezionalità delle nostre esistenze in versione estiva, non sentiamo segreto sollievo all’idea di infilarci di nuovo nel ritmo di giorni feriali, di appuntamenti cadenzati, di impegni che ritornano e noi a loro?

Io sì, lo ammetto.

Credo deponga a favore di questa attesa che sa di promessa la percezione di un’estate lunga e faticosa, senza vacanze vere e proprie e con figlie grandine che iniziano ad averne abbastanza di stare a casa. Lo so, anche quelle che non lo ammettono, hanno voglia di rivedere i compagni e persino i professori.

Campi e tesori nascosti

Ma la fregatura sta proprio qui: e l’estate vacanziera e i giorni della scuola custodiscono lo stesso segreto, imbracciano il presente come un fucile, ma spesso siamo noi che ci dimentichiamo il colpo in canna.

Più chiaramente lo racconta Alessandro D’Avenia, le sue riflessioni sono sentieri tracciati in grado di portarci più in alto o più a fondo nella vita che già stiamo vivendo.

Gioia, non ho detto noia

La ripresa della routine quotidiana dopo le vacanze è spesso accompagnata dalla tristezza, come se si passasse dalla vita vera, quella libera della pausa estiva, a una vita prigioniera, fatta della ripetizione di gesti, orari e impegni prescritti.
In questa ripetizione manca la gioia, che sembra dipendere solo dallo straordinario, come mostra la nostra iper-comunicazione social estiva. A corto di gioia quotidiana, viviamo l’ordinario per fuggirne.

Ultimo Banco, Corriere della Sera, 4 settembre 2022

L’errore, forse, è avere due facce (che poi sono due “affacci”), due sguardi opposti, rivolti uno troppo indietro e uno troppo in avanti; inconsapevoli Giani bifronte ci perdiamo la realtà e la sua ordinaria ricchezza, perché restiamo sulla soglia e ci perdiamo il presente.

Nel presente, soprattutto questo che ha quasi alle spalle ancora molto accaldate l’estate, c’è invece la ghiotta occasione di ri-prendere, che è assai diverso dal ripetere e basta. Lo mostra D’Avenia attraverso il personaggio di un film questa volta, ed è particolarmente opportuno perché i film sono esattamente “riprese”.

L’avventura di guidare sempre lo stesso autobus

Affamati di eccezionale, di bellezza inequivocabile ci avviciniamo all’ordinario senza aspettarci la novità che invece rinserra. Come si fa, allora, si domanda il prof 2.0 ( e versioni successive)

a trovare lo straordinario nell’ordinario, la gioia nel quotidiano?

Prosegue:

In un bel film del 2016 di Jim Jarmusch, intitolatoPaterson, nome sia della cittadina del New Jersey in cui si svolge la storia sia del protagonista (interpretato da Adam Driver), un autista ripete la sua routine quotidiana, come accade con le fermate del suo autobus. Eppure Paterson trova gioia proprio in quella ripetizione, non in quanto ripetizione, ma in quanto ripresa, termine con il quale il filosofo danese Kierkegaard intitolò un saggio attorno al desiderare l’istante, permettendogli così di offrirci i suoi tesori. Insomma le cose sono generose con noi non se le «aumentiamo» o manipoliamo, ma solo se trovano le nostre mani aperte.

Ibidem

Il lavoro più bello del mondo

Questo esempio mi ricorda un episodio che mi è stato solo riferito, per cui accettatelo nella sua imprecisione da testimone di terza mano: Don Giussani avrebbe consolato un uomo che si confidava con lui abbacchiato per la ripetitività e lo scarso fascino del suo lavoro, il casellante in autostrada.

Il sacerdote brianzolo lo scosse col suo ruvido entusiasmo portandolo a rileggere quel lavoro come uno dei più esaltanti del mondo. “Pensa che meraviglia, ma è un mestiere bellissimo il tuo! Puoi incontrare continuamente le persone, sempre una diversa dall’altra; puoi guardarle negli occhi, sorridere loro, incrociarle nel loro viaggio che è come la vita stessa, …”, disse all’incirca.

Questo modo di vedere la faccenda, in effetti, fa quasi rimpiangere i tempi in cui non ci si accaniva su un’indifesa quanto impassibile voce registrata e i suoi “Arrivederci” a tutto volume.

Ma questo è un altro discorso, ogni progresso che aiuti il benessere generale è ben accetto. Nessuno progresso però potrà mia sostituirci in questo lavoro di ascolto della realtà e quindi nel gusto che la continua scoperta del tesoro celato in ogni istante può donarci, estate o inverno che sia; uggioso lunedì o spensierato sabato pomeriggio, cambia poco.

Smettere di essere sordi

La nostra mancanza di gioia in fondo è sordità alla realtà: assurdo viene da «sordo», e la vita diventa assurda nella misura in cui noi siamo sordi ai suoi spunti. Ciò vale in qualsiasi ambito: lavoro, amore, luoghi… diventano noiosi e vuoti nella misura in cui li ri-petiamo e non li ri-prendiamo. Come fare?

Se siamo aperti, liberi, in ascolto, quel lavoro, quell’amore, quel luogo… saranno occasione di «ri-presa», cioè qualcosa che è sì come prima ma sempre con qualcosa di nuovo da darci, come quando riprendiamo (non nel senso di farne un video ma di tornare a guardarli senza stancarci) i tramonti, i volti, i libri… riprendere è trovare il nuovo nello stesso (ri-genera), invece ripetere è trovare lo stesso nello stesso (ri-produce). Nel riprendere c’è gioia, nel ripetere no.

Ibidem

Come l’amico casellante anche Paterson ripete orari, percorsi, fermate e da questi “agenti poco speciali” si lascia scortare all’apertura del caveau con il tesoro dell’oggi. Oggi c’è quella bambina che saltella su un piede alla fermata; solo oggi quel signore anziano ciondola il capo lottando con il sonno seduto a metà del bus; e soltanto oggi la solita signora che sale vicino alle poste ha sorriso a quel ragazzo dinoccolato e magro, e in quel modo poi.

La gioia è legata al senso, in ogni condizione

Potrebbe sembrare un lezioso esercizio per comodi occidentali che non corrono pericoli, questo.

Invece no.

Pericoli se ne corrono anche ora e se ne correvano ancora di più nei lager di sterminio nazisti. Viktor Frankl ne è testimone autorevole. Austriaco internato in 4 campi di concentramento, è lo psicologo che mise a punto la Logoterapia, avendo compreso che l’uomo si perde, soffre e può scegliere l’autodistruzione o la violenza quando non si sente “significativo”

(…) sopravvissuto ai campi di concentramento, nel suo bel libro Uno psicologo nei lager, quando racconta di una giovane nel campo: «La storia sembrerà inventata tanto appare poetica. Questa giovane donna sapeva che sarebbe morta nei giorni successivi. Quando le parlai, era serena, nonostante tutto.
“Sono grata al mio destino, per avermi colpita così duramente – mi disse – perché nella mia vita di prima ero troppo viziata e non avevo nessuna vera ambizione spirituale”. Nei suoi ultimi giorni era come trasfigurata. “Quest’albero è il solo amico nei miei momenti di solitudine”, disse, accennando attraverso la finestra della baracca. (…) “Con quest’albero parlo spesso”, disse poi. Ne fui meravigliato e non sapevo come interpretare le sue parole. Sta forse delirando, ha delle allucinazioni? Le chiesi dunque, curioso, se l’albero può risponderle – Sì! – e che cosa le dice. Mi rispose: Mi ha detto: Io sono qui, io sono qui, io sono la vita, la vita eterna”.

Ibidem

Il presente risponde al nostro appello

Di sicuro qualche studente particolarmente intollerante all’ordinarietà della scuola (che quest’anno finalmente riprenderà davvero: basta mascherine, distanze, banchi solitari) vivrà il suo rientro a scuola come una sorta di internamento, come la deportazione in un campo di concentramento. Invece ci basterà, a tutti, insegnanti, studenti, genitori, collaboratori a vario titolo, ricordarci che entriamo in un campo di concentrazione di ogni bene, di scoperte possibili, di presente irripetibile ma non fuggevole come nuvole di fumo. Il presente va veloce perché si inabissa nell’eterno e questo, noi cristiano, dovremmo ricordarcelo sorridendo.

Solo chi ha orecchie e occhi aperti s’innamora dell’istante e trasforma la vita quotidiana in vita eterna.
Ma quanto coraggio e quanto silenzio richiede tutto questo?
Forse solo qualche minuto, ogni giorno, a partire da oggi.

Ibidem
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