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Promossi, bocciati o “sbocciati”? D’Avenia e la scuola che vorremmo

Alessandro D'Avenia

Photo By Marta D'Avenia

Paola Belletti - pubblicato il 21/06/22

Ci sono cose, della scuola così com'è ora, che andrebbero corrette, altre abbandonate del tutto. A scuola si fa per fiorire...

Comincia l’estate

Freschi di scrutini, i professori, di pagelle consegnate (o scaricate sulle apposite App) gli studenti, ci accingiamo tutti ad entrare definitivamente nella modalità estiva.

Estate è anche la stagione delle bocce, almeno di quelle giocate sulla spiaggia; ma Alessandro D’Avenia prende spunto da quelle che vede giocare da un gruppo di uomini che si sfidano nel parco vicino a casa sua.

Il gusto più grande, per i giocatori di bocce, si prova nel “bocciare” via l’avversario. Calcoli traiettoria e forza necessaria e, se sei uno di quelli bravi, vedrai piombare la sfera coi colori della tua squadra sulla superficie di quella nemica e quella andarsene via, lontana dal boccino.

Ecco che cosa prova chi ha appena ricevuto quella particolare sentenza alla fine dell’anno scolastico:

Bocciare ma non per respingere

Comunque sia l’immaginario linguistico di fine anno si nutre dell’immagine di un avversario che ti «caccia» dalla meta che stavi cercando, a fatica, di raggiungere. Le parole non mentono.

Corriere della Sera, Ultimo Banco

In chi boccia, invece, non c’è affatto questo atteggiamento, riferisce chi di scrutini lunghi e faticosi ha esperienza diretta: la fatica e la durata sono proprio l’effetto collaterale dello sforzo degli insegnanti di capire cosa sia meglio fare per aiutare quel ragazzo o quella ragazza a recuperare, a riaccendersi. Gli obiettivi da raggiungere sono dei parametri che aiutano ad orientare docenti e discenti.

Non so se è sempre così, ma anche da genitore posso confermare che l’atteggiamento generalmente più diffuso nei professori che non abbiano ceduto del tutto alla stanchezza, alla disillusione, alla mortificazione del dover gestire una montagna di burocrazia che non fa che moltiplicarsi, è proprio quello che descrive D’Avenia.

La prolungata segregazione domestica incollati agli schermi per accedere alla didattica a distanza, per quanto necessaria a ridurre la diffusione dei contagi, ne ha propagati altri: sia dal fronte scolastico che da quello medico-psichiatrico i riscontri confermano che molti ragazzi stanno accusando un grave colpo in termini di salute generale, di tenuta psicologica, di motivazione e slancio verso il futuro.

Ogni educatore serio sa che comprendere le cause di un disagio non esaurisce il suo decisivo mandato: deve chiedersi continuamente come poter favorire ora, nel presente, il figlio o lo studente che gli è affidato.

Per questo lo spunto da cui prende le mosse la riflessione di D’Avenia è quello di una mamma che faceva LA domanda:

«Ma secondo voi qual è la stoffa di mio figlio?».

Ibidem

Cari bocciati, cari boccini (d’oro)

Lo scrittore-insegnante ci ha già abituati alla sua grande attenzione al tema della vocazione e dei talenti da giocarsi in essa come il prisma attraverso il quale guardare ai nostri ragazzi. La questione della stoffa ne fa parte: inoltre, se siamo scampoli, qualcuno ci ha tessuto, Qualcuno ci ha voluti fatti così e vuole che di noi noi stessi si confezioni qualcosa di originale e inedito.

Non è questione di emergere, di farcela, di uno su un milione e gli altri a fargli da fan base.

E’ questione di ciò che sappiamo di noi, creature umane, e del nostro scopo. Che non è produrre, non è spiccare, non è nemmeno “spaccare”.

In quelli bravi, che ce la fanno praticamente sempre, che anche in condizioni dure o durissime portano a casa il risultato è meno difficile accorgersi della questione; per questo il compito dei “bocciati” è fondamentale per tutti: qual è la stoffa di ciascuno di loro?

Qual è la stoffa di questi ragazzi che, come dice il nostro sistema scolastico, sono da «bocciare»?
Leggendo il pezzo ed essendo una delle figlie in piena fase Harry Potter, non ho potuto non pensare al boccino d’oro, quello con le ali, conquistato il quale la partita è vinta. Ecco, se di bocce e boccini bisogna parlare, conviene ricordarsi che alcuni di questi volano e valgono la partita e possono decidere un campionato.

“Perché sarete giudicati secondo il giudizio col quale giudicate”

Una delle cose da non portarsi dietro ne “La scuola che vorrei”, che è stato anche il titolo dell’incontro inaugurale della “Scienza servizievole in cammino” inaugurata insieme dalla dottoressa Daniela Lucangeli e D’Avenia, è proprio il giudizio. Sono sicurissima, ancora prima di leggere il prosieguo, che non stanno tratteggiando un futuro di melenso buonismo, di medaglie di cartone per tutti. Non è quello: il giudizio, se è vero, il che significa anche intero, non opprime, anzi.

Occorre sapere che ogni persona si forma attraverso lo sguardo degli altri, genitori innanzitutto e poi insegnanti, allenatori, figure di riferimento e nell’adolescenza anche attraverso quello dei propri pari.

Nello sguardo degli altri

Per tutta la vita cerchiamo di capire chi e come siamo da ciò che pensano gli altri di noi, ma soprattutto nella fase di formazione.

(…) Più si viene giudicati in queste fasi più si diventa giudici dopo, non a caso gli insegnanti vengono giudicati dagli studenti con la stessa misura con cui sono stati giudicati, e infatti noi professori temiamo di essere valutati da loro per paura di vedere cose di noi che non ci piacerebbero. Vorrei chiarire che non sostengo una scuola senza giudizi, ma senza giudici.

Ibidem

Prima di partire per un viaggio conviene chiedersi cosa prendere con sé e anche cosa lasciare indietro; così hanno fatto D’Avenia e Lucangeli e una delle zavorre di cui sono sicuri ci si debba liberare per camminare più spediti è il giudizio come inteso oggi, forse non da tutti ma quei pochi, di solito, lo fanno nello stile faticoso del salmone, controcorrente.

Il giudizio sia come il segno su un sasso per restare sul sentiero

Se un insegnante dà a un ragazzo un voto basso ma gli dice: «Abbiamo preso 4, cosa vogliamo fare ora? Proviamo a togliere questi errori insieme?», passa dal ruolo di giudice a quello di alleato, che non significa astenersi dal misurare i risultati, ma inaugurare un sistema valutativo capace di progressione: se non riesce a trarre un miglioramento realmente radicato nello studente, la scuola è una presa in giro, che si limita a confermare chi è già bravo e lascia dov’è chi è indietro (cosa che purtroppo sta accadendo da anni come dimostrano Luca Ricolfi e Paola Mastrocola in Il danno scolastico).

Ibidem

La misura è utilissima, serve ad orientarsi, a verificare di essere ancora sulla strada che intendiamo percorrere, a capire il passo che ogni ragazzo è in grado di sostenere, a tentare accelerazioni proporzionate alla sua stoffa. Come al solito non è lo strumento che sbaglia ma l’uso che ne facciamo: a cosa abbiamo fino ad ora applicato quelle misure, a cosa o chi abbiamo associato quei giudizi? alle prestazioni o alla persona?

Persone o performance?

Il problema, da genitore mi pare di poterlo con tristezza testimoniare, è che prima di applicare la misura alla persona (figlio o studente che sia) abbiamo ridotto la persona alla prestazione. Più che mancare la capacità di spostare lo sguardo, sembra manchi quella di affondarlo, di portarlo oltre la prestazione, prima di essa. E così giudicando nella prestazione anche tutta la persona gli adulti, che vengono a loro volta da un sistema giudicante fatto a questa maniera, infliggono sofferenze e impediscono cambiamenti.


La valutazione oggettiva è stata introdotta nella scuola proprio per evitare il giudizio soggettivo e aiutare lo studente a migliorarsi. Misurare è giusto, e serve a capire dove l’allievo ha bisogno di supporto; giudicare, non l’operato ma la persona, invece è controproducente: non aiuta a togliere l’errore e genera una sofferenza che impedisce il miglioramento.

Ibidem

Giudizi sbagliati, dolori veri

Sofferenze, queste, di cui spesso non si ha coscienza fino a che non ci si metta davvero in ascolto, di bambini, ragazzi, famiglie. La dottoressa Lucangeli lo fa e ne ha parlato diffusamente nel suo Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere (altro libro che D’Avenia cita e che per me è già finito nel carrello dello shop on line).

Il giudizio male-inteso provoca ricordi e lascia pesi come questi:

(Claudio:) «Il mio ricordo più duro è quando mia madre si è messa a piangere (ero dislessico grave, discalculico e disprassico, con disturbi di comportamento). Ricordo che mi sarei dato fuoco lì, piuttosto che tornare a scuola»; e poi di Anna: «Le lettere mi giravano in testa e i numeri mi facevano più paura degli zombie e dei fantasmi. Ma le urla: “Cretina, stupida, ignorante, idiota, menomata” sono ancora oggi il mio dolore sconfinato».

Ibidem

Dimmi dove e quando

Certo, nella scuola che tutti dovremmo volere, gli adempimenti burocratici non dovrebbero continuare a riprodursi come colonie batteriche in ambienti favorevoli; se penso ai docenti mi assale per loro un senso di sconforto a considerare quante incombenze abbiano da sbrigare.

E per “documentare” di continuo un lavoro, che, per evidente paradosso, non riescono quasi più a svolgere in tutta la sua portata esattamente a causa della documentazione richiesta. Che fiato può restare loro, dopo l’ennesima riunione, per pensare con calma a quello studente che non fa i compiti, che si sottrae alle interrogazioni o incassa i quattro con preoccupante indifferenza?

Se non hanno il tempo e l’orizzonte giusto, come il professore del racconto di Guareschi, per guardare con calma e curiosità quello studente che non si sa cos’abbia “dentro la zucca al posto del cervello?”

Pregiudizi e scioperi

In tanti anni di insegnamento il professore aveva sentito e letto miliardi di stupidaggini: ma quelle che Campora diceva o scriveva erano incredibili. Dapprincipio il professore aveva provato un senso di pena per il poveretto, in seguito la pena si era trasformata in disgusto». Come si vede dalle parole di Guareschi il professore valuta lo studente senza mai entrare nel merito degli errori, non distinguendo persona e azione: non misura, giudica.

Ibidem

E’ bastato uno sciopero, al professore di Guareschi, per incontrare davvero per la prima volta Campora. Lo sciopero può valere come metafora utile anche oggi: una sospensione dal ritmo serrato del lavoro quotidiano, capace di offrire il distacco necessario a vedere ciò che ci era già davanti agli occhi, le persone.

Vedere l’altro in un altro orizzonte

(…) quando il professore, in aperta campagna, si ferma lungo un canale, scorge proprio Campora, seduto a contemplare l’orizzonte. Si mette a piovere e lo studente, che ha riconosciuto il suo insegnante, lo porta a ripararsi, dato che conosce bene il luogo. Il professore chiede se il ragazzo stia nei paraggi, ma lo studente risponde che abita dall’altra parte della città. Il professore allora chiede come mai sia lì:

«Ci vengo sempre. Mi piace». Il professore, stupito, chiede cosa mai gli piaccia di un luogo così desolato e il ragazzo risponde: «L’acqua, le piante in riva all’acqua, il silenzio… è bello stare seduti sotto un portico a veder cadere la pioggia. Fa pensare tante cose». Quando smette di piovere il professore prima di incamminarsi verso casa dice al ragazzo: «Non è meglio che tu vada a studiare?». Campora fa segno di no e, al professore che gli chiede: «Ma non hai paura di rimanere qui solo in mezzo a questa tetraggine?», risponde: «No, signore. Ho paura quando sono in mezzo alla gente».

Ibidem

Gli studenti dal comportamento incomprensibile forse sono studenti dal comportamento ancora incompreso. Non sarebbe bello se gli insegnanti trovassero il tempo e il desiderio di conoscerli meglio e di aiutarli a correggere gli errori con l’effetto collaterale atteso di migliorare, finalmente, anche i risultati scolastici? Sarebbe bello eccome.

Serve spazio, serve tempo.

Campora cammina lentamente, assorto e il professore lo segue a distanza, senza farsi scorgere. Così arrivano nella città, piena di gente: «Io ho paura quando sono in mezzo alla gente, – aveva detto il ragazzo. Il professore riudì le parole del ragazzo e, quando il ragazzo venne inghiottito dalla folla, il professore provò un’angoscia acuta, come se gli forassero il cuore». Il professore ha capito, ha toccato il mistero del ragazzo.

Ibidem

Una scuola dove si sboccia

Nella scuola che forse in tanti dovremmo iniziare a volere D’Avenia vede giudizi e non giudici, alleati anziché avversari che si lanciano in reciproche accuse

una scuola fatta di maestri con il cuore «forato» dall’unicità di ragazzi spesso incomprensibili solo perché la loro storia aspetta di essere raccontata nel modo giusto, ma noi adulti non dedichiamo abbastanza tempo e sforzi comuni per ascoltarla, perché siamo impegnati a compilare carte e a partecipare a riunioni superflue.

Ibidem

L’ultimo passo necessario a compiere questa rivoluzione si rivela proprio nello spettacolo che si schiude quando ci si imbatte nell’unicità del ragazzo:

è proprio a partire da quel mistero che poi sbocciano, perché la loro unicità non riesce a fiorire nella ristretta cornice scolastica fatta di voti e giudizi. Per questo nella scuola che vorrei i professori non dicono mai allo studente ti «bocciamo», ma «sbocciamo?». Come si fa con i fiori, anche quelli più fragili.

Ibidem

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