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Don Marco: “a 15 anni volevo suicidarmi, sono sacerdote grazie a mia nonna”

DON MARCO SANTARELLI

don Marco Santarelli

Silvia Lucchetti - pubblicato il 21/05/22

Sognava di diventare pilota di linea, e invece arrivò la chiamata durante la Giornata Mondiale della Gioventù di Toronto a scombinargli i piani. La nostra intervista a don Marco Santarelli nel decimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale

Oggi ho la gioia di condividere con voi l’intervista che ho fatto al mio parrocco, don Marco Santarelli, in occasione del suo decimo anniversario di sacerdozio. Il 29 aprile 2012 diventa «prete per “colpa” della nonna» un ragazzo giovane con gli occhi azzurrissimi che sognava di fare il pilota di linea.

DON MARCO SANTARELLI

Apro e chiudo parentesi. Lo sguardo di don Marco sorride sempre felice quando dice donandoti l’Ostia: “Il corpo di Cristo”. Si avverte che il cielo in cui desiderava volare, lo vede bene dal pezzetto di terra dove il Signore lo ha chiamato a lavorare.

All’età di 14-15 anni, in un momento davvero buio in cui pensò di togliersi la vita, ricevette un annuncio che letteralmente lo salvò dalla morte: “nonostante tu non ti senta amato da nessuno c’è uno che ti ama a pieno: Gesù Cristo”.

È lo stesso annuncio che porta a tutti, in particolare ai “suoi” ragazzi. Al gruppo di giovani che segue nella chiesa di Santa Maria Causa Nostrae Laetitiae al Villaggio Breda di Roma, di cui è parroco dal 1 settembre 2021.

Ciao don Marco, grazie di aver accettato di raccontare la tua storia, ti va di presentarti?

Sono don Marco Santarelli, Marco per gli amici, a novembre compio 40 anni. Sono nativo di Roma, originario di Acilia (vicino Ostia) parrocchia San Pier Damiani. Siamo tre fratelli, dopo Mirko che ha 46 anni ci siamo io e il mio gemello Stefano. Mia mamma si chiama Patrizia, mio papà Paolo, sono zio di Angela, Aurora e Martina. Sacerdote da 10 anni per “colpa” de mi’ nonna.

FAMIGLIA SANTARELLI

Che infanzia hai avuto?

Ho avuto un’infanzia molto tranquilla, a casa non ci è mai mancato niente, mamma lavorava alla Banca d’Italia, papà portava il trenino Roma-Ostia. Un’infanzia serena vissuta in un quartiere popolare, tipo paesino, dove si poteva ancora giocare per strada con gli amici. La mia era una famiglia cristiana solo di sacramenti diciamo. I miei genitori non hanno mai frequentato la chiesa, se non raramente alle feste comandate, ai matrimoni e funerali. Loro non mi hanno trasmesso la fede.

Chi ti ha trasmesso la fede?

Grande importanza ce l’ha avuta un parroco: don Riccardo Viel, che è arrivato da noi come vice parroco e poi è diventato parroco riempendo la chiesa di ragazzi. Avevo 13 anni. Andavo in parrocchia solo per fare casino e basta. Ricordo ancora il giorno che che l’ho conosciuto: stavamo in oratorio a giocare a biliardino e non ce lo siamo filati di pezza. Alla prima parolaccia che ha detto, siamo rimasti tutti zitti: primo impatto fantastico. Fino a quel momento andavo a catechismo e basta, e invece lui ha cominciato a coinvolgerci con i campi estivi, le uscite, le Giornate Mondiali della Gioventù, i pellegrinaggi. Abbiamo fatto gruppo con i ragazzi, mi ha invogliato a riconoscere la parrocchia come luogo di comunione e aggregazione. Dio ha usato questo per farmi entrare nella chiamata. La pastorale di don Riccardo era rivolta a noi ragazzi e questo ci ha fatto sentire che qualcuno ci voleva bene sul serio. Cominciai a fare l’animatore in oratorio, a frequentare molto di più la parrocchia e a 18 anni entrai nel Cammino Neocatecumeale contro il parere dei miei genitori.

DON MARCO SANTARELLI,

Perché i tuoi genitori erano contrari al tuo ingresso nel Cammino Neocatecumenale?

Mia nonna materna Eva stava nel Cammino da tanti anni. Mia madre era assolutamente contraria. Con l’arrivo di don Riccardo tutti i ragazzi entravano in comunità. Per me l’idea di andare rappresentava un buon pretesto per poter uscire la sera, stare con gli amici. Perché altrimenti mi toccava aspettare le 23.00 che finivano e così poterli incontrare. Perciò dal 1996 ho iniziato a chiedere ai miei genitori il permesso di andare a sentire le catechesi e gliel’ho domandato fino al 2000. Dicevano sempre di no con la scusa dello studio, perché si faceva tardi la sera e il giorno dopo c’era scuola. Erano scuse: loro senza conoscerlo giudicavano il cammino un covo di suocere, dove tutti si facevano gli affari degli altri. Il 30 novembre del 2000 compii 18 anni e a dicembre domandai di nuovo a mia mamma di andare. Era l’anno del diploma, perciò dentro di me ci avevo messo già una croce sopra sicuro del suo ennesimo no. Però chiedere non costa mai niente perciò dissi: “posso andare?”, e lei rispose: “sì sì, vai”. Dopo sei mesi nonna mi raccontò perché mamma cambiò idea. Nonna Eva qualche giorno prima aveva sognato mio nonno (morto nel 1989) che diceva a mia madre che doveva lasciarmi libero di andare a sentire le catechesi quell’anno.

Cosa sognavi di fare da grande?

Mi sono diplomato all’Istituto tecnico areonautico, pilotavo gli aerei. Lì ho preso il brevetto di volo e l’anno dopo la fine della scuola ho frequentato un corso regionale che mi regalava ore di volo. Poi con l’attentato alle Torri Gemelle il mondo areonautico si è bloccato e perciò dovevo decidere cosa fare della mia vita. Mio padre mi aveva detto: “qualsiasi decisione prendi prima vai a lavorare un anno”. Lavorai in un bar 11 ore al giorno per cinque giorni a settimana e con i guadagni mi pagai da solo il viaggio per la Gmg di Toronto con Giovanni Paolo II. Avevo deciso di studiare filosofia e teologia per diventare insegnate di religione e avere così i risparmi necessari per prendere il brevetto Sky master per diventare pilota di linea, era molto costoso. Ad agosto 2002 parto per la Gmg con i ragazzi della parrocchia, eravamo un centianio, e lì arrivò la chiamata. Durante la messa finale con il Papa mi colpirono le sue parole quando disse: non abbiate paura di seguire il Signore nella vita totale perché Dio non delude. Io ho sentito come se parlasse a me. Il giorno dopo c’era l’incontro vocazionale conKiko Argüello e anche lì ho sentito veramente che Dio parlava al mio cuore. Ho custodito queste cose dentro di me e nel viaggio di ritorno ne parlai con don Riccardo e don Mario che mi disse: “chissà se non torni come mio collega da questo pellegrinaggio”. E io risposi: “chissà che non me porti sfiga!”. Ovviamente l’idea di diventare sacerdote non era nei miei piani. Ma la chiamata era arrivata. E così nel 2004 entrai nel seminario diocesano Redemptoris Mater di Roma. 8 anni di seminario, di cui sei qui e due in missione in Cile.

Ci racconti la missione in Cile?

Noi come iter formativo abbiamo cinque anni di studio (2 di filosofia e 3 di teologia), poi stoppiamo gli studi e andiamo due anni fuori. Ovunque, a sorteggio, a disposizione del Cammino. Dopo aver pregato la Madonna in tutti i modi di non essere destinato all’Africa venni sorteggiato per il Cile. La sera prima ero andato a pregare a Loreto, a chiedere la grazia alla Madonna… ero pronto a dire di no se fosse uscita l’Africa. Avevo paura delle malattie, non mi spaventa la povertà, la precarietà, ma ero spaventato dalla possibilità di morire in Africa di qualche malattia strana. Sono molto ipocondriaco. Ma Dio che conosce le debolezze del mio cuore ha detto: ti mando comunque lontano, ma non in Africa. Dal 2008 al 2010 sono stato in Cile: i primi tre mesi in una equipe itinerante, tutto il resto in parrocchia. Per me il Cile è stata un’esperienza fantastica, nonostante il terremoto che fu per tutti un evento traumatico (il 27 febbraio del 2010 ci fu un terremoto molto forte di magnitudo 8.8 NdR.).

Che ricordi hai dei giorni dopo il terremoto?

La mattina dopo la scossa ci riunimmo per le lodi e il primo versetto del salmo diceva: “Nel terremoto Signore ricordati della misericordia”. E lì veramente Dio ne ha avuta tanta. La precarietà dei giorni dopo, non avere niente, dover cercare cibo dove non c’era. E accorgersi che Dio provvede. La Parola che si proclamava nell’ufficio delle letture la mattina si compiva durante la giornata. Era quaresima quel periodo quindi leggevamo il libro dell’Esodo. Il sindaco aveva dotato ogni accampamento di una piscina di plastica per la raccolta dell’acqua di fiume che ogni tre giorni i pompieri riempivano e che poi noi facevamo bollire ecc… Un giorno non avevamo più acqua e avevamo 20 bambini nel nostro accampamento. Ai bambini non puoi dire di non bere, di non lavarsi. La mattina avevamo letto quando Mosè colpisce la roccia ed esce l’acqua. Dopo mezz’ora che avevamo finito di dire le lodi arrivano i pompieri a dirci che gli era avanzata un po’ d’acqua. Non toccava a noi, sarebbe stato il nostro turno dopo un giorno e mezzo. Qualche giorno dopo la lettura era quella della manna del deserto e durante la mattinata il sindaco chiama tutti i responsabili dell’accampamento e ci annuncia che dal giorno dopo sarebbe arrivata dal sud del Cile per tutto il paese, 59.000 persone, un camion con delle derrate alimentari giornaliere (come la manna) precotte, ogni giorno per un mese. La Parola si faceva carne. Nel momento umanamente peggiore Dio si è fatto presente, ha operato tanto. Dopo una settimana riuscii a chiamare il mio rettore che mi disse che potevo rientrare a Roma anche il giorno dopo. Gli risposi: “se Dio ha permesso questo, mi ha lasciato vivo, mancano 5 mesi di missione, come faccio in coscienza ad andarmene?”. Mi chiedevo: se me ne vado sto facendo la volontà di Dio? Perciò rimasi. La catechizzazione dopo il terremoto ha permesso che nascesse una comunità di 30 fratelli. Rientrai a Roma conclusa la missione, feci un altro anno in seminario, cominciai la licenza in diritto canonico, e poi mi destinarono alla parrocchia Santi Martiri dell’Uganda alla Montagnola, dove nel novembre 2011 divenni diacono. Il 29 aprile 2012 l’ordinazione sacerdotale e l’arrivo in questa parrocchia il 7 settembre 2012. Dal 1 settembre 2021 sono parroco.

DON MARCO SANTARELLI

I tuoi genitori come presero la vocazione?

Quando entrai in seminario mio padre mi disse: “meglio frocio che prete”. Lui veniva da una famiglia molto povera, la mia carriera andava verso un lavoro di prestigio, il pilota di linea. Fondamentalmente pensava che la vita di un sacerdote fosse quella di un fallito, invece adesso è il mio primo fan. Lo stesso anno del mio ingresso al Redemptoris Mater i miei genitori entrarono in comunità. Fu per me un regalo di conferma da parte di Dio che ha usato la mia vocazione per richiamare alla Chiesa mamma e papà. Mio padre in questo percorso di conversione ha ricevuto tanti sganassoni da Dio. Uno fondamentale è stato la guarigione fisica, un miracolo ricevuto a Medjugorje. L’estate dopo che divenni seminarista mamma lo portò lì con l’inganno dicendo che andavano al mare in Croazia. Salito sul pullman al terzo rosario nelle prime due ore di viaggio capì che c’era qualcosa che non andava: “dimme dove stamo anna’”. Lui era appena stato operato a un testicolo per un problema di salute e aveva ancora la ferita fresca, i punti. Arrivati a Medjugorje durante l’apparizione straordinaria mio papà ebbe come un flash: vide Padre Pio. Sai il momento, la suggestione, tutto può essere… però quello che lo colpì fu che durante tutta l’apparizione, che durò una ventina di minuti, ha avuto affianco una signora che era identica a sua mamma. Alla fine dell’apparizione si è voltato per cercarla con lo sguardo e non c’era più. Sceso giù in albergo per cambiare la benda si accorge nello stupore che la ferità era chiusa, non c’era più nulla: né punti, né sangue sulla garza. Questa è stata per me una conferma che Dio è buono. Mio padre anche se è stato portato lì con l’inganno poi ha ringraziato. Essendo un uomo molto attaccato ai soldi quando sul pullman scoprì la vera destinazione pensò: “ormai ho pagato per questo viaggio, ho speso tanti soldi e quindi ci vado”. E vedo anche qui come Dio da un difetto tira fuori qualcosa di buono.

DON MARCO SANTARELLI,

Sacerdote per “colpa” di tua nonna, ce lo racconti?

Sì, sono sacerdote grazie a mia nonna Eva perché lei ha sempre pregato tantissimo che io lo diventassi. Proprio io, non un altro nipote. Nonna ha aspettato la mia ordinazione per morire. È morta a novembre, sei mesi dopo che ero diventato prete, nel giorno del mio primo anniversario di ordinazione diaconale. Mi ricordo che partecipò alla mia prima messa, vederla lì fu molto emozionante per me. Mi ha sempre accompagnato nella fede e anche adesso sono sicuro che lo fa, lo sento. Lei è di Monti Libretti e qualche anno fa alcuni amici mi chiamarono perché serviva un sacerdote per le catechesi, ero ancora abbastanza libero e accettai. Una sera in macchina ho avuto un segno: ho sentito il profumo di nonna. Lei era un po’ una rompiscatole, voleva un profumo molto particolare alla violetta. Era quello l’odore che sentii all’improvviso: il suo. La mia vocazione sta in mano a lei. Ho festeggiato da poco 10 anni di sacerdozio, ci sono state tante crisi in questi anni, ma una cosa che non ha mai vacillato è il fatto che dovessi essere sacerdote. Il come, il dove, il perché sì, ma lasciare il sacerdozio mai mai mai.

DON MARCO SANTARELLI

Durante l’omelia della celebrazione per il tuo anniversario hai detto che il sacerdote deve essere accompagnato da figure femminili sane…

Sì, l’uomo non è stato creato per stare solo, abbiamo bisogno di essere amati, “coccolati”, sostenuti da una figura femminile, è fondamentale. Perché “maschio e femmina” li creò. La scelta che faccio io del celibato sacerdotale non mi può permettere di infuocarmi su una donna in particolare ma su più figure femminili che accompagnano la mia vita di prete. Per questo per me è fondamentale mia nonna, mia mamma, per questo Dio durante il mio percorso mi ha messo sempre davanti figure femminili sane. Come Rosy e Carla. Due mogli e mamme di famiglia che mi hanno voluto bene e hanno pregato per me, ora sono sicuro che siano tutte e due in Cielo. Con loro avevo un rapporto di fratellanza nel Signore che sento vivo ancora adesso. Rosy mi ha dato la capacità di vedere come si muore santamente, come Dio ascolta la preghiera di chi sta morendo fino alla fine. E poi Carla che è stata catechista da noi ed è morta anche lei di tumore. Mi disse che ero il suo San Giovanni Battista perché gli avevo annunciato Cristo. È la prima donna che ho accompagnato in tutto il percorso dalla malattia alla morte. 5 anni di lotta fra alti e bassi, ma fino all’ultimo ha voluto sempre che le fossi accanto: le portavo la Comunione, e nonostante vomitasse tutto ciò che mangiasse a causa delle metastasi, l’Eucaristia la voleva sempre. Questo mi ha aiutato tantissimo. Con Rosy sono stato l’unico a poter entrare quando lei era in terapia intensiva per starle vicino. Sono grazie che non immagini di poter vivere. nella sofferenza, nella tristezza, nella disperazione, Dio si fa presente.

Perché hai particolarmente a cuore il gruppo giovani della parrocchia?

Il mio esserci con i giovani dipende dal fatto che sento di poter dare loro tanto e di ricevere anche tanto. Sono stato giovane e mi rendo conto quanto sia importante una figura sacerdotale che stia accanto ai ragazzi oggi. Non perché gli adulti non ne abbiamo bisogno, hanno bisogno di un’altra cosa. Ma i giovani soprattutto, perché molti vengono da situazioni familiari complicate e hanno bisogno di una figura salda a cui appoggiarsi e da “imitare”. Lavorare con i giovani è difficilissimo, prendi certe legnate… i primi anni di sacerdozio ho combattuto tanto con il fatto di pensare che fossi io a dover salvare questi ragazzi, mentre è Dio che li salva attraverso di me. Perciò il Signore ha permesso alcuni delusioni perché capissi che non salvo nessuno, posso essere solo strumento. Da quando sono entrato in questa logica le delusioni arrivano, e non le vivo come fallimenti perché so che Dio opera. Magari i ragazzi su cui io punto di meno sono quelli a cui il Signore tocca di più il cuore in un modo in cui tu non avevi pensato, ma Lui sì.

DON MARCO SANTARELLI

Cos’è che ti preme che loro sappiano?

Io a 15 mi volevo suicidare perché avevo molti conflitti con mio fratello gemello e pensavo che mio padre amasse solamente lui. Stefano aveva più bisogno di attenzioni da parte di mio padre, ma io non lo capivo e vivevo questa cosa con sofferenza. Perciò a 15 anni pensai che non valesse la pena vivere, che era meglio ammazzarmi. L’unica cosa che non mi ha portato a farlo è stata la paura di uccidermi. E poi dopo qualche tempo è avvenuto il mio ingresso in comunità. A don Riccardo confidai questo desiderio di morire, quell’anno andai malissimo a scuola, e lì i miei genitori si accorsero che c’era qualcosa che non andava. Poi don Riccardo mi convinse a parlarne con loro, ad aprire il mio cuore. Dopo anni chiesi perdono a mio padre (grazie alla comunità) per averlo giudicato, perché in fondo lo avevo considerato uno stronzo che non mi amava. È stato un momento bello che conservo nel mio cuore. All’annuncio che Dio ti ama, uno può rispondere: “vabbè sticavoli”. Però non è vero, perché nonostante tutto almeno Dio ti ama veramente. Il senso di vivere c’è perché Uno che ti ama sul serio esiste. Gli altri mi amano nella misura in cui lo sanno fare. L’annuncio che faccio ai ragazzi è questo: “nonostante tu non ti senti amato da nessuno c’è uno che ti ama a pieno, in tutto: Gesù Cristo”. Tutti gli altri amano di un amore finito, Lui ama di un amore totale. A me è questo che mi ha salvato da adolescente e che mi porta avanti ancora oggi. Nonostante faccia ancora un sacco di cavolate, perché sono una persona con le sue passioni, i suoi limiti, ho questa certezza: per quante stupidaggini io possa fare, comunque Dio mi accoglie, mi perdona, mi dà la capacità di sentirmi amato.

DON MARCO SANTARELLI
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