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La guerra in Ucraina e la questione del perdono sociale

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Photo by Armend NIMANI / AFP

Aureliano Pacciolla - pubblicato il 31/05/22

Così come dal punto di vista psicologico non si può separare la libertà dalla responsabilità, nello stesso modo, il perdono e la colpa non possono essere considerati separatamente. La complessità di queste due realtà è tale che non può essere trattata in modo esaustivo nella sua complessità e completezza. Tuttavia, almeno in questo contesto, poniamo il nostro focus attentivo sulle dinamiche psicologiche di tipo personale e sociale: la colpa e il perdono collettivo. 

L’intreccio colpa-perdono tra popoli o tra razze non è stato molto approfondito come altri aspetti della psicologia sociale interculturale. Oggi, il periodo bellico – diversamente dal passato – ha delle caratteristiche nuove che rispetto ad altri periodi bellici. L’attuale periodo bellico è come sempre caratterizzato dall’odio reciproco, però, mai come oggi sono stati tanto intensi i flussi migratori, la rapidità nel divulgare le notizie e le immagini di guerra, mai c’è stata tanta diffusione di “fake news” e mai un intero continente ha accolto in pochissimo tempo tanti profughi di guerra. Anche per questi motivi, vale la pena approfondire tutte le dimensioni psicologiche del binomio colpa-perdono allo scopo di accelerare tempi di riconciliazione. 

Mentre il come e il perché dovrei perdonare me stesso e gli altri riguarda la relazione intrapersonale. Invece, il come e il perché io e gli altri del mio gruppo sociale dovremmo perdonare i singoli individui e i loro gruppi sociali di appartenenza, riguarda la relazione interpersonale. 

Il gruppo, come entità psicologia, è inteso sia come famiglia (come avviene per la mafia o altre cosche), oppure il gruppo come banda (come nelle associazioni a delinquere o faide) ma anche altri tipi di gruppi accomunati da interessi comuni: razza, sport, politica (dette bande, gang, ronde, branco e altre denominazioni). Le psicodinamiche di gruppo diventano più complesse quando l’oggetto di osservazione è una massa o un popolo o anche una generazione di una nazione.

Così come è difficile separare la dimensione intrapersonale da quella interpersonale, nello stesso modo è difficile differenziale le specifiche psicodinamiche del perdono fra gruppi, soprattutto quando per gruppo si intende una collettività nazionale di una specifica generazione. Qui vorremmo considerare il caso della colpa collettiva e del perdono collettivo nella Seconda guerra mondiale in Germania. Ovviamente, il nostro focus va al di là della contingenza storica. 

La tridimensionalità del perdono-colpa indica la possibilità di perdonare e farsi perdonare le proprie colpe all’altro (dimensione socio-relazionale, oppure orizzontale); perdonale sé stesso (dimensione intra-personale, oppure interiore) e perdonare e farsi perdonare da Dio (dimensione trascendente, oppure verticale). Quest’ultima dimensione trascendente è particolare perché, in alcuni casi, è come se Dio avesse bisogno di essere perdonato dall’uomo, come dopo una grande catastrofe – personale o sociale – si attribuisce Dio ciò che è successo oppure si pensa che Dio abbia permesso e tollerato i campi di concentramento oppure la sofferenza e la morte di innocenti.

Come per ogni ricerca, è necessario chiarire fin dall’inizio l’approccio che, in questo caso, appare come più indicato quello della psicologia cognitivo-esistenziale il cui massimo rappresentante è V. Frankl. Un secondo punto di riferimento – oltre al cognitivismo esistenziale è l’antropologia cristiana come attualmente declinata dai recenti documenti ufficiali e dalla pratica condivisa e testimoniata. 

1. L’approccio umanistico esistenziale

L’approccio umanistico esistenziale oggi viene meglio espresso attraverso il modello teorico e clinico del Cognitivismo Esistenziale. Il cognitivismo è un approccio psicologico sorto negli anni ’60 negli Stati Uniti per opera di alcuni psicanalisti in contrapposizione alla psicoanalisi. Invece di avere come punto di partenza il complesso di Edipo e altri assunti freudiani, per la comprensione delle realtà umane si voleva partire dall’interpretazione che ognuno fa della realtà. In effetti, questa base di partenza era stata già enunciata e applicata da V. Frankl a Vienna perché è proprio il processo cognitivo della interpretazione che rende possibile la ricerca del senso della vita e la possibilità di dare un significato alla propria esistenza. () Perciò, si piò dire che i presupposti o le prime origini del cognitivismo siano già presenti in Frankl, ed è per questo che il cognitivismo esistenziale viene indicato come il precursore del cognitivismo comportamentale. 

Considerare le psicodinamiche del perdono collettivo dal punto di vista del cognitivismo esistenziale significa analizzare la complessità psicologica e morale di una collettività di fronte al senso “perché una collettività – popolo o generazione – dovrebbe perdonare un’altra collettività”. Qual è il senso della colpa collettiva e qual è il significato del perdono collettivo? 

Spesso, nel linguaggio comune delle lingue occidentali i termini senso e significato vengono usati come dei sinonimi. Nel cognitivismo esistenziale, invece, hanno delle accezioni diverse, soprattutto nel rapporto medico-paziente. 

Il senso della vita è correlato con la ragion d’essere oppure l’attribuzione causale: la vita ha un senso perché qualcuno l’ha generata. Un filo d’erba, un animale o una persona hanno una vita con un senso prima ancora che nascessero. Niente e nessuno esiste senza un senso. Tutto ciò che esiste ha un suo perché funzionale: ha una sua funzione o utilità. Non esiste una vita – di qualunque tipo – senza un senso. () Percepire la vita senza un senso è come percepirla inutile, vuota di una sua funzione per cui, vivere o non vivere non fa alcuna differenza. Percepire un dolore o un sintomo senza un senso significa non poter o non saper riconoscere il perché della sua insorgenza e quindi non sapere o non capire il perché soffrire. Altrettanto vale per il perdono personale o collettivo. Perdonare deve avere un senso un perché. Il perdono senza un senso, senza un qualcosa che lo genera sarebbe come un effetto senza, e questo, non può esistere; sarebbe come un come un «λόγος» che non si fa carne. 

Il significato è correlato all’esito di un processo di interpretazione: una attribuzione semantica o assiologica.  () Si potrebbe affermare che “la vita per me ha il significato di una opportunità per …”; oppure, “la vita per me non ha alcun significato perché è solo sofferenza e mai una gioia”. Il significato è una attribuzione di un valore personale ad una situazione o a un sintomo. Perciò si potrebbe affermare che “il significato del perdono per me potrebbe essere quello di una opportunità per crescere insieme”. Oppure, “per me il perdono non ha alcun significato perché sarebbe come permettere all’altro di essere più egoista”. Il significato risponde di più alla domanda “cosa me ne faccio di questa esperienza?”; oppure “a cosa mi potrebbe servire (o essere utile) questa esperienza?”; “che valore potrebbe avere per me ciò che mi è accaduto?” In riferimento al perdono, il significato dovrebbe essere cercato e trovato all’interno della propria storia e i propri valori.

Nel linguaggio comune, si può continuare a usare i termini di senso e significato come sinonimi ma nel contesto clinico può essere molto diverso. Per esempio, vi sono pazienti con una ideazione suicidaria che ci chiedono sul senso della vita; oppure, pazienti cronici con una malattia incurabile che ci chiedono come dare un significato alla sua malattia. In questi casi, ma anche in tanti altri casi non così estremi, il dottore non può confondere il senso col significato. Una madre che chiede al dottore “perché mio figlio è morto?” non si aspetta una risposta sul senso causa-effetto, come per esempio “perché l’incidente era mortale”; oppure, “perché ha avuto un infarto”. Quella madre si aspetta una risposta sul significato: “che significato devo dare a questo evento?”, “come interpretare questo evento all’interno della mia storia?”; “che valore ha o potrei dare a un evento come questo?”.

Come si può facilmente osservare, un equivoco di questo tipo è fatale per il rapporto medico-paziente ma è fatale anche per il rapporto sacerdote-fedele. Chi è così rigido da non poter né accettare il senso del male né da non poter cambiarne il significato personale che si dà al male, potrà restare paralizzato nel suo malessere. Molti pazienti soffrono il doppio di altri perché non solo non vedono il senso della loro malattia ma anche non riescono a dare un significato alla loro sofferenza. Il caregiver (formatore, dottore o sacerdote) dovrà chiedersi “come si può aiutare una persona a dare un nuovo significato al dolore di un’offesa così da rendere e rendersi la vita più accettabile?”.

L’offesa è come una ferita o come una malattia che – soprattutto quando non ne cogliamo e non accettiamo il senso come causa congruente – ci fa soffrire molto di più dei danni materiali provocati dalla ferita. Se, poi, alla sofferenza per l’offesa non riusciamo darne un significato, allora diventa come un boccone che non viene digerito ed è per questo che resta in sospeso e attiva rigurgiti e ruminazioni. Come per ogni malattia e ogni ferita, anche la prima interpretazione dell’offesa avrà un significato di limitazione (frustrazione di una opportunità). Solo attraverso il processo cognitivo della reinterpretazione potrà essere possibile un nuovo significato che permette di affrontare meglio la malattia o un’offesa. L’autotrascendenza è il migliore modulatore fra il λόγος (senso e significato) della offesa grazie al nuovo significato prosociale. Però non è facile perdonare un’offesa che ha provocato gravissimi danni con la reinterpretazione autotrascendente. 

Nell’approccio cognitivo esistenziale il problema del perdono è da correlare con la colpa soprattutto quanto è ritenuta imperdonabile. Sono molteplici i sintomi correlati con l’attribuzione di colpa (reale o presunta) a sé e/o ad altri. In questo contesto ci occuperemo del perdono partendo dal bisogno: perché perdonare ed essere perdonati? Chi ha bisogno del perdono? Qual è il senso da cercare il suo significato da dare al bisogno di essere perdonati e di perdonare? Per rispondere a queste domande è necessario prima analizzare le varie articolazioni di questa realtà molto complessa partendo dalla chiarificazione delle definizioni più essenziali. Soprattutto sarà importante evidenziare i criteri più efficaci che possono intervenire direttamente nella psicoterapia o attraverso la formazione di operatori sociali.

L’ANTROPOLOGIA CRISTIANA

In questo contesto non vorrei prendere in considerazione tutta l’antropologia cristiana ma solo quella parte che più direttamente interagisce con la psicoterapia. 

La correlazione tra antropologia cristiana e psicoterapia è stata affrontata, fra i vari documenti, anche in documento ufficiale con delle proposte coraggiose per quanto riguarda il contesto cristiano: “la capacità di agire liberamente, di realizzare i valori più alti che il suo destino personale e la sua vocazione sociale comportano. [n. 106] Sotto il profilo morale le psicoterapie privilegiate sono la logoterapia e il counselling. Ma tutte sono accettabili, purché gestite da psicoterapeuti che si lasciano guidare da un alto senso etico [n. 107]”.

Qui, la proposta coraggiosa è quella di indicare la logoterapia come una psicoterapia tra le più adeguate a correlare l’antropologia cristiana con la psicologia clinica. Purtroppo, però, questa indicazione è scomparsa dalle redazioni successive dello stesso documento “Nuova Carta degli Operatori Sanitari”. La seconda parte del n. 106 (di questo documento del 1995) corrispondente al 132 (del documento del 2016) è stata modificata. Questo cambiamento è molto opinabile e bisognerebbe riprendere il coraggio e la chiarezza di indicare gli approcci più adeguati che – secondo me – sarebbero tutte le psicoterapie che si ritrovano nell’approccio umanistico-esistenziale.

Per approfondire questa correlazione partirei dalla considerazione del seguente brano “Si deve tener conto che ogni forma di psicoterapia ha una propria visione antropologica, formula ipotesi sull’origine dei disturbi di ordine psichico, propone al paziente tanto il proprio modello teorico quanto una terapia che normalmente richiede cambiamenti del comportamento e, in certi casi, del sistema dei valori. La psicoterapia può, quindi, toccare la personalità del paziente e provocarne un cambiamento”.

La correlazione fra antropologia cristiana e psicoterapia viene ribadito con il richiamo al vuoto esistenziale e la psicopatologia “È necessario, quindi, che la terapia sia compatibile con l’antropologia cristiana ed, eventualmente, esser integrata da una assistenza di tipo religioso, dato che disturbi psichici possono avere un’origine anche spirituale: «Le nuove forme di schiavitù della droga e la disperazione in cui cadono tante persone trovano una spiegazione non solo sociologica e psicologica, ma essenzialmente spirituale. Il vuoto in cui l’anima si sente abbandonata, pur in presenza di tante terapie per il corpo e per la psiche, produce sofferenza. Non vi è sviluppo pieno e bene comune universale senza il bene spirituale e morale delle persone, considerate nella loro interezza di anima e corpo».

Antropologia Cristiana e psicoterapia sono accomunate dall’obbligo di non influenzare e forzare la volontà del paziente. “Sotto il profilo morale le psicoterapie sono in linea generale accettabili purché gestite da psicoterapeuti guidati da un alto senso etico e professionale.  Tuttavia, sulla base del principio della inviolabile dignità della persona, si sottolinea che alcune modalità terapeutiche, ad esempio, un uso non corretto dell’ipnosi, potrebbero non essere moralmente accettabili se non addirittura pericolose per l’integrità del soggetto e della sua famiglia.

I problemi psicologici del binomio colpa-perdono sono solo alcuni dei problemi che un cristiano potrebbe meglio affrontare con uno psicoterapeuta che conosce e/o condivide i presupposti di base di base di questi vissuti.

2. COME DEFINIRE IL PERDONO

La colpa (come responsabilità causale) non dovrebbe essere considerata solo nell’atto colposo (come intenzionalità diretta) ma anche dalle precondizioni e dalle predisposizioni che hanno permesso quell’azione. Altrettanto vale per la considerazione del perdono: studiare le precondizioni e le predisposizioni del perdono è altrettanto importante per una comprensione applicabile nella pratica. 

Il perdono, quindi, non è un atto ma un processo spesso lungo e imprevedibile. Il perdono potrebbe essere inteso come un percorso di crescita o terapeutico per trattare le ferite ricevute. 

Il perdono è un processo di crescita nella misura in cui ci predispone a effettuare dei cambiamenti cognitivi, emotivi e motivazionali che modificano in modo stabile le relazioni. Il perdono autentico non accelera solo la crescita della vittima ma anche la crescita sociale, inclusa quella del carnefice. Questa è la dimensione prosociale del perdono che per me è la più significativa. L’effetto prosociale del perdono è anche un elemento chiave per la comprensione teologica del peccato-perdono, del sentirsi perdonato da Dio, della percezione della propria colpa e del presupposto per essere ristabilire i rapporti sociali. La complessità del perdono potrebbe essere esemplificata attraverso la sua tridimensionalità: 1) la dimensione intrapersonale oppure interiore (perdonare sé stesso) e questo presuppone un minimo di amore per sé stessi; 2) la dimensione interpersonale oppure orizzontale (perdonare e farsi perdonare) e questo presuppone che l’altro possa essere perdonabile; 3) la dimensione trascendente oppure verticale e questo presuppone l’accettazione che l’individuo e Dio siano reciprocamente perdonabili. Quest’ultima dimensione è quella che si può sperimentare quando – come Giuda Iscariota – si ritiene che la propria colpa sia più grande della misericordia di Dio, oppure che la propria persona abbia perso qualunque tipo e grado di dignità e quindi non si osa neppure chiedere perdono. La dimensione verticale del perdono viene sperimentata anche quando la persona non perdona a Dio un particolare misfatto. È il caso in cui ci si chiede “com’è possibile che Dio permetta il trionfo del male e dei malfattori e la sofferenza delle vittime innocnti?” In questi casi, per la persona è difficile distinguere la volontà salvifica di Dio dall’uso della libertà senza alcun senso di responsabilità.  

È proprio la dimensione prosociale del perdono che permette di tenere sotto controllo la motivazione alla vendetta e al distanziamento fisico e psicologico verso l’offensore. La dimensione prosociale del perdono non sminuisce l’ingiustizia dell’offesa ricevuta ma ci aiuta a prendere le distanze dal diritto al risentimento, alla vendetta, al giudizio negativo e al comportamento distaccato. 

Il perdono è inteso come un processo autonomo perché non dipende da rimorso dell’offensore, né dall’ammissione di colpa o di responsabile e non dipende neanche dalla richiesta di perdono da parte dell’offensore o di terzi. La vittima potrebbe arrivare al punto di non provare più rabbia e a non considerare più il suo offensore come indegno di una relazione pacifica. Per arrivare a questo livello di perdono bisogna considerare non solo la struttura di personalità della vittima e il suo equilibrio mentale ma molto dipende anche dal tipo di offesa e danno è stato arrecato alla vittima e alle conseguenze del trauma subito. 

Bisogna riconoscere che non è facile sviluppare sentimenti positivi dopo delle gravi offese ripetute o dopo un’offesa con un grave danno irreparabile, né vi sono tempi standardizzati per superare certi traumi. Per esempio, considerando il caso degli abusi sessuali, anche se dovesse trattarsi una istituzione sacra o del proprio genitore, le ferite sono troppo profonde e con delle conseguenze che possono durare per il resto della propria vita e condizionare anche terzi. 

Dopo una grave offesa può sembrare impossibile raggiungere una relazione d’amore con l’aggressore provare compassione per lui, desiderare il suo bene e aiutarlo a realizzare ciò che è bene per lui. Tuttavia, non possiamo porre limiti aprioristici agli ideali, sia filantropici che religiosi. La dimensione costruttiva del perdono passa dall’atteggiamento di benevolenza e non si può escludere l’eroismo. Infatti, anche il perdono potrebbe essere eroico. 

3. DIMENSIONE SOCIALE DEL PERDONO

Il riferimento alla responsabilità e alla imputabilità collettiva è stato poco considerato nella bibliografia sul perdono. La complessità della relazione tra colpa sociale e perdono sociale è stato sottovalutato, soprattutto l’aspetto che è stato accennato prima: una collettività nazionale di una specifica generazione come quella della Germania nella Seconda Guerra Mondiale. 

Per una maggiore originalità e in linea con l’approccio cognitivo esistenziale, di cui V- Frankl è il massimo rappresentante, vorrei trattare i problemi specifici della responsabilità collettiva per come propone lo stesso Frankl.

L’astio, l’ostilità, l’odio, la vendetta e le altre emozioni negative a queste correlate predispongono ad una serie di somatizzazioni che non abbiamo con le emozioni positive. A questo punto, bisogna chiedersi: possiamo ipotizzare una psicoterapia mirata al perdono (da chiedere e/o da concedere)? La risposta è affermativa perché rientra negli obiettivi della salute. 

Un esempio della complessità del perdono sociale lo abbiamo in moltissimi casi ma qui prendiamo in considerazione il caso vissuto subito dopo la Seconda Guerra Mondiale accusarono il popolo tedesco di complicità con il nazismo o di omissione di opposizione agli stermini di milioni di esseri umani. Questa condanna morale fu presa in considerazione anche dallo stesso tribunale internazionale preposto per giudicare i colpevoli dei crimini di guerra. Questo tribunale, nei suoi statuti, ha cercato di chiarire la questione sul carattere criminale di ciascuno individualmente appartenente al popolo tedesco in quella generazione: “non era una colpa personale che doveva giustificare una condanno contro il singolo, ma il semplice fatto della provata appartenenza a una delle organizzazioni e associazioni indicate come criminali”. () Questo era quanto si statuiva all’art. 9; nell’articolo 10 si fa riferimento al diritto delle potenze vincenti di sottoporre a processo tutti coloro che erano appartenuti a qualcuno dei gruppi criminali di guerra. Vi furono delle opposizioni a questi statuti ma furono ugualmente applicati alle SS della XII divisione per il massacro ad Ascq nella notte fra il giorno 1 e 2 aprile 1944. Il concetto di colpa collettiva esteso all’intero popolo tedesco era stato dichiarato iniquo e ingiusto anche grazie all’intervento di V. Frankl che partiva dal concetto di colpa che applica a chi aveva l’effettiva responsabilità e termina lì dove c’è una mancanza di libertà di scelta. () Se non vi è un concorso diretto al compimento di un crimine non vi può essere imputabilità, neanche se si dovesse appartenere allo stesso gruppo sociopolitico o culturale-religioso dei perpetratori di un reato. Tuttavia, è possibile che in alcune situazioni, l’appartenenza ad un collettivo – che implica la conoscenza della progettualità di un crimine senza esprimere la propria disapprovazione – potrebbe far sorgere dei dubbi su un possibile concorso in colpa. Questo dubbio si basa sul principio che non poteva non sapere e ha indirettamente ha acconsentito col suo silenzio omissivo. Qui, una delle domande è: un cittadino iscritto al partito nazionalsocialista, aveva un obbligo giuridico o morale di denunciare oppure opporsi? Nell’attuale legislazione italiana chiarisce che si tratta di un obbligo giuridico di chi ha il dovere di controllare e non di tutti i cittadini. () In questo caso, quel cittadino potrebbe essere coimputato per le conseguenze negative del crimine?

Frankl cerca di chiarire tale concetto portando l’esempio di una nazione la quale, a motivo della sua interna impotenza, invoca l’intervento di altre nazioni per essere liberata da un regime terroristico o tirannico che la opprime. In tal caso, la nazione non è da considerare colpevole per la morte di coloro che, al fine di difenderla e liberarla dall’oppressione, sacrificando la propria vita sul campo di battaglia; invece, ad essa come totalità, e come tale anche nei singoli che la compongono, è imputabile il sacrificio delle vittime effettivamente non-colpevoli”.

Resta il dubbio sulla colpevolezza nell’aderire al partito nazionalsocialista nel periodo prebellico. Anche in questo caso Frankl dà una risposta dalla sua prospettiva umanistico-esistenziale: dipende da quanto ogni singolo iscritto è stato libero e responsabile in quella sua adesione. Infatti, la compromissione dei processi cognitivi relativi alla percezione, alla interpretazione e ai processi decisionali può determinare delle scelte apparentemente convinte, Questo problema si dovrebbe affrontare unitamente alle psicodinamiche della propaganda e della suggestionabilità. 

Questo cittadino – che, come tanti, è stato convinto (o costretto) a dare la sua adesione al partito nazionalsocialista – è da perdonare se ha capito la gravità della situazione (campi di concentramento) e non ha agito di conseguenza? È certamente giusto che paghi per le sue responsabilità personali ma se una sua reazione avrebbe significato l’internamento o l’immediata fucilazione di tutta la sua famiglia e di altri innocenti? È giusto che una famiglia innocente paghi per una scelta sbagliata di un suo componente? Questo vale soprattutto quando la scelta che consideriamo sbagliata oggi, poteva essere stata fatta sotto pressioni, inganni e minacce. 

Se, da una parte, è vero che tutti possiamo essere degli eroi, dall’altra, però, l’eroismo dovrebbe essere scelto e non imposto. In quella occasione, alcuni hanno scelto l’eroismo per non essere accusati di non aver fatto tutto il possibile per evitare le estreme conseguenze o per essersi integrati in un partito per non subire la persecuzione; altri hanno accettato di andare in un campo di concentramento piuttosto che collaborare con il regime. 

Frankl ritiene fondamentale un atteggiamento di estrema tolleranza che consenta di comprendere coloro che non sono stati capaci di giungere all’estremo limite di eroismo assumendosi la completa responsabilità della propria vita. Solo chi è stato in grado di affrontare la persecuzione, sa quanto essa sia difficile da accettare e da vivere, e appunto per questo comprende che <non tutti possono capire l’importanza e le conseguenze di tali decisioni>” .

Per Frankl, la responsabilità collettiva si può esprimere con l’espressione “uno per tutti” perché si indicale la responsabilità che ognuno ha della sua vita ma anche la responsabilità anche per la vita degli altri nel senso che una singola persona può essere anche responsabile di ciò che può capitare ad altri perché ogni azione individuale ha sempre – in grado variabile – una qualche ripercussione sociale. È necessario considerare anche l’espressione complementare “tutti per uno” per indicare come la collettività dovrebbe sentirsi responsabile di ciò che accade al singolo individuo. L’opposto della responsabilità sociale caratterizzata dalla reciprocità è l’indifferenza caratterizzata da una apparente neutralità che per mancanza di coraggio non si sbilancia ma è pronta a saltare sul carro del vincitore. Gli indifferenti che non prendono una loro personale posizione possono essere peggiori degli avversari ideologici. D’altro canto, non si può neanche affermare che tutto il male si è incarnato in un solo partito; per esempio, come quello del nazionalsocialista. Tuttavia, bisogna ribadire che una ideologia applicata da un partito può favorire il male in modo più completo e più profondo.

Frankl rifiuta il concetto della colpa collettiva e accetta la possibilità di una responsabilità collettiva in termini planetari: “… una nazione non può affetto rallegrarsi per il fatto di non essere caduta lei, ma la nazione tedesca, preda del nazionalsocialismo: infatti, l’intera umanità era malata”.

In questi casi, i fatti parlano in modo più esplicito di quanto non facciano le teorie. 

Il comandante dell’ultimo lager nel quale fui internato, e dal quale fui poi liberato, era una SS. Eppure, dopo la liberazione venne fuori ciò che fino ad allora aveva saputo solo il medico del lager (un prigioniero anche lui): il comandante aveva segretamente speso non poco denaro di tasca sua per acquistare dalla farmacia della borgata vicina medicinali per i suoi internati”.

Frankl racconta che dopo la liberazione, alcuni ex internati ebrei nascosero alle truppe americane questo comandante considerato un loro benefattore e patteggiarono col mandante in capo delle forze alleate che rivelato il suo nascondiglio solo con l’impegno che sarebbe stato fatto al male a chi aveva rischiato di persona per loro. Nell’immediato dopoguerra non era facile sostenere in pubblico la fallacia della colpa collettiva e Frankl ricevette delle critiche per questa sua posizione. Tuttavia, egli non nasconde altri dettagli della sua vita: “A quei tempi nascondevo nel mio appartamento un collega, che possedeva una certa onorificenza della gioventù hitleriana e che sapevo ricercato dalla polizia di Stato per essere sottoposto a un Tribunale popolare, e lì o ti assolvevano o ti condannavano a morte. In questo modo io lo protessi dall’arresto da parte delle autorità”.

Questo episodio è più significativo del precedente perché qui non un gruppo ma è Frankl in persona che si espone e rischia per qualcuno che ritiene innocente. Nel brano che segue indica la responsabilità delle vittime nel testimoniare l’inadeguatezza della colpa collettiva anche per chi non può farlo. “Nel 1946 mi sono imbattuto contro il concetto di colpa collettiva davanti al generale che comandava le truppe francesi d’occupazione, in occasione di una conferenza tenuta nella zona da loro occupata. Il giorno successivo venne da me un professore d’università, un ex ufficiale delle SS e mi chiese, con le lacrime agli occhi, come proprio io avessi il coraggio di schierarmi così apertamente contro la condanna in blocco. <Lei non può farlo>, gli risposi, <perché parlerebbe pro domo sua, Io, però, sono l’ex prigioniero numero 119.104 e in quanto tale posso e quindi devo farlo. Mi spetta farlo, è quindi un obbligo per me”.

Frankl ha più volte ribadito questa sua posizione sulla colpa collettiva. In una occasione, era di fronte ad una folla di 35.000 persone nella piazza antistante il palazzo municipale di Vienna: “… vi prego di non attendervi da me delle parole di odio. Chi dovrei odiare? Conosco le vittime, ma non i colpevoli, almeno non personalmente e mi rifiuto di indicare collettivamente dei colpevoli. Propriamente non esiste una colpa collettiva … non può esserci che la colpa personale, la colpa per qualcosa che io ho fatto, o che ho permesso che si facesse! Ma non posso essere colpevole di ciò che è stato fatto da altri., magari dai genitori o dai nonni. E convincere gli austriaci che oggi hanno da 0 a 50 anni, di una siffatta ‘colpa collettiva retroattiva’, lo ritengo un delitto o un delirio: se formulato meglio, in senso psichiatrico, ciò sarebbe un delitto se non si trattasse di un caso di delirio. E di una ricaduta nella cosiddetta ‘responsabilità penale estesa alla famiglia’ nel caso dei nazionalsocialisti! Penso anzi che proprio le vittime di quella persecuzione collettiva dovessero essere le prime ad essere d’accordo con me. Altrimenti sarebbe come se approvassero si spingono i giovani nelle braccia dei vecchi nazionalsocialisti o dei neonazisti.

Questo brano completa il pensiero di Frankl sul perdono sociale, sulla responsabilità generale (planetaria) e sulla colpa personale e non collettiva. Credo che le parole di Frankl si possano apprezzare maggiormente conoscendo il contesto: in ricordo del 50 anniversario dell’invasione di Hitler, per questo fu pubblicato col titolo “In memoriam 1938”.

Un altro dettaglio interessante relativo al concetto di colpa collettiva così espressa è riportato da E. Fizzotti, suo primo allievo italiano. “In una cartella dell’archivio di casa Frankl è stato inviato un biglietto trovato il 12 marzo 1988 da Sophie Freud, la figlia di Martin, primogenito del fondatore della psicoanalisi, nata nel 1924. Il testo è particolarmente interessante: Caro Dottor Frankl, sento forte il desiderio di comunicarle che mi sono molto rallegrata nell’ascoltare le parole che lei ieri ha pronunziato nella piazza antistante il Comune di Vienna, come una persona che attraverso la sua sofferenza ha un notevole diritto di alzare la sua voce e farla sentire. Io ero nella piazza per ricordare la data di nascita dell’Anschluss. E condivido pienamente la sua posizione contro la colpa collettiva. Con fraterni saluti. Sophie Freud.

Pertanto, secondo Frankl, la responsabilità può essere considerata generale o planetaria ma la colpa dovrà essere considerata strettamente personale. 

4. PERDONO TRA PSICOLOGIA E RELIGIONE

La psicologia della religione è la branca della psicologia che studia tutte le dimensioni umane in un contesto sacrale. Pertanto, anche il perdono – come realtà genuinamente umana – può essere considerato dal punto di vista della religiosità generale e specificamente nel contesto giudaico-cristiano. Un punto di partenza per considerare il perdono nel contesto cristiano può essere quello delle Scritture per poi considerare il contesto della psicologia clinica. 

Una prima osservazione è la correlazione fra la dimensionalità della colpa con la dimensionalità del perdono: non esiste la dicotomia tra colpevole e innocente ma solo un diverso grado di colpevolezza (“chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande” (Gv. 19.11) e un diverso grado di consapevolezza (“Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc. 23,33-34). Più si è consapevole e più si è responsabili. Chi non perdona è perché ancora non ha un grado di consapevolezza sufficiente che possa permettere il perdono. Tuttavia, la consapevolezza dipende anche dallo sforzo personale nei confronti della crescita propria e relazionale. La correlazione colpa-perdono non ha solo conseguenze socio-relazionali ma anche trascendentali. “Se voi, infatti, perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.” (Mt. 6,14–15) “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello.” (Mt. 18, 35) Perdono l’altro ha come effetto essere perdonati da Dio: “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati.” (Mc. 11,25).

Inoltre, il perdono non è quantificabile in modo logico-razionale. “Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.” (Mt. 18,21–22) L’atteggiamento arazionale del perdono cristiano è più evidente nel paradosso “ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”. (Mt. 5,44) Il paradosso continua con Lc. 15.7 “Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. Mandato ai suoi discepoli di perdonare: In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo. (Mt. 18,18 e 21-22) 

Il Cristo non è solo il mediatore della riconciliazione dei peccatori con Dio, ma è anche come colui che concede ai peccatori il perdono in virtù della propria autorità “Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati“.” (cfr. Mt. 9, 2-8). In un’altra occasione si evince meglio cos’è che permette il perdono “Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: “Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati“.» (Mc 2,5). Il passaggio dal paradosso allo scandalo o ribellione è breve: un’adultera viene perdonata difesa e rimandata in pace con l’esortazione a non peccare più. (Gv. 8, 1-11) “Poi disse a lei: “Ti sono perdonati i tuoi peccati… Ma egli disse alla donna: “La tua fede ti ha salvata; và in pace!“. (Lc. 7, 48;50). Questi sono i riferimenti più immediati e più essenziali sul perdono nel contesto della psicologia della religione ma per una panoramica più completa è necessaria estendere questa panoramica.

Dal punto di vista della psicologia della religione sorge una domanda: il perdono come sopra intesa garantisce la salute e la salvezza dell’anima ma che effetto ha sulla salute mentale e sulla crescita psicologica? Gli effetti del perdono sono solo personali o anche collettivi?

Dalle molte ricerche fatte sui grandi campioni e dalle osservazioni fatte dagli psicoterapeuti sui loro pazienti (vedi bibliografia) convergono tutti verso una conclusione: dal punto di vista dell’igiene mentale, dell’equilibrio psichico e del percorso maturativo il perdono è considerato un modulatore dell’umore sia in fase di ricerca e sia una volta acquisito. Dare e ricevere il perdono può essere paragonato ad un farmaco bidirezionale con benefici che vanno otre il binomio offensore e offeso per beneficare e bonificare la società di appartenenza. 

Sembra che vi sia un ampio consenso su quanto appena espresso. Il problema della psicologia clinica è perché alcuni hanno gravi problemi nel perdonare? Come aiutare attraverso una psicoterapia i soggetti resistenti o refrattari al perdono con atteggiamenti rancorosi, ostili e vendicativi? 

I problemi clinici in questo problema sul perdono vengono dalle attribuzioni di responsabilità. I problemi relativi alle attribuzioni di responsabilità schematicamente possono provenire dal grado di valutazioni e attribuzioni sull’offesa e sull’offensore: 

l’intenzionalità della trasgressione;

la responsabilità del trasgressore;

la malevolenza dell’atto;

il desiderio di far soffrire l’altro; 

l’immoralità e l’ingiusta considerate come un’offesa;

l’importanza che la vittima dà alle norme violate.

Dalle ricerche risulta che si perdona di più:

quanto meno l’azione dell’offensore è considerata intenzionale; 

quanto meno si attribuiscono intenti malevoli; 

quanto meno ha violato norme significative per la vittima; 

quanto più si tende a perdonare tanto più si è inclini a dare il beneficio del dubbio all’offensore. 

Per il trattamento psicoterapico si raccomanda – in una prima fase – la focalizzazione sui propri sintomi di sofferenza e su possibili cause e su conseguenze di questi sintomi. 

Nel trattamento del rancore patologico, le ruminazioni mentali sul torto subìto devono essere considerate come delle strategie di coping caratterizzate da focus sulle caratteristiche negative e dannose di una interazione stressante. Le ruminazioni incidono direttamente: sul proprio umore; sugli eventi di vita negativi e sulle provocazioni interpersonali. Così come la ruminazione sulle cause dei propri sintomi depressivi prolunga l’umore basso, nello stesso modo la ruminazione sulle cause della propria rabbia prolunga la rabbia e anche la ruminazione sull’offesa ricevuta aumenta la probabilità di vendicarsi o di evitare l’offensore. Tutte le ruminazioni negative sono controproducenti per benessere e per il funzionamento interpersonale. 

Quando un soggetto rumina su un’offesa subita più si predispone a evitare l’offensore e/o a vendicarsi. La ruminazione su una offesa irrisolta riattiva l’evitamento o la vendetta. Il perdono interpersonale riduce le motivazioni negative interpersonali. È vero anche che la revisione delle motivazioni negative interpersonali può portare al perdono interpersonale. 

Da un punto di vista psicologico non esistono offese impossibili da perdonare. Il perdono ha effetti benefici (psichici e fisici) sulla vittima, da essere ritenuto auspicabile anche in caso di offese molto gravi. Più un’offesa è percepita come grave meno la vittima riesce a empatizzare con il trasgressore e meno riesce a perdonare. 

Le ricerche sulla psicologia del perdono hanno anche chiarito meglio gli indici di gravità; ossia ciò che rende più difficile il perdono e sono state isolate le seguenti variabili. Il percorso del perdono è più lungo e più difficile quando si tratta di un’azione reiterata, quando si tratta di una commissione più di omissione, da parte di una persona vicina (o di fiducia), quando è gravemente lesiva dell’autostima e quando è un indice di rifiuto o di abbandono. 

Al contrario, ciò che agevole il percorso del perdono sono delle particolari condizioni: la richiesta di perdono, il chiedere scusa ed esprimere il proprio rimorso.

Un aiuto professionale di tipo psicologico che possa agevolare il processo del perdono e della riconciliazione dovrà avere come obiettivo non solo il benessere personale ma anche quello relazionale perché non solo la persona ma anche la relazione è rimasta ferita e dovrebbe essere sanificata. Oltre a questo, un obiettivo molto importante del perdono dovrebbe essere quello della protezione del bene comune. Con questo termine si intende ciò che fa crescere non solo un gruppo ma ciò che fa crescere l’intera umanità. In questo modo, il perdono di una singola persona – come altre realtà correlate con l’amore – diventa un atto trascendente perché va al di là del bene limitato a una persona o a un contesto relazionale per arrivare al bene comune di tutta l’umanità che significa aiutare a crescere insieme. Questo, infatti, è il massimo bene psicologico: permettere a ognuno di crescere insieme e che tutti permettano la crescita personale. Crescere insieme e la crescita personale non dovrebbero confliggere ma incrementarsi reciprocamente. Per arrivare a sincronizzare il crescere personale con il crescere insieme sarebbe necessario tener presente lo sviluppo dell’empatia. Infatti, nello sviluppo umano l’empatia può essere considerata come una predisposizione che inizia nella relazione col caregiver fin dalla nascita ma gradualmente si manifesta sempre di più con la capacità di mettersi dal punto di vista dell’altro in termini di bene comune di gruppo fino alla capacità di impegnare la propria vita mettendosi dal punto di vista del bene comune dell’umanità. È una questione di livelli diversi di eroismo che si può manifestare sostanzialmente in due modi: in un’unica azione; come, per esempio, dando la propria vita per altri; con la quotidianità e quindi con in modo costante. In entrambi i casi, è una espressione dell’empatia non solo con un solo interlocutore e neanche con un solo popolo o una sola razza ma una empatia con il bene comune; ciò che è bene dell’umanità. Il problema è come definire e indicare il bene comune. Credo che per arrivare a identificare ciò che è bene per tutti dovremmo osservare ciò che permette di crescere insieme. Però, la domanda strettamente connessa è “cosa significa crescere e crescere insieme”. Per me crescere significa permettere a ognuno di essere sé stesso e crescere insieme significa creare un contesto in cui ognuno può essere sé stesso e diventare sé stesso senza impedire ad altri di essere e diventare sé stessi. Una ulteriore specificazione sarebbe quella sul “diventare sé stessi”. Nella razza umana, il diventare prevede anche l’autotrascendenza, ossia la possibilità di andare oltre sé stesso; ossia, poter scegliere di rinunciare a qualche diritto e bisogno personale in favore di altri e senza alcun vantaggio personale o di parte. In questo senso, ognuno potrebbe diventare un eroe che dà la vita per una persona o per una causa sociale. L’eroismo non è solo quello che si risolve con un solo atto ma anche quello quotidiano fatto di costanti sacrifici che includono anche il perdono.

Il perdono nella psicologia della religione potrebbe essere ulteriormente approfondito con delle appropriate considerazioni sulla terminologia usata nel Prefazio e nel Canone nella preghiera Eucaristica sul perdono. 

 Un altro approfondimento può essere quello relativo al perdono post-bellico nelle popolazioni cristiane, ma applicabile anche alle popolazioni di altri Paesi con culture diverse da quella cristiana. In quest’ultimo caso il punto di partenza psicologico è quello del principio secondo cui il “successo non si persona a nessuno”. Questo principio vale in molti ambiti a partire dal successo di Abele non accettato da Caino. Ciò che ha reso nemici i fratelli Caino e Abele è stata l’interpretazione. Entrambi hanno interpretato il successo come benedizione di Dio e l’insuccesso come l’opposto. Questa interpretazione ha permesso l’ostilità verso Dio e verso il privilegiato da Dio. L’interpretazione è alla base della psicopatologia e della psicoterapia. La stessa realtà può essere interpretata in modo diverso con esiti molto diversi, anche dal punto di vista morale.  

5. GUERRA E PACE, COLPA E PERDONO

Le affermazioni sull’ideale di poter crescere insieme possono giustamente incontrare delle resistenze quando il perdono non è una questione personale ma quando sono coinvolti i gruppi e le collettività: è il caso delle guerre o degli stermini di intere categorie umane. Il problema di una collettività vittimizzata dovrebbe perdonare la collettività dei suoi aggressori. In questi casi, come ci potrebbe aiutare la psicologia?

Da una panoramica delle ricerche fatte in questo settore della psicologia si può osservare che le esposizioni alla violenza bellica ha un impatto variabile non solo da individuo a individuo ma anche da collettività e collettività. Innanzitutto, la maggior parte degli eventi bellici più drammatici finora sono spesso limitati a certi luoghi (Kalyvas, 2006). A seconda della loro accessibilità geografica, della composizione etnica o dell’orientamento sociopolitico e culturale predominante, le comunità locali sono esposte a diversi tipi di guerra e a diverse intensità di violenza (Arriaza & RohtArriaza, 2008). Da osservare, che in psicologia la variabile religiosa è studiata all’interno del dominio culturale. Di conseguenza, le esperienze di guerra e il significato del conflitto per le popolazioni locali possono variare fortemente da un luogo all’altro e da periodo a periodo all’interno dello stesso paese (Penic, Elcheroth, & Spini, 2016). Tuttavia, a livello nazionale, sono state ipotizzate delle iniziative per affrontare il passato bellico ma che potrebbero possono non essere ugualmente applicabili o ugualmente accettate in tutte le comunità (Arriaza & Roht-Arriaza, 2008). Gli studi psicosociali sulla riconciliazione post-bellica raramente si sono concentrati sull’analisi comunitaria (Vollhardt, 2012). 

Uno studio ha cercato di analizzare la relazione tra l’esposizione delle comunità locali alla violenza e la loro successiva disponibilità alla riconciliazione ipotizzando i processi sociopsicologici sottostanti. () In questa ricerca, per studiare la vittimizzazione collettiva e il perdono intergruppale si fa la differenza tra esposizione alla violenza di guerra a livello individuale e a livello comunitario. 

Il perdono intergruppale è definito (Čehajić, Brown e Castano (2008) come un orientamento prosociale che “implica una riduzione dei sentimenti di vendetta, rabbia e sfiducia verso il gruppo autore della violenza e l’intenzione di comprendere, avvicinarsi e impegnarsi con i suoi membri” (p.352). Il perdono intergruppale è stato osservato anche nel processo di riconciliazione post-bellica (Van Tongeren, Burnette, O’Boyle, Worthington e Forsyth, 2014). Il perdono intergruppale implica che le persone che colpite personalmente (o come membri di una comunità) dalla violenza collettiva, siano disposte a superare l’impulso della ritorsione o del risentimento. Questo, però, presuppone il riconoscimento dei misfatti passati (o di scuse) e apre la porta a una ricostruzione più profonda delle relazioni tra gruppi (etnie o popoli) divisi dalla violenza passata. La disponibilità a perdonare può quindi essere vista come una componente importante di un più ampio processo di riconciliazione, durante il quale gli ex nemici “arrivano a vedere l’umanità l’uno dell’altro, si accettano a vicenda, e vedono la possibilità di una relazione costruttiva” (Staub, 2006, p.868). Questo è sostenuto da altre ricerche che confermano come il perdono intergruppale gioca un ruolo importante nel migliorare le relazioni intergruppali ostili (Nadler & Liviatan, 2006; Noor, Brown, Gonzalez, Manzi, & Lewis, 2008; Noor, Brown, & Prentice, 2008; Wohl & Branscombe, 2005). 

Alcuni ricercatori sostengono che l’esposizione alla violenza della guerra a livello comunale ha un impatto negativo simile sugli atteggiamenti riconciliatori (Dyrstad, Ellingsen, & Rød, 2015; Hewstone et al., 2006; Myers, Hewstone, & Cairns, 2009). Anche se non sono personalmente vittimizzati, ci si aspetta che gli abitanti delle comunità in cui si verifica la guerra siano più prevenuti e ostili verso i membri del gruppo nemico rispetto agli individui che vivono in aree che vedono pochi o nessun combattimento (Strabac & Ringdal, 2008) oppure rispetto alla generazione successiva che non hanno sperimentato in modo personale le violenze. 

Altri ricercatori sostengono che l’applicazione del livello individuale a quello comunitario è problematica, poiché la violenza nelle comunità è più della somma delle esperienze individuali di vittimizzazione (Elcheroth, 2006). Nelle comunità in cui c’è stata una guerra, sia civili che soldati devono fare delle scelte difficili in situazioni molto complesse e caotiche in cui è difficile separare un atteggiamento volto a difendere sé stessi e i propri cari dalla aggressività che tende direttamente alla vittimizzazione di altri. Le esperienze collettive di guerre tra Paesi possono essere molto più complesse di quelle intergruppali o interetniche. 

Questi studi documentano un impatto negativo dell’esposizione alla violenza di guerra sul perdono e sugli atteggiamenti riconciliatori (ad esempio, Hewstone, Cairns, Voci, Hamberger, & Niens, 2006; Hewstone et al., 2004). Per esempio, diversi studi condotti in diversi contesti postbellici illustrano che gli individui direttamente colpiti dal conflitto sono meno disposti a perdonare il gruppo avversario (Bakke, O’Loughlin, & Ward, 2009; Hewstone et al., 2004, 2006).

Bakke et al. (2009), ha evidenziato come nel Caucaso del Nord le esperienze personali di violenza e terrorismo avevano un impatto negativo sul perdono. Nelle comunità che erano più esposte alla violenza, la tendenza al perdono era più forte. 

Gli studi sull’approccio della vulnerabilità collettiva (Elcheroth, 2006; Elcheroth & Spini, 2009, 2013; Penic, Elcheroth, & Spini, 2016) mostrano che, al contrario degli individui vittimizzati, la condanna media dei crimini di guerra è più forte nelle comunità più pesantemente vittimizzate.

Per interpretare i risultati di tutte queste ricerche è importante tener presente le diverse fonti di conoscenza collettiva poiché le credenze relative ai conflitti dipendono dalla conoscenza degli eventi bellici collettivi (Feldman, Huddy, & Marcus, 2015). Nelle comunità che non sono direttamente esposte alla guerra, le principali fonti di informazione delle persone sul conflitto sono quelle dei mass media e i discorsi politici. Oggi, il ruolo dei giornalisti è fondamentale perché con le fake news possono narrare gli eventi in modo da favorire o incrementare le ostilità o in modo opposto: predisporre alla riconciliazione (Feldman et al., 2015; Happer & Philo, 2013; Lewis, 2004). Queste irresponsabilità giornalistiche si possono manifestare anche attraverso la marginalizzazione o l’omissione di alcune informazioni oppure creando o marcando le contraddizioni all’interno di una delle parti in conflitto (Bar-Tal, Oren, & Nets-Zehngut, 2014). Di conseguenza, chi vuole informarsi su un conflitto viene manipolato nell’avallare alcune credenze o pregiudizi (Bilali, 2013; Happer & Philo, 2013). Paradossalmente, chi ha appreso le informazioni su un conflitto bellico potrebbe essere meno predisposto al perdono e alla riconciliazione di chi ha vissuto nei luoghi dove la guerra effettivamente si è svolta. È probabile che la gente del posto sia colpita dalle esperienze di membri della comunità etnicamente diversi e che entri in empatia con esse, nonostante la logica divisiva della guerra che è alimentata da narrazioni in bianco e nero politicizzate.

Resta aperta la possibilità che sia molto difficile applicare una soluzione valida in una situazione ad un’altra situazione apparentemente analoga. Questo, sia tra individui che tra gruppi.

Dopo questa panoramica, vale la pena focalizzare la nostra attenzione su due studi: a) il perdono positivamente associato ad atteggiamenti favorevoli alla riconciliazione nell’Irlanda del Nord post-bellica (Noor, Brown e Prentice 2008); b) il perdono è legato a una ridotta distanza sociale dai membri dell’out-group nella Bosnia-Erzegovina post-bellica. (Čehajić et al. (2008)

Il perdono e la riconciliazione nell’Irlanda del Nord. () Due studi hanno usato campioni random per testare l’ipotesi del “contatto” sugli atteggiamenti intergruppali di cattolici e protestanti nell’Irlanda del Nord. In una ricerca i dati di due diverse indagini hanno mostrato che il contatto era positivamente correlato agli atteggiamenti verso la mescolanza confessionale. Una seconda ricerca ha esplorato i predittori del perdono intergruppale e ha dimostrato che il contatto intergruppale era positivamente correlato agli atteggiamenti dell’out group, con il tipo di prospettiva e con la fiducia. Questi studi indicano che la ricerca sulla psicologia della pace può fornire una comprensione più profonda del conflitto in Irlanda del Nord che, a suo tempo, può contribuire alla ricerca di una soluzione.

Alla domanda se il contatto ha fatto la differenza negli atteggiamenti intergruppali nel contesto del conflitto in Irlanda del Nord si può rispondere che i più forti predittori positivi del perdono erano gli alti livelli di fiducia nell’outgroup, l’assunzione di prospettive e l’atteggiamento. L’identificazione dell’ingroup con una delle due part era un predittore negativo, ma solo per i protestanti. Il contatto con l’outgroup era un predittore positivo significativo solo per i cattolici, ma era significativamente correlato al perdono per entrambi i gruppi. Un argomento che resta aperto alle ricerche future è quello delle relazioni causali: la fiducia promuove il perdono, o viceversa, o si influenzano a vicenda?

Per ridurre il conflitto intergruppale è nevessario costruire la fiducia, affrontare il senso di colpa collettivo e le sue emozioni correlate (Doosje, Branscombe, Spears, & Manstead, 1998). Il processo di pace nell’Irlanda del Nord può essere efficace se il perdono diventa il punto di partenza condiviso (Borris & Diehl, 1998); solo così può esserci un processo di riconciliazione (Enright, Freedman & Rique, 1998); (Hewstone et al., 2004).

b) Il perdono post-bellico nel conflitto nella Bosnia-Erzegovina. Broz (2005, 2013) ha raccolto un centinaio di testimonianze nei comuni fortemente vittimizzati della Bosnia del dopoguerra da parte di persone che, nel mezzo della violenza etnica, sono state aiutate o addirittura salvate da vicini, colleghi o amici del gruppo etnico rivale o “nemico”. Alcuni hanno testimoniato casi in cui le persone sono state uccise da gruppi etnici interni a causa dei loro tentativi di proteggere gruppi etnici esterni.

L’impatto della esposizione alla violenza di una fazione (etnica, razza o partito) sugli atteggiamenti riconciliatori può essere diverso, e persino opposto, all’impatto della vittimizzazione personale di guerra. La solidarietà per una persona diversa dalla propria etnia può trovare aiuto oppure ostilità da alcuni della sua stessa etnica: chi cerca la riconciliazione può essere considerato un traditore dai suoi stessi compagni di partito. 

Dyrstadetal. (2015) in Bosnia ed Erzegovina, nelle comunità più duramente colpite dalla violenza, la gente esprimeva un minor etno-nazionalismo. 

Studiando i processi di perdono e riconciliazione nel conflitto nella Bosnia-Erzegovina è stata fatta la distinzione fra la violenza comunitaria simmetrica (con una quantità e qualità di danni più o meno simili da entrambe le parti) e quella asimmetrica (con una quantità e qualità di danni sproporzionata da una delle due parti in conflitto). Le collettività fortemente colpite dalla violenza asimmetrica hanno diversi tempi e modalità di elaborazione del trauma collettivo rispetto alle comunità che sperimentano forme di violenza più simmetriche. 

Spini, Elcheroth e Fasel (2008) hanno studiato il grado di condivisione della vittimizzazione di guerra tra i gruppi in conflitto in otto paesi con recente violenza intergruppo. Hanno trovato che nei paesi in cui le violenze hanno colpito simmetricamente proporzioni uguali di persone in tutti i gruppi in conflitto, il sostegno collettivo per la protezione dei diritti umani è più forte che nei paesi in cui la violenza è stata unilaterale. 

Penic, Elcheroth e Spini (2016) hanno differenziato la prevalenza della violenza di guerra simmetrica da quella asimmetrica a livello comunitario del ex Jugoslavia ed hanno esaminato l’accettazione da parte degli abitanti del senso di colpa collettivo per le atrocità del loro gruppo, precedentemente dimostrato come un importante fattore di riconciliazione (Wohl, Branscombe, & Klar, 2006). Infatti, sembra che, nelle regioni dell’ex Jugoslavia del dopoguerra, l’accettazione della colpa collettiva per le atrocità del gruppo interno era più bassa nelle regioni segnate dalla violenza asimmetrica e più alta nelle regioni segnate dalla violenza simmetrica. 

I due tipi di violenza – simmetrica e asimmetrica – possono essere ugualmente devastanti per le popolazioni locali; infatti, i dati sulla mortalità nella maggior parte dei conflitti africani dal 1989 al 2010, Sundberg e Melander (2013) stimano che il numero di morti a causa di scontri armati è simile al numero di morti a causa di attacchi (asimmetrici) ai civili (anche se il rapporto preciso varia tra i conflitti e/o le fasi del conflitto). La violenza simmetrica e quella asimmetrica portano a reazioni morali diverse, incluse le psicodinamiche del perdono.

La violenza asimmetrica porta ai crimini di odio organizzati con delle rivolte alla pulizia etnica e al genocidio e implicano diversi tipi di atrocità con due caratteristiche: a) le vittime sono prese di mira non per il loro coinvolgimento nei combattimenti ma per la loro appartenenza a un gruppo sociale più ampio; b) l’aggressione avviene in una situazione di impotenza ed indefendibilità. La violenza asimmetrica crea delle situazioni in cui le popolazioni sono divise in gruppi dalla violenza anche se non si appartiene al gruppo bersaglio. Apparire o essere sostenitori dei combattenti che compiono un attacco diventa la base per ulteriori cicli di violenza. In questi casi, le peggiori atrocità possono essere percepite come inevitabili, giustificate e lodevoli (Reicher, Haslam, & Rath, 2008).

La violenza simmetrica, dove due eserciti combattono l’uno contro l’altro e producono vittime da entrambe le parti fra di loro proporzionate, l’impatto va oltre i combattenti e produce ciò che i militari chiamano eufemisticamente “effetti collaterali”. Le distruzioni causate da periodi prolungati di bombardamento producono vittime civili e una comunicazione interpersonale con i loro amici, vicini e colleghi prima della guerra può essere caratterizzata come un “noi contro loro” (Maček, 2009). 

Le esperienze condivise di vittimizzazione possono favorire un senso di destino comune al di là delle linee nemiche, aumentando così la solidarietà tra i membri della comunità e promuovendo la conservazione dei legami precedenti e persino l’emergere di nuovi legami (Drury, Brown, González, & Miranda, 2015). 

Mentre, alcuni crimini particolari per le loro tipologie e motivazioni rendono la strada del perdono molto più difficile. È quanto è accaduto nei Balcani tra Bosnia ed Erzegovina: un numero imprecisato di soldati violentava le donne del nemico appositamente per imbastardire la loro razza. Alcune donne incinte per questo tipo di violenza hanno interrotto la gravidanza; mentre altre – prevalentemente cattoliche – hanno portato a termine la gravidanza con gravissimi disagi. Ovviamente, questo rende il perdono ancora più difficile per tutti e aumenta le spinte nazionaliste e razziste.

Anche nell’attuale conflitto potremmo prevedere che un giorno i belligeranti (o la generazione successiva) si stringeranno la mano. Tuttavia, insieme all’ottimismo per il futuro è necessario unire il realismo del presente che potrebbe mettere dei presupposti che renderanno difficile il perdono: l’atteggiamento dei non belligeranti. 

Come accennato nell’introduzione, l’attuale periodo bellico iniziato con l’invasione della Ucraina da parte della Russia ha delle caratteristiche inedite che, oltre a quelle già accennate, è necessario aggiungere la discriminazione nell’accoglienza dei profughi. Infatti, dal 2015 fino al periodo del covid, il flusso migratorio proveniva soprattutto dall’Africa verso l’Italia. Dal febbraio ’22 c’è stato uno spostamento in massa dall’Ucraina verso l’Europa, soprattutto verso la Polonia. Una prima domanda è quella sull’accoglienza: i profughi provenienti dall’Africa sono stati accolti come quelli provenienti dall’Ucraina? Le strutture, anche quelle cattoliche, hanno avuto la stessa disponibilità? Negare queste differenze aiuterà il futuro processo di assunzioni di responsabilità e di riconciliazione? Il problema colpa-perdono sociale potrebbe iniziare già oggi se vengono riconosciute i motivi che hanno portato alle disparità di accoglienza evidenziando dei cambiamenti concreti. Ciò potrebbe essere difficile se queste discriminazioni avvengono nella stessa frontiera di un Paese tradizionalmente cattolico. Ovviamente, il riferimento non solo alla Polonia ma anche ad altri Paesi che non hanno spalancato le porte dell’accoglienza a profughi non battezzati e non bianchi così come hanno fatto per gli ucraini. Sicuramente queste considerazioni sono imbarazzanti ma chi nega questa realtà potrebbe spostare sempre più in avanti il momento della riconciliazione e rendere più tortuoso il processo di perdono. Il perdono prevede l’ammissione delle colpe e l’intenzione fattiva a risarcire. La riconciliazione che sicuramente vi sarà un domani sarà frutto dei coraggiosi che oggi ammettono le contraddizioni e si adoperano per rimediare al meglio con la cultura del perdono reciproco.

Lo stesso problema del perdono lo abbiamo per gli abusi (non solo quelli di tipo sessuali) commessi da chierici. La tolleranza zero è sufficiente per favorire il perdono da parte delle vittime, dei loro cari e del resto della Chiesa? Certamente no. La tolleranza zero è un grande passo in avanti per la rapidità e la drasticità nel comminare le sanzioni. Restano altri aspetti che modulano il perdono; per esempio, il percorso di recupero. Viene da chiedersi se questo percorso è fatto da tutti coloro che hanno avuto questi problemi e in cosa consiste questo percorso. C’è un organo di controllo nella Chiesa che può garantire se e come viene effettuato questo aiuto professionale? Una risposta chiara a questa domanda sarà di ostacolo al percorso colpa-perdono. 

Nello studio delle psicodinamiche della colpa-perdono, uno dei paradossi da considerare è proprio il contesto religioso che da una parte appare correlato con una maggiore propensione al perdono ma dall’altra, come appena visto, potrebbe essere un ostacolo al perdono autentico. Considerando la religiosità generale – quella che include tutte le religioni – di regola si può accettare l’idea che religione come un variabile correlata con la convivenza pacifica e quindi con una maggiore propensione al perdono. La religiosità, invece, può avere delle forme aberranti fino al punto di essere un ostacolo al perdono e, quindi, anche al bene comune. Qui si pone la domanda su come perdonare la Chiesa, nella sua accezione di struttura gerarchica responsabile di scelte sconsiderate anche per la formazione e per la scelta dei suoi ufficiali. Qui, il riferimento non è solo ai casi appena menzionati ma anche alla gestione del potere e dei beni materiali. In questo contesto non si può fare a meno di accennare alla gestione della cosiddetta “confessione” come luogo teologico del binomio colpa-perdono. Spesso, il sacramento della penitenza è considerato un contesto per colpevolizzare e far pesare il perdono, soprattutto alle persone più vulnerabili. In questi casi, le persone più vulnerabili sono coloro che hanno problemi psicologici che si sentono in colpa anche al solo pensiero di dubitare dell’autenticità della loro colpa. La colpa per essere psicologicamente autentica prevede: a) un’intenzione di danneggiare; b) un danno fatto; c) una volontà di risarcire. Quest’ultima caratteristica include il pentimento e il rimorso. Quanto meno sono presenti questi tre elementi tanto meno autentica è la colpa. Nella considerazione della colpa autentica vi possono essere altri elementi aggiuntivi che gli psicoterapeuti dovrebbero includere, soprattutto con pazienti religiosi. Questo dipende dalla specifica religione e del tipo particolare di religiosità individuale contestualizzata dalla cultura, dalla storia del paziente e della sua struttura di personalità. 

6. RICERCHE SUL PERDONO

In una ricerca, la fede e le credenze religiose sembrano svolgere un ruolo importante nella vita di molti individui. La relazione tra fede religiosa e perdono è stata analizzata in un campione di studenti universitari ai quali era stato chiesto di completare la Heartland Forgiveness Scale e il Santa Clara Strength of Religious Faith Questionnaire. L’analisi dei punteggi di entrambe le prove ha rivelato una correlazione positiva e significativa tra questi costrutti. Perciò, viene ipotizzato che esiste una relazione significativa tra la fede religiosa e la tendenza a perdonare. Ovviamente, come per tutte le ricerche, sono necessari ulteriori approfondimenti per osservare le correlazioni con le specifiche tipologia di religiosità.

Il tradimento della fiducia è un problema per cui molti pazienti chiedo aiuto. Alcuni psicoterapeuti sostengono che aiutare i clienti a perdonare esplicitamente coloro che li hanno feriti è un intervento terapeutico legittimo, anche se non richiesto. Tuttavia, è necessario chiedersi se i pazienti hanno bisogno di interventi di perdono esplicito e se il perdono è realmente richiesto. Chi ha ricevuto in psicoterapia un intervento esplicito sul perdono, ne ha tratto una reale utilità? Nella maggior parte dei 59 clienti di 3 centri di consulenza universitari le risposte sono state per lo più affermative. Avevano sperimentato una ferita che volevano perdonare e di cui volevano parlare in terapia. Coloro che hanno parlato esplicitamente di perdono hanno riportato un miglioramento generale dei sintomi presenti. ()

Un’altra ricercar sul perdono parte dal presupposto che negli USA gli incidenti automobilistici sono la principale causa di morte per le persone di età compresa tra i 18 e i 24 anni. La guida aggressiva è responsabile di oltre la metà degli incidenti mortali negli Stati Uniti. Si ipotizza una relazione tra il perdono, la rabbia alla guida e la guida aggressiva. Una ricerca ha esaminato l’impatto tra perdono e gli esiti negativi della guida in 446 studenti universitari che hanno completato un self-report su: perdono, rabbia alla guida, espressione della rabbia alla guida, comportamenti aggressivi alla guida e risultati negativi alla guida. Le correlazioni bivariate hanno indicato una relazione negativa significativa tra ciascuna dimensione del perdono e la rabbia alla guida, l’espressione della rabbia alla guida e la guida aggressiva. Il perdono (degli altri e delle situazioni incontrollabili) è risultato avere un effetto indiretto significativo solo sulle violazioni del traffico attraverso i fattori mediatici della rabbia alla guida e della guida aggressiva. Questi risultati supportano e confermano le ricerche precedenti che esaminano l’associazione del perdono con i risultati negativi della guida. Il perdono degli altri e il perdono di situazioni incontrollabili, ma non il perdono di sé stessi, hanno dimostrato di avere un impatto indiretto sulle infrazioni/avvertenze stradali, ma non sugli incidenti, negli ultimi cinque anni attraverso la riduzione della rabbia, dell’espressione della rabbia e/o dell’aggressività legate alla guida. È necessario approfondire le implicazioni, le limitazioni di questi risultati con altre ricerche. ()

Questa ricerca mirava a esplorare l’efficacia di un intervento cognitivo e di un intervento di perdono per ridurre la rabbia e l’espressione aggressiva durante la guida e a confrontare le differenze tra i due interventi. Il campione comprendeva 54 autisti di autobus maschi che sono stati suddivisi casualmente in tre gruppi, con 18 autisti per ogni gruppo. I partecipanti del primo gruppo hanno ricevuto l’intervento cognitivo, il secondo gruppo ha ricevuto l’intervento sul perdono e il terzo gruppo è stato il gruppo di controllo senza trattamento. Tutti i partecipanti dei tre gruppi hanno completato i questionari relativi alla rabbia alla guida durante la valutazione post-trattamento. I due gruppi di intervento sono stati ritestati dopo due mesi. Al termine del trattamento, i risultati hanno mostrato che sia l’intervento cognitivo che quello sul perdono hanno portato a riduzioni significative nell’intensità della rabbia alla guida, dell’espressione fisicamente aggressiva, ad aumenti significativi delle espressioni adattive/costruttive della rabbia alla guida e della capacità di controllare la rabbia. Gli interventi hanno promosso l’uso da parte dei conducenti di strategie cognitive positive per superare le emozioni negative. Tuttavia, i tre gruppi non differivano significativamente l’uno dall’altro per quanto riguarda il fattore tempo per attivare la rabbia alla guida, le espressioni aggressive veicolari e verbali e il livello di rabbia di tratto. Inoltre, i partecipanti al gruppo di intervento cognitivo hanno sperimentato un miglioramento significativamente maggiore nella rabbia alla guida, in particolare nei fattori scortesia, di ostruzione al traffico, nelle strategie cognitive negative, rispetto ai partecipanti al gruppo di intervento sul perdono. ()

Il perdono interpersonale è un’area di ricerca in crescita in psicologia ed è stato collegato a livelli più bassi di depressione e al processo cognitivo della ruminazione. È stata testata una nuova definizione operativa di perdono utilizzando i risultati comportamentali dei giochi economici: il Gioco dell’Ultimatum (UG) e il Gioco del Dittatore (DG) per esplorare come questi comportamenti corrispondano alla frequenza cardiaca fasica (HR), alla variabilità della frequenza cardiaca (HRV), alle differenze individuali e alle variabili psicosociali. I partecipanti (89, età media 19 anni. 46% femmine) sono stati monitorati con ECG continuo e sono stati fatti sedere per un periodo di 5 minuti di riposo basale, un adattamento pre-post della DG e della UG con avversari digitali. I soggetti sono stati trattati con la visione di immagini random di perdono o di disastro e poi un periodo di recupero di cinque minuti. I partecipanti sono stati valutati su: controllo della manipolazione e questionari sul perdono di stato e di tratto, sull’ostilità e sulla ruminazione. Il comportamento di perdono è stato proposto come un’offerta monetaria più generosa nei confronti di avversari precedentemente ingiusti e provocatori (valore positivo per l’offerta DG post-meno pre-manipolazione). Come ipotizzato, gli individui che hanno immaginato di perdonare avversari precedentemente ingiusti e provocatori hanno mostrato una maggiore propensione al perdono comportamentale (detto “di stato”) come contraccambio e hanno riportato meno affetti negativi rispetto a quelli indotti a ruminare. Il gruppo caratterizzato da una maggiore propensione al “perdono” ha anche mostrato una ridotta reattività HR, un aumento della HRV durante l’immaginazione e durante l’istanziazione del comportamento di perdono rispetto al gruppo caratterizzato dalla “ruminare”. Il perdono comportamentale (di stato) era correlato positivamente con il perdono di tratto e la motivazione alla benevolenza, e correlato negativamente con l’ostilità, la motivazione alla vendetta e la motivazione all’evitamento. Non sono emerse differenze individuali per sesso o HRV basale nei comportamenti di perdono, né differenze di genere nella risposta fisiologica; tuttavia, la ruminazione ha sorprendentemente predetto il comportamento di perdono solo tra gli uomini. I risultati supportano il paradigma comportamentale, corroborano un modello di integrazione neuro-viscerale rispetto ai cambiamenti fasici dell’HRV e suggeriscono che il perdono può reclutare funzioni esecutive in parallelo ai processi di regolazione delle emozioni. Il perdono può offrire benefici cardioprotettivi attraverso la riduzione della reattività cardiovascolare, mentre l’attenzione alle differenze di genere nel legame tra perdono e ruminazione è incoraggiata in ricerche e interventi futuri. ()

In uno studio su 21 partecipanti che hanno partecipato a una giornata di ritiro sulla psicologia del perdono si partiva dall’’ipotesi di base l’impegno sul perdono possa contribuire in modo significativo alla riduzione dei sintomi di ansia, depressione e ostilità associati al dolore percepito. Oltre al lavoro della giornata di ritiro, ai partecipanti è stato chiesto di utilizzare due strumenti prima della giornata di ritiro e dopo la giornata di ritiro. I due strumenti erano la SCL-90-R e l’Enright Forgiveness Inventory. Il primo misura i sintomi psicologici, in particolare ansia, depressione e ostilità. Il secondo misura il grado del proprio stato di perdono o non perdono. Dei 21 partecipanti, 19 hanno riferito di essersi impegnati nel perdono. Di questi 19, 10 partecipanti hanno riportato minore intensità in tutti e tre i sintomi di ansia, depressione e ostilità. Altri tre partecipanti hanno riportato una minore intensità nella depressione e nell’ansia. Tre partecipanti avvertito meno ostilità. Un partecipante ha riportato un aumentato in tutti i sintomi. In due partecipanti sono aumentati la depressione e l’ansia. Due sono aumentati nella depressione. Uno è aumentato nella depressione e nell’ostilità. Per due l’ostilità è rimasta invariata. Per uno, depressione e ansia sono rimaste invariate. Per due, l’ansia è rimasta invariata. Nonostante questi risultati contrastanti con nove delle persone che hanno perdonato, c’è comunque evidenza di una riduzione significativa dell’ansia, della depressione e dell’ostilità in tutti coloro che hanno perdonato, tranne uno. Uno ha mostrato un aumento dei sintomi in tutti e tre i sintomi principali. Dei due che si sono rifiutati di perdonare, uno è aumentato nel perdono con una diminuzione dell’ansia ma un aumento della depressione e dell’ostilità. L’altro che ha rifiutato di perdonare è aumentato in tutti e tre gli stati affettivi. Questo studio analizza anche la natura del cambiamento risultante dalle diverse fasi del lavoro sul perdono: coloro che hanno semplicemente perdonato, coloro che hanno perdonato e rilasciato una lettera o un certificato di perdono, coloro che hanno inviato la lettera o il certificato di perdono, e coloro che hanno inviato la lettera o il certificato e si sono resi pubblici con un’altra persona o altre persone. Questo studio sintetizza gran parte della ricerca attuale sulla psicologia del perdono. Uno spazio significativo è dedicato anche all’analisi statistica dei dati. Il manoscritto contiene figure e tabelle. Il titolo di questo studio, che enfatizza la natura pastorale del lavoro, indica che questo è stato fatto nel contesto della fede e del ministero pastorale. Sebbene queste componenti spirituali possano aver facilitato il processo di perdono, la ricerca indica che la fede e la spiritualità non condizionano il perdono e che gli obiettivi del perdono possono essere raggiunti senza gli strumenti aggiuntivi della fede e della spiritualità. Infine, questo studio è congruente con l’impegno per l’interesse sociale, per le relazioni piuttosto che per l’alienazione sociale. Questo è congruente con la cooperazione, il buon senso (piuttosto che della logica privata) e con la natura democratica delle relazioni, con il rispetto e l’osservanza dei diritti di tutti. Questo è compatibile con l’approccio adleriano e tutti gli altri approcci che sottolineano il lavoro, l’amicizia, l’intimità sessuale e il compito cosmologico o di significato. Tutte queste realtà sono – direttamente o indirettamente – tutti toccati dalla dinamica del perdono. ()

La IPV (Intimate Partner Violence) violenza da partner intimo rappresenta un’ampia gamma di comportamenti che includono la perpetrazione di violenza psicologica. Utilizzando una varietà di definizioni, circa il 20-60% degli studenti universitari riferisce di essere stato vittima o di aver perpetrato la IPV (Cornelius & Resseguie, 2007; Riggs & O’Leary, 1996; Sharpe & Taylor, 1999). Da notare che l’abuso psicologico è più comune e può avere un impatto più negativo dell’abuso fisico (Murphy & Cascardi, 1999). Per questo motivo, è necessaria una maggiore comprensione della perpetrazione dell’IPV psicologico all’interno delle relazioni tra studenti universitari. Pertanto, il primo obiettivo del presente studio è stato quello di replicare il lavoro innovativo di Belus e colleghi (2014) e indagare il processo attraverso il quale gli stili di attaccamento insicuri e le dimensioni della gelosia romantica funzionano come fattori di rischio per un maggiore esercizio nell’aggressione psicologica. Il secondo obiettivo è stato quello di indagare il perdono come nuovo fattore protettivo nell’ambito della psicologia positiva che può mitigare il rischio dell’attaccamento e della gelosia sulla perpetrazione della violenza psicologica. I partecipanti (n = 441) sono stati presi dal pool di soggetti di ricerca in psicologia umana dell’Università dell’Alabama meridionale con un’età media di 19,42 anni (SD = 2,44) ed erano prevalentemente di sesso femminile (86,6%). I partecipanti hanno dichiarato principalmente di essere caucasici (66,9%) o afroamericani (23,8%). Hanno completato una batteria di sondaggi online e hanno ottenuto due crediti formativi come compenso per la partecipazione allo studio. I risultati hanno rivelato che, come previsto, specifiche dimensioni della gelosia romantica hanno parzialmente mediato le relazioni tra attaccamento ansioso ed evitante e livelli più elevati di coinvolgimento nella perpetrazione di abusi psicologici. Tuttavia, contrariamente alle previsioni, l’assunzione di maggiori comportamenti di evitamento, che teoricamente indica un minore perdono e un maggiore disprezzo dopo una trasgressione percepita dal partner, è stata associata a una minore perpetrazione di abusi psicologici quando erano presenti attaccamento ansioso e gelosia cognitiva. Risultati simili sono stati riscontrati per l’attaccamento evitante. Nel complesso, questi risultati sollevano diverse considerazioni cliniche interessanti. I medici potrebbero trarre beneficio dalla valutazione della funzione e dell’efficacia dei comportamenti di evitamento dei clienti, al fine di promuovere relazioni sane. Inoltre, mentre una minore aggressività psicologica è auspicabile per l’efficacia interpersonale, maggiori comportamenti di evitamento, che fungono da proxy del mancato perdono, possono in realtà essere forme passive di aggressione. Tuttavia, un maggior perdono attraverso comportamenti di evitamento può essere vantaggioso se la persona ha chiuso la relazione e non ha più contatti per aggredire il partner. In definitiva, il perdono rappresenta una struttura complessa che comprende componenti comportamentali, cognitive ed emotive e può dipendere dalla natura della trasgressione subita. ()

Il narcisismo vulnerabile (VN) indica delle implicazioni importanti per la salute mentale e il funzionamento psicosociale. Una ricerca ha testato un modello teorico proposto che prevede delle relazioni tra VN e a) perdono interpersonale; b) umiltà e c) depressione con la differenziazione di sé (DoS) come mediatore degli effetti in un campione di studenti laureati in professioni di aiuto (N = 162) in un’università degli Stati Uniti affiliata alla Chiesa. La VN è stata elaborata sulla base della Psicologia del Sé e utilizzando i costrutti: a) bisogni di idealizzazione; b) instabilità degli obiettivi; e c) nascondimento del sé. I risultati basati sulla modellazione delle equazioni strutturali hanno supportato il modello teorico proposto di VN, con la DoS che media le relazioni tra le variabili predittive di idealizzazione dell’approccio, instabilità degli obiettivi e nascondimento di sé e le variabili dipendenti di depressione, perdono e umiltà. Questi risultati suggeriscono i potenziali benefici dell’integrazione della ricerca in psicoanalisi, sistemi familiari e psicologia positiva. Perciò, si incoraggia una formazione specifica dei professionisti dell’aiuto e la pratica clinica. ()

Sicuramente non è facile fare ricerche sul perdono-colpa ma possiamo trascurare quest’area della psicologia così strettamente correlata con la salute globale della persona, della società e della umanità. Non solo i clinici ma tutti gli educatori, a partire dai genitori, sono massimamente interessato alla comprensione e alla gestione delle emozioni. Il binomio colpa-perdono apre la porta a tutte le altre emozioni che hanno un impatto con la coscienza morale personale, con la salute fisica e con la qualità di vita sociale. Il binomio colpa-perdono non può essere ristretto solo una questione morale o religiosa. Come la spiritualità, anche la colpa-perdono è parte della struttura ontologia dell’uomo come tale. 

7. PERDONO: DIRITTO-DOVERE 

Il perdono è un dono che si può ricevere ma c’è anche il dovere di perdonare? Qual è il rapporto fra il diritto e il perdono?

In una intervista che Papa Francesco ha dato a RAI 3 nella trasmissione “che tempo che fa” il 5 febbraio ‘22 ha espressamente menzionato il diritto al perdono. Probabilmente, si riferiva ad alcune condizioni. Infatti, da un punto di vista cristiano si potrebbe parlare di diritto al perdono qualora qualcuno chiedesse il perdono, mostrasse pentimento e disponibilità a un adeguato risarcimento. Senza questi presupposti avremmo un perdono al di fuori della giustizia. Tuttavia, è pur vero che potrebbe esserci un perdono autentico anche se non dovesse esser fatta giustizia. 

Inoltre, il perdono implica anche il senso della dignità: “tu non sei degno del mio perdono”; “tu non sei degno di vivere”. In quest’ultimo caso abbiamo la legalizzazione della pena di morte oppure l’emarginazione come morte sociale. 

La complessità del perdono potrebbe ridursi ad una esemplificazione di Frankl: il monantropismo. Questo termine fu usato dallo stesso Frankl in occasione delle Conferenza Mondiale su “Il compito dell’Università nella lotta per la pace” celebrata a Vienna il 2-29 agosto 1969. Frankl sostiene che l’autotrascendenza – come capacità di impegnarsi e sacrificarsi per qualcosa o qualcuno che va al di là dei propri bisogni e dei propri diritti – non solo aiuta ad affrontare i problemi psicologici ma è anche centrale in un processo di pace. 

Accettare il senso della vita (e al dolore) e dare un significato personale alla vita (e al dolore) – come inteso nell’introduzione – aiuta a sviluppare l’autotrascendenza che è una delle espressioni che accomuna tutte le spiritualità di tutte le culture e le religioni, anche la spiritualità di coloro che si proclamano atei. È l’autotrascendenza che ci permette di credere – nonostante le diverse culture, razze, religioni e partiti – in una sola umanità divisa in onesti e disonesti. “Se devono essere trovati i valori, se deve essere trovato un significato che valga per tutti, allora vuol dire che l’umanità, dopo aver seguito per millenni il monoteismo, ossia la fede in un solo Dio, deve fare un passo in avanti e giungere alla consapevolezza che esiste una sola umanità. Oggi, più che mai, abbiamo bisogno di un monantropismo” () 

Credere che tutti facciamo parte della stessa umanità con la stessa dignità avrebbe un primo effetto immediato: l’eliminazione dei privilegi. In questo modo sarebbe più facile percepire la pace come un diritto e il perdono come un dono da dover dare e come un diritto di ricevere. 

Tutti gli esseri umani hanno la medesima dignità ma tutti si dividono in due razze: quella degli onesti e quella dei disonesti. Questo è il pensiero di V. Frankl che condivido e che ho riscontrato in tutti i vari contesti del mondo. Chi chiede o chi accetta dei privilegi depaupera il bene comune e non può essere considerato onesto, anche se dovesse appartenere a una struttura di beneficienza.  

CONCLUSIONE

Come abbiamo appena considerato, c’è una correlazione significativamente positiva tra la fede religiosa e la tendenza a perdonare. Questo dato è tutt’altro che secondario perché implica una maggiore responsabilità soprattutto dei leaders religiosi. Infatti, se per primi i credenti – di qualunque religione – e le persone di cultura convergessero sul monantropismo nella formazione avremmo un primo impatto positivo in molte famiglie e sui movimenti pacifisti di tutto il mondo.

Alla luce di quanto qui considerato, anche nell’attuale conflitto determinato dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, è impressionante una novità mai evidenziate prima: grazie ai mass media, in pochissimo tempo in tutto il globo vi sono state iniziative pacifiste. È una realtà storica che tutti gli invasori e tutti i tiranni hanno perso le loro guerre per una variabile che non avevano previsto. In questo caso, la variabile non prevista potrebbe essere l’unità di quasi tutto il globo – anche all’interno della stessa Russia – di forze pacifiste. Forse siamo di fronte a un bivio: la terza guerra mondiale oppure la prima espressone di solidarietà mondiale. Forse può apparire evidente che non è una guerra di un popolo contro un altro popolo ma di un gruppo guerrafondaio contro un mondo pacifista. 

Questo però non significa che la pace sarà facile o vicina. Dalle prime osservazioni psicologiche ci si può chiedere se sia più efficace mostrare prevalentemente le atrocità sulla Croce Rossa o sugli ospedali o sui civili (che incrementano l’ostilità e rendono più difficile il percorso del perdono) oppure se può essere più efficace mostrare le manifestazioni pacifiste che si svolgono in tutto il mondo. 

La tesi qui sostenuta è che la formazione allo sviluppo della dimensione prosociale è ciò che più predispone ad un perdono più autenticamente umano e culturale (valido anche per i non credenti) e più autenticamente religioso (valido per tutti i credenti di qualunque fede).

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