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Afghanistan, un anno dopo il ritorno dei talebani: le donne sono sparite

DONNA, AFGHANA, BURQA

Savvapanf Photo | Shutterstock

Annalisa Teggi - pubblicato il 17/08/22

Recluse tra le mura domestiche, negato l'accesso all'istruzione, licenziate dai posti di lavoro, costrette a fuggire. Eppure le donne dell'Afghanistan resistono alla loro cancellazione anche attraverso un diario online di testimonianze quotidiane.

In questo caso il silenzio non solo non fa rumore, ma rischia di sprofondare in un mutismo atroce. Il mondo si è dimenticato dell’Afghanistan, volge gli occhi altrovee questo sta benissimo al regime dei talebani che esattamente un anno fa, il 15 agosto 2021, entravano a Kabul e riprendevano il potere nel paese. Ci ricordiamo i loro comunicati ufficiali, a fronte delle grida allarmate dell’Occidente. Avevano promesso un governo moderato.

A un anno da quei fatti, oggi l’Afghanistan è un paese alla fame e allo stremo. Bersaglio privilegiato del regime sono le donne. Recluse tra le mura domestiche, negato l’accesso all’istruzione, licenziate dai posti di lavoro, costrette a fuggire.

E il silenzio generale regna su questa tragedia umanitaria, ma c’è chi – anche solo a forza di sussurri – rompe il muro di un mutismo imposto, rischiando la vita.

Repressa la marcia della donne a Kabul

Hanno avuto il coraggio di scendere in strada e alzare la voce per le vie di Kabul. Sabato 13 agosto una quarantina di donne ha osato una marcia di protesta, intonando lo slogan “Pane, lavoro e libertà”. La meta del corteo è stata il ministero dell’istruzione, quella da cui le bambine e ragazze afghane sono sempre più escluse. La loro presenza ha fatto immediatamente intervenire un gruppo armato di talebani che, sparando in aria, ha bloccato il corteo. Le manifestanti sventolavano anche uno striscione con su scritto: “Il 15 agosto è una giornata nera”, riferendosi alla data dell’ascesa al potere dei talebani nel 2021.

Una delle presenti, che per motivi di sicurezza rimane nell’anonimato, ha dichiarato ai giornalisti presenti:

“Dopo un anno di questo governo, la situazione non cambia. Stiamo dimostrando che non resteremo zitte – afferma. – E’ importante far vedere al mondo che le afghane non accettano tutto ciò. Protestiamo contro l’ingiustizia.”

Da NPR
MARCIA, DONNE, KABUL

E questa è una delle poche voci sfuggite alla repressione. Infatti, oltre agli spari in aria, le forze talebane si sono assicurate di fare sparire ogni prova della protesta. Sono stati sequestrati telefoni e videocamere ai corrispondenti stranieri presenti. C’è chi riferisce anche di un ragazzo che passando in bicicletta ha scattato foto e si è visto strappare di mano il cellulare.

Se non si vede, il fatto non esiste. Questa strategia di repressione, però, non riesce a sopprimere tutti i tentativi di chi, avuto un assaggio di libertà nello scorso decennio, non vuole più rinunciarci.

Un diario virtuale a più voci, femminili

A differenza di quello che accade alle nostre latitutidini, il virtuale può essere virtuosissimo. Un’iniziativa a cura di un gruppo di donne afghane sta cercando di custodire uno spazio di memoria condivisa. Il silenzio imposto nella realtà è stato aggirato e sconfitto grazie alla tecnologia.

Un gruppo di donne e scrittrici tra i 22 e i 60 anni, provenienti da diverse province e differenti gruppi etnici, ha trovato una forma di rassicurazione creando un diario online, condiviso grazie a un’app di messaggi sviluppata da Untold, una piccola organizzazione inglese che opera con scrittori messi al margine in terre di conflitti.

Da Financial Times

La parola distingue l’uomo dal resto del creato, è capace di memoria e testimonianza. Grazie a questa app sono stati racconti 1.500 messaggi (200 mila parole circa) che raccontano al plurale gli eventi dal 15 agosto 2021 ad oggi. Piccole storie di famiglie che vivono la paura e la repressione, e di donne che tentano di far sentire la propria voce.

Acqua bollente e una sciarpa rosa

Due esempi significativi ci possono dare un’impressione del clima che si vive in Afghanistan. Il primo è un messaggio scritto da una ragazza di nome Zainab, proprio nel Ferragosto dell’anno scorso, il giorno in cui Kabul è caduta nelle mani dei Talebani.

15 Agosto 2021, ore 19:57. Metto a bollire dell’acqua e ci aggiungo del detersivo per i piatti. Vado a recuperare i miei quaderni e manoscritti, uno a uno li immergo nell’acqua calda. Mio padre mi ha detto che le ceneri dei libri bruciati non possono essere completamente nascoste, ma se li sciolgo nell’acqua e detersivo, come se lavassi un vestito, non rimarrà alcuna traccia dei miei scritti. Ora che i Talebani sono qui, le mie parole sono spazzatura.

Ibid.
mujeres afganistán

Cancel culture, quante volte usiamo quest’espressione sovrappensiero, senza renderci conto dell’atto disumano che è sopprimere una presenza, farne un nulla. Bruciare i libri è un’immagine iconica che associamo con sdegno ai regimi totalitari. Sciogliere i quaderni non un’immagine meno forte, disintegra come fa l’acido sul corpo o sul viso di certe vittime che abbiamo pianto.

Il secondo messaggio ci porta 6 mesi in avanti ed è quello di una donna di nome Parand che racconta un gesto quotidiano di pacifica protesta, per reagire all’idea di essere una non-presenza.

2 Febbraio 2022, ore 16:04. Oggi mi sono alzata con un umore migliore. Nello scegliere i vestiti da indossare in ufficio, ho preso una sciarpa rosa per oppormi al nero che vesto ogni giorno dalla testa ai piedi. Ma non è facile combattere le tenebre.

Mentre eravano per strada con l’auto dell’ufficio, siamo stati fermati a un checkpoint. Un talebano i cui capelli erano più lunghi dei miei ha chiesto al guidatore di abbassare il finestrino. Mi ha guardato con la coda dell’occhio e ha chiesto chi fossi. Allora ho cominciato a tremare come un campo di riso nel vento.

Il guidatore, anche lui spaventato, ha detto lentamente: “E’ una nostra collega”. Indicandomi, il talebano ha detto: “Ditele di vestirsi in modo appropriato”. Il guidatore, che voleva liberarsi di lui, ha acconsentito. Quando l’auto si è allontanata, le mie emozioni sono cambiate come il vento.

La paura ha ceduto il posto alla rabbia. Mi sentivo umiliata. Non è abbastanza indossare un abito nero dalla testa ai piedi? Il mio peccato è una sciarpa rosa? Perché ce l’hanno con le donne? A quali altre forme di umiliazione assisteremo nel tempo a venire?

Ibid.

La lettera scarlatta metteva in mostra il peccatore, il castigo era la visibilità e il vituperio pubblico. Qui assistiamo all’opposto, alla punizione della sparizione … anzi dell’evaporazione.

Cosa (non) si vede da sotto il burqa?

Le donne sono evaporate anche da Kandahar. E’ la tragica constatazione messa nero su bianco da un bellissimo documento giornalistico di Lucia Capuzzi su Avvenire. Ed ‘evaporare’ non è un verbo solo simbolico. Indica la sparizione totale da un luogo in cui, anche prima del ritorno dei talebani, le donne erano emarginate. A Kandahar, infatti, domina la cultura pashutun, fortemente patriarcale.

Ma proprio lì, la giornalista di Avvenire ha raccolto la testimonianza di una donna che fa l’ostetrica e si chiama Habebe. Da questa voce s’impara un punto di vista rovesciato:

«Il primo a scomparire è il contesto. Puoi guardare solo davanti, non vedi che cosa accade intorno a te. Poi, si affievolisce l’immagine frontale. I contorni si offuscano. La rete mescola colori e forme. Infine sparisci anche tu». 

Da Avvenire

Pensiamo al burqa sempre dall’esterno, dal punto di vista di chi guarda una donna che lo indossa. E diciamo che cancella il suo aspetto. Ma fa molto di più. La voce di una donna che lo indossa ci dice che è il mondo a sparire alla vista sotto questo indumento-gabbia.

Non è dunque solo un abito per nascondere l’aspetto femminile, ma per distruggerla distruggendo la possibiltà di vedere il mondo, di sentirsi parte della realtà.

Sotto quel burqa, donne come Habebe continuano a non cedere alla logica dell’annichilimento. Per poter lavorare devono essere accompagnate da un parente maschio, devono accettare di tenersi il lavoro senza essere pagate. Devono subire un violento e costante attacco fisico e psicologico. Eppure tentano piccoli gesti di resistenza, che le mettono in pericolo di vita.

«Perché rischiare – conclude Habebe –? Qualche passo di libertà è l’unica cosa che mi resta»

Ibid.

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