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D’Avenia suggerisce un libro per l’estate (è di un prete)

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Luigi Maria Epicocovia Facebook - Alessandro D'Avenia via peacepix | Shutterstock

Paola Belletti - pubblicato il 24/05/22

"Non ci sono più i giovani di una volta": invece sì e il loro cuore è fatto allo stesso modo. Ciò che inchioda è il gelo dell'individualismo, ciò che libera il calore della relazione. D'Avenia ha un ottimo consiglio di lettura (e l'autore è Don Luigi Maria Epicoco).

Finali apocalittici a ritmo pop

Con le mani, con le mani, con le mani Ciao-Ciao, con i piedi con i piedi con i piedi Ciao-Ciao

La Rappresentante di lista, Ciao Ciao

Mia mamma la canta spesso in macchina, mi racconta una delle figlie, decisamente divertita.

Io mi sono slogata una caviglia, invece, saltellando sulle note di questa, in cuffia, nelle mie “passeggiate metaboliche” del mattino.

Dove si balla
Fottitene e balla
Tra i rottami, balla
Per restare a galla
Negli incubi mediterranei

Due canzoni pop, due conclamati tormentoni arrivati presto come il caldo di questo maggio già un filino opprimente. (“Mamma, d’estate fa caldo. Ora non dircelo cento volte al giorno, che siamo ancora a maggio”. “Appunto, è ancora primavera e fa calso”)

Senza troppa esegesi del testo, ne basta la lettura, per scoprire che quei due brani danno voce all’angoscia infiacchita di chi non ha la forza di sperare, nemmeno forse di arrabbiarsi. I rottami già ci sono, la testata nucleare che potrebbe distruggerci forse è già in volo.

Il cuore ghiacciato dei nostri giovani

Ho pensato che anche questi pezzi di musica potessero confermare quello che Alessandro D’Avenia ci racconta di vedere nei giovani, a volte probabilmente senza che nemmeno loro stessi se ne avvedano.

Anche se queste canzoni non sono di giovanissimi; tra quelli infatti si sente ancora tanta sana rabbia, autentico disprezzo per le convenzioni di cui non si condivide il senso, amore selvaggio ed estremo, capace però di riconoscersi insufficiente. Mi vengono in mente i Maneskin, Sangiovanni, lo stesso Mahmood con Blanco, Madame,…)

Nell’Ultimo Banco di lunedì 23 maggio risponde in differita alla lettera di un ragazzo, poco più che ventenne, ma fiaccato come avesse già passato i settanta, senza una speranza da essersi potuto giocare nel tempo ormai trascorso. Ha un che di definitivo e radicale e questa è la prova della sua giovinezza, insieme alla temperatura del cuore.


«Ho 23 anni e mi sento morto. Sto realizzando i miei progetti di studio e di lavoro, gli amici non mi mancano, ma sono sempre insoddisfatto. In questi ultimi mesi, in particolare, sento il mio cuore arido, di ghiaccio. Non c’è più amore nella mia vita: come rompere questa corazza per venire incontro alla vita e scoprire la mia vocazione?».

Corriere della Sera

L’inferno è fermo, l’amore move

Che meraviglia però, queste poche, terribili parole: un giovane che si guarda dolorosamente vivere da morto, inaridito; ma poi si corregge e capisce che si tratta di gelo e non di arsura.

Un ragazzo che intuisce, ricorda forse, che fuori dalla calotta gelata che lo isola, lo attende la forza che sa dovrebbe sospingerlo: una vocazione ardente pronta a bruciare la vita, danzando.

Ma non come i disperati che se ne fottono e ballano sopra dei rottami di cui diamo la colpa altrui, no, una danza diversa. Non è mio l’accostamento, ma di D’Avenia: per mostrare quanto sia distante la vita vera dalla disperazione ci ricorda che i beati che Dante incontra non fanno che danzare, cantare, sorridere mettendo ordine nell’energia più incontenibile del creato, l’amore.

Dante e l’idea giusta di inferno

D’Avenia, da vero educatore che sa introdurre i suoi studenti alla lettura delle opere per quello che sono, cioè diari di bordo di lunghe traversate fatte da altri uomini in mari simili ai nostri, ha pensato a Dante e all’inferno.

Come l’inferno non è quel posto dove alla fine si intrattengono tutti i tipi affascinanti e simpatici che hanno calcato la polvere di questo mondo, così non è nemmeno il luogo del calore, del fuoco che scoppietta, del movimento perpetuo che noi contemporanei, tutti risatine e ammiccamenti, consideriamo divertente. Lucifero, il cuore raggelante dell’inferno, si muove al solo scopo di intrappolare nel ghiaccio i suoi dannati.

Chi ama balla

All’opposto nell’Empireo, nel lago di luce dei beati prossimi alla Trinità, non si fa che muoversi non perché costretti ma perché pieni di desiderio e di libertà di obbedire a Chi move, l’amore.

Quando Dante arriva al fondo dell’inferno, contrariamente a quanto ci aspetteremmo, non ci sono fuoco e fiamme, ma una distesa gelata in cui i dannati sono incastrati. (…) Dante sa che all’opposto dell’amore, a cui attribuisce sempre il verbo muovere, non c’è l’odio ma il controllo e la paralisi: dove l’amore è assente non c’è iniziativa e creatività. Questa condizione di gelo infernale tocca molti ragazzi e non solo: cuori gelati dal disamore, menti irrigidite dalla paura, corpi assiderati dalla solitudine. Come perdiamo l’amore e quindi la capacità di andare incontro alla vita per scoprire la nostra vocazione?

Ibidem

Come se la realtà fosse brutta

Tutto l’impegno profuso dalle agenzie che vogliono monopolizzare il nostro immaginario – libri, film, persino il modo di raccontare le disgrazie o le guerre – non si spiega se non con l’obiettivo – demoniaco -di farci disperare della bellezza, di convincerci che la realtà non sia altro che un copione destinato ad un finale tragico, con un prologo sanguinario e un sequel apocalittico. E tutto questo che tipo di effetto può avere sui giovani? (ma anche su noi, a dire la verità, che siamo stati giovani vent’anni fa e ora abbiamo figli davanti ai quali resistere con la nostra fragile letizia).

Gli esiti, soprattutto sui giovani, sono due: ripiegarsi sul proprio malessere vivendo nel tentativo di lenirlo oppure partecipare alla distruzione, rivolgendola contro se stessi o contro gli altri.

Ibidem

Anestesia o ri-animazione ?

Il ragazzo al parco che racconta il ciclo nel quale si lascia portare – dolore, canne, sollievo, assuefazione, dolore e via daccapo – tradisce proprio questa paralisi: la vita, diventata inaccessibile nel suo nucleo più incandescente, si riduce ad un accompagnamento alla morte, come ci accontentassimo di cure palliative anzitempo, senza la vera pietà che esse esigono quando c’è vera malattia e vera morte.

Sembrano aborti tardivi, figli perfetti, integri nel corpo e nella mente, pronti ad affacciarsi all’esistenza, che si lasciano morire su un freddo tavolo d’acciaio.

Vite da godere, vite da spendere

Questa è una mia considerazione, ma di sicuro la mentalità abortista ha irrigato come un fiume sotterraneo le radici ideali di intere generazioni. La vita è oggetto di desiderio e decisioni altrui, in balia di arbitrii insindacabili, persino del nostro, volendo.

Mi ricordo un hashtag di qualche tempo fa, #wishIwasaborted, che raccoglieva i tweet di quelli che si lamentavano di non essere stati abortiti. E così, ridotta a risorsa di cui disporre, non si ha più alcuna energia per viverla, solo se ne fruisce.

(…) Ho ascoltato uno di loro che, tra un’acrobazia e l’altra, diceva: «Io fumo tante canne, ma quando sento di diventare dipendente smetto perché non trovo più sollievo, poi però dopo un po’ ricomincio perché ne ho bisogno. Ma divento di nuovo dipendente e così ricomincia il giro: ci sta, per sopportare tutto…».

Ibidem

Non serve anestesia, servono manovre di rianimazione e il dolore è il più imperioso dei massaggi cardiaci.

Un dolore «anestetizzato» non trova esito creativo, come accade ad alcuni dei dannati danteschi (…). Vedo sparire ciò che caratterizza l’uomo e soprattutto i giovani: la capacità creativa, cioè slancio e impegno per cambiare il mondo, inventando il nuovo, proprio perché ciò che si ha attorno non piace, non basta, fa soffrire. Nel giovane skater il dolore non si trasforma in lotta o almeno in domanda inquieta come per il giovane della lettera.

Eppure proprio quel dolore, se non venisse disattivato, diventerebbe essenziale per trovare la vocazione (…)

Le crisi di destini sono crisi educative

La crisi, quindi, non è di chi dovrebbe essere educato, ma di chi educa o meglio abdica al suo compito o lo riduce a brandelli di protocolli, competenze, funzioni, procedure.

Anche l’educazione, forse, segue il modello illusorio delle infinite possibilità, moltiplicando le opzioni ma sottraendo quella fondamentale: accetti la vocazione di vivere? Sai farti carico della tua stessa bellezza e metterla a servizio degli altri (meglio ancora se passando dall’Altro? Potremmo cantare con San Filippo un festoso Chi tutto per Dio lascia, in Dio tutto ritrova)?

Vecchie e nuove povertà

La passione di un vero educatore si vede anche nella lucidità dell’osservazione della realtà, fosse anche (provvisoriamente) disastrosa. Per questo D’Avenia prende in seria considerazione la pur parziale fotografia che dei ragazzi esce dal report Impossibile 2022 sui diritti dei minori.

Presentato a Roma da Save the Children mostra il triste arazzo della povertà in Italia:

(…) alla povertà materiale (1,3 milioni di bambini in povertà assoluta) si associa quella educativa: il 51% dei ragazzi di 15 anni non comprende il significato di un testo e non sa sviluppare un ragionamento.

Ibidem

Per tale effetto serve una causa prima, eccola: non c’è vero investimento sui figli.

In Italia la spesa welfare per i minori è solo il 2% (la media europea è il doppio), e siamo l’ultimo Paese dell’Ue per spesa pubblica totale a favore dell’istruzione (l’Europa ci piace solo per certe scelte e infatti la spesa per la Difesa è perfettamente nella media europea).

Ibidem

Troppa resilienza, poca rinascita

L’emergenza educativa non esiste più, siamo già in una sorta di dopo-guerra:

Un Paese con un impegno (welfare e istruzione) insufficiente per i minori va in bancarotta di vocazioni. La situazione è peggiorata ulteriormente, nell’ultimo periodo, per quella che è stata definita «implosione cognitiva» dei ragazzi, frutto della combinazione di: confinamento, dad, uso dei social, ore di sonno perdute e diminuzione dei rapporti con i pari.

Ibidem

La cura

Non ha ragione Sartre, l’inferno non sono gli altri, anzi sono proprio le relazioni, faticose e a volte dolorose come dell’acqua ossigenata buttata su una ferita fresca, che possono salvare dall’assideramento i cuori.

Il contrario del ghiaccio è il calore delle relazioni che fanno da grembo al nostro sé autentico, a qualsiasi età. La fame di nascere è più radicale della paura di morire, ma se quest’ultima prevale il problema è culturale: interiorizziamo a tal punto la morte che la preferiamo alla vita, ci sentiamo in colpa di vivere e diventiamo incapaci di movimento.

Ibidem

La falla della libertà che non si chiude

Ogni vero maestro lo sa, nessuna condizione è tale da impedire fino in fondo un gesto di vera libertà. Così è anche per i nostri giovani, che vivono in un inferno ingentilito. Posso decidere, hanno l’enorme potere di fare della propria vita un’esplosione di novità. Il primo passo è proprio il dolore, il suo ascolto perché, messaggero della vera vocazione, viene davvero a chiamarci.

Ci vuole una ribellione prima di tutto interiore che parta proprio dal dolore per trasformarlo in azione, come bisognava fare a scuola alla ripresa dal periodo di dad (invece durante le lezioni siamo ancora, a fine maggio, seppur distanziati e con finestre aperte, con le mascherine, non necessarie nei locali e nelle discoteche frequentate dagli stessi ragazzi). Occorre mettere in discussione: una politica incapace di prendersi cura dei cittadini nei luoghi che ne sono la manifestazione più evidente (ospedali e scuole);

Ibidem

Il lavoro e il successo messi in discussione

E’ interessante la lettura del macro fenomeno del mercato del lavoro lombardo per cui ben il dieci per cento dei lavoratori a tempo indeterminato (i “posti fissi” dell’adorabile Checco Zalone) ha rassegnato le dimissioni nel 2021. La rassegnazione, però, pare solo in questo caso il termine tecnico che è. La ragione principale che ha portato 419.754 lavoratori ha dimettersi è il desiderio di una maggiore qualità della vita, di un lavoro che non assorba come una droga tutte le nostre energie migliori. Un altro dato importante è che la metà dei dimissionari è giovane, sotto i 35 anni.

E’ un innegabile segno di insofferenza per quella cultura del controllo che denuncia D’Avenia: io non sono il mio lavoro, non accetto un lavoro qualsiasi (ma nemmeno vago alla ricerca del lavoro che mi fa trasalire di emozioni ad ogni ingresso in azienda o all’accensione del computer), non ambisco a diventare l’assistente di un Diavolo qualsiasi che vesta Prada.

E’ un elemento importante, una ribellione giusta, se riconducibile, come sembra, all’esigenza di un nuovo protagonismo esistenziale. Non è l’esasperazione dell’individualismo, ma forse il primo passo deciso per il recupero della nostra dimensione relazionale. Una nuova lettura persino del successo, relativizzato e ricondotto a tutti i fattori non-individuali, che lo hanno determinato.

Dal gelo della solitudine al calore delle relazioni

Per questo la notizia più importante della lettera di quel ragazzo è che l’ha scritta a qualcuno. Che la relazione esiste ed in essa può essere aiutato a fare il primo passo verso il disgelo. La crisi è il sintomo da ascoltare, il dolore ha un messaggio, la guarigione è una lotta.

E così come la relazione è luogo per iniziare a guarire la relazione resta il terreno nel quale giocarsi, seriamente e con allegria, la propria vita ritrovata.

Poi cerca maestri, amici, amori veri: riduci al minimo le relazioni essenziali e liberati di tutte quelle (fisiche e digitali) di controllo, a poco a poco, scoprendo la meraviglia che sei, troverai il coraggio di andare incontro alla vita anche se è dura, anzi scoprirai che proprio la sua resistenza è la materia prima della tua vocazione…

Ibidem

Un libro per amico: “La scelta di Enea” di Don Luigi Maria Epicoco

Servono amici veri, dunque. E valga quindi anche il proverbio per cui un buon libro è un buon amico.

Ora D’Avenia si rivolge direttamente a quel ragazzo e ad ogni ragazzo che si riconosca in quel principio di assideramento del proprio cuore,

E magari, invece di accendere la tv, tu che ancora hai la fortuna di comprendere un testo, leggi un libro che può dirti cose come quelle che da poco ha scritto un mio caro amico su Enea: «Nella storia di Enea la motivazione nasce soprattutto da un’esperienza d’amore, da un’esperienza relazionale. È proprio pensando alla moglie, al padre, al figlio, alle persone che ama, che Enea reagisce. In un tempo come il nostro, dominato dall’individualismo, non siamo più abituati a leggere la vita a partire dalle relazioni. E molto spesso vogliamo cercare solo dentro di noi, nella solitudine del nostro io, la motivazione per reagire, per poter fare la scelta giusta. Solo e soltanto quando la nostra vita entra in contatto con un amore diverso dal nostro io, lì scatta quella responsabilità che ci fa fare delle scelte che normalmente non faremmo. E se la prima cosa da fare è reagire, noi reagiamo sempre per amore di qualcuno» (Luigi Maria Epicoco, La scelta di Enea. Per una fenomenologia del presente)

Ibidem

Andiamo davvero dove si balla?

Forse non lo ricordiamo più, ma siamo sulla rotta che tende al sommo bene, al Paradiso; siamo fatti per un lieto fine che già ci viene incontro, e più ci avviciniamo più il movimento aumenta e rivela la sua struttura: è una danza, è un coro.

Il dolore che attanaglia il cuore di quel ragazzo in grado di scriverne e anche quello che fa acrobazie con lo skate e cerca di soffocarlo con le canne è solo l’inizio; non durerà per sempre, si declinerà anche in più semplice ma necessaria fatica, quella di liberarsi del proprio egoismo e ripiegamento su sé stessi e di aprirsi finalmente all’altro. Anche quella è una strana danza: è solo perdendomi che mi ritroverò.

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