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Fratel Beppe Galdo: volevo lasciare il Kenya, il Signore mi ha fermato

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Gelsomino Del Guercio - pubblicato il 19/05/22
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Il medico (e religioso) ha fondato l'ospedale del Cottolengo in una delle zone più povere del mondo, salvando la vita a migliaia di persone. Ma la sua missione stava fallendo

Combattere con pochi mezzi e medicine contro malattie impossibili in Kenya, sorretto dalla passione per gli ultimi che proviene dal Vangelo. Nel libro "Polvere rossa. Viaggio nella “città della gioia” del Kenya" (edizioni San Paolo), fratel Beppe Gaido, medico specializzato in Igiene e Medicina Tropicale, ripercorre l'incredibile "miracolo" realizzato nel cuore del Paese africano.

La città della gioia

La “città della gioia” è Chaaria, uno di quegli angoli d’Africa che si non si trova facilmente sulle mappe: un territorio lontano dal Kenya turistico, segnato dalla povertà e da un’economia di pura sussistenza. Ma Chaaria, oggi, è anche il nome di un piccolo-grande miracolo della Provvidenza, che si è servita di fratel Beppe, medico appartenente alla congregazione del Cottolengo per realizzare un’opera preziosa.

Ospedale da 160 posti

Quando Gaido arrivò a Chaaria, nel 1997, c’era solo un ambulatorio: l’intraprendente religioso lo ha trasformato, anno dopo anno, in un ospedale da 160 letti, rendendolo un punto di riferimento per l’intera zona. Ma quanti ostacoli prima di raggiungere il grande traguardo. Fratel Beppe Galdo ha vissuto molti momenti di sconforto, solitudine, dai quali ne è uscito grazie alla spinta del Signore.

La tentazione di abbandonare il lavoro

Ama ricordare, in tal senso, un episodio. Qualche anno fa era intenzionato quasi ad abbandonare l'impegno in Kenya. «Talvolta mi chiedo che senso ha lavorare e stancarsi fino allo sfinimento - riflette fratel Beppe -. in questo momento di tanta stanchezza e scoramento, la mia poca fede stenta ad aiutarmi. Così ho bussato forte, forte alla Sua porta. Il Signore ha capito che stavo proprio male e mi ha risposto attraverso Esther, una giovane donna minuta e leggera come una piuma».

L'arrivo di Esther

Esther arriva in ospedale verso mezzogiorno su una barella perché ogni volta che tentava di mettersi in piedi collassava. Suda freddo, ha una pressione bassissima. «L’ho fatta portare in ambulatorio e, mentre la preparavano per un’ecografia, ho notato una cicatrice sul suo ventre». La ragazza è giovanissima, ha 19 anni e non ha mai avuto gravidanze, O meglio. «Non ho figli, mi hanno fatto un intervento per gravidanza extrauterina», dice lei. «Allora - spiega il medico - ho provato con delicatezza estrema a percuotere la pancia ed ho avvertito un gorgoglio di fluido in movimento. Ho subito pensato a una nuova gravidanza extrauterina nell’unica tuba che le era rimasta, come purtroppo mi ha confermato il risultato dell’ecografia».

La rimozione del feto

Intanto Esther peggiora, entra in uno stato d’incoscienza, l’emorragia interna dilaga. Subito una trasfusione e poi in sala operatoria con procedura di emergenza. «Mentre mi preparavo per l’intervento, speravo con tutte le mie forze di poter estrarre il feto e riparare la salpinge». Fratel Beppe Galdo riesce a bloccare il flusso di sangue. «Abbiamo rimosso il feto ormai morto da tempo e tentato di suturare quanto rimaneva della salpinge, ma ogni volta che cercavamo di cucire il tessuto necrotizzato, causavamo un nuovo flutto di sangue».

La sterilità "salva vita"

Non ci sono alternative. Il medico del Cottolengo è costretto ad asportare l’unica tuba rimasta, con la consapevolezza che la giovane donna non avrebbe più potuto avere figli. Una sterilità permanente qui è causa di divorzio e le avrebbe anche precluso di risposarsi. Non era possibile chiederle il permesso perché dormiva e forse sarebbe rimasta in stato d’incoscienza ancora per molte ore.

"Ho chiesto aiuto al Signore"

Allora, fratel Beppe Galdo chiede aiuto al Signore: «Mi sto assumendo una grande responsabilità, ma non posso continuare a suturare la salpinge, provocherei una nuova emorragia interna, quasi certamente mortale». Così ho deciso di reciderla e suturare. Il sangue si è definitivamente arrestato. Terminata l’operazione ho guardato con tanta tenerezza Esther, mi sembrava una bambina. Mentre il sangue della sacca fluiva lentamente, dormiva serena. A rovinarmi la felicità di averla salvata, è arrivato il pensiero di quando le avrei dovuto dire che non avrebbe più potuto avere figli!».

La depressione provata la mattina

Mentre torna verso casa, il medico ripensa alla depressione provata la mattina: «Stava ormai alle mie spalle, anche se interiormente ero ancora indolenzito. La storia di Esther mi aveva aiutato a rimettere ogni cosa nella giusta prospettiva e giungere a una conclusione: ha senso lottare, ce l’ha sempre! Per Esther è stato importante che ci fossimo, prima che per lei fosse troppo tardi».

Fratel Beppe Gaido racconta a Radio Vaticana la sua esperienza al Chaaria Hospital Kenya

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