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Il Mosè di Mariupol: chi è, e come ha portato via 117 persone dalla città

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CC- Creative Commons

Dolors Massot - pubblicato il 31/05/22

Oleksiy Symonov ha deciso che il rifugio in cui si trovava con la sua famiglia non era un luogo sicuro, ed è diventato il leader della spedizione

Tra le tante storie di eroismo che sorgono dal racconto della guerra in Ucraina (e che non conosceremo), c’è quella di Oleksiy Symonov, l’uomo che ha guidato a piedi 117 persone per uscire vive da Mariupol in piedo assedio e sotto i bombardamenti. Le ha guidate per 12 ore e le ha portate in un posto più sicuro. Per questo motivo hanno iniziato a chiamarlo “il Mosè di Mariupol”. Dal deserto dell’Egitto, la realtà ci porta sulle strade dell’Ucraina.

Mariupol è ora occupata dai Russi. Chissà cosa sarebbe stato di tutte queste persone se fossero rimaste in città. Nulla dava loro sicurezza, neanche i rifugi, e il cibo scarseggiava.

Symonov ha raccontato l’avventura alla giornalista Mónica G. Prieto di ABC. Prima di essere soprannominato «Symoisés», dal nome appunto di Mosè, Symonov lavorava come organizzatore di atti ed eventi sportivi. Ha 44 anni. All’inizio della guerra è andato in un rifugio del suo quartiere con la moglie e i tre figli, tra i 7 e i 14 anni. Era un sotterraneo grande, e ci stava una media di 280 persone che andavano e venivano, con circa 40 bambini, altrettanti anziani e disabili.

Faceva freddo, e dovevano raccogliere l’acqua piovana per poter bere e fare zuppe o tè. Accendevano il fuoco con tronchi che gli uomini andavano a cercare: prima li tagliavano con una sega che avevano comprato, ma poi hanno approfittato dei tronchi degli alberi distrutti dalle bombe.

Erano frequenti i bombardamenti, e il rifugio, ha riferito alla giornalista, è stato bombardato quattro volte.

Il momento di fuggire

Il bombardamento del teatro di Mariupol, avvenuto il 16 marzo, ha fatto sì che Symonov decidesse di uscire da quell’inferno… portando con sé tutti quelli che poteva.

Il 22 marzo, senza mezzi di trasporto né provviste, hanno lasciato la città. Bisognava approfittare del fatto che i Russi stavano attaccando altri quartieri, perché nulla faceva pensare che se avessero aspettato avrebbero potuto avere un’opportunità migliore.

Erano 80 persone che avevano confezionato come potevano tutto quello che avevano con sé nel rifugio. Altre 37 si sono unite a loro, e si è formata una colonna umana. Il più piccolo aveva 5 anni, il più anziano 70.

Symonov lo ha spiegato così alla giornalista:

Eravamo talmente tanti da risultare molto visibili, ma in quel momento i soldati russi pretendevano di essere impegnati a liberarci e nessuno ci ha sparato. Abbiamo iniziato a camminare senza sosta, senza guardarci indietro. Non avevamo bandiere bianche, né eravamo identificati in alcun modo, perché credevamo che questo potesse essere interpretato come una provocazione da una fazione o dall’altra. Ci siamo messi dei giubbotti arancioni, di salvataggio, perché sapessero che non eravamo militari”.

È stato molto rischioso perché erano in corso dei bombardamenti, ma non abbastanza vicino da farci sentire a rischio imminente”.

Le strade erano state distrutte dall’artiglieria, dagli attacchi aerei e dai colpi di mortaio. Abbiamo visto i soldati solo mentre uscivamo dalla città. Il nostro distretto è stato raso al suolo, distrutto dall’artiglieria”.

Il gruppo guidato da Symonov ha dovuto superare 17 posti di controllo dei Russi, che “erano molto professionali” e li hanno “trattati apparentemente bene”, ma li invitavano a unirsi a un trasporto che li avrebbe portati in Russia. Loro non volevano, anche se Symonov non giudica le persone che lo hanno fatto, perché comprende che in quella situazione tutti cerchino di fuggire dal pericolo più grande.

Le dodici ore di fuga sono stati momenti in cui tutti hanno dato il meglio di sé:

Nessuno rallentava la marcia, neanche i bambini. Nessuno si lamentava della stanchezza. A volte si diceva loro che potevamo camminare più lentamente perché le esplosioni erano lontane, ma rifiutavano di farlo, tanta era la voglia di allontanarsi da lì e mettersi in salvo. Nessuno aveva paura della fuga, la paura era quella di rimanere sotto le bombe”.

Dopo 12 ore, quasi esausti e in condizioni molto precarie, i componenti del gruppo sono arrivati a Komyshuvate, ed è stato allora che si è prodotta un’ondata di solidarietà. I vicini sono giunti in loro aiuto come meglio hanno potuto, offrendo cibo e alloggio. I fuggitivi erano sempre nel loro Paese in guerra, ma erano più al sicuro.

Symonov dice che si era allenato a situazioni di crisi che potessero verificarsi nel suo lavoro, e gli sono stati utili anche gli esempi di film apocalittici. Il motore, però, è stato senza dubbio il suo desiderio di mettere in salvo la propria famiglia e tutte le altre persone che ha potuto aiutare.

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