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Mi piace l’amore, ma non le sue esigenze… che fare?

Przybity mężczyzna na kanapie

fizkes | Shutterstock

padre Carlos Padilla - pubblicato il 12/05/22

Ho aspettative che gli altri non soddisfano, mi fa male l'anima e mi allontano dai miei cari, ma più fuggo, più sono infelice

Essere pecora è la mia prima vocazione. Ma non mi piace. A volte mi sento una pecora ribelle. Quando mi allontano perché penso che lontano sarò più felice, o più libero, o più pieno.

Ma poi mi allontano e mi perdo. Dimentico l’ovile, il resto delle pecore. È così facile perdere la comunità come riferimento…

Dimentico l’aspetto fondamentale: non sono solo in questo mondo, non cammino da solo. Cammino unito a molti cuori.

La decisione di allontanarsi

Mujer sale de casa

A volte dimentico chi ha lasciato una traccia nella mia anima. A volte sono le ferite ad allontanarmi.

In altre occasioni è il disprezzo che ho sentito, o visto, o interpretato. Interpretare le cose mi fa tanto male…

Leggo qualcosa e lo capisco al contrario. Vedo qualcosa e credo che ci siano intenzioni nascoste. Ho aspettative che gli altri non soddisfano. L’anima mi fa male dentro.

E mi allontano dal gregge, dai miei fratelli, dai miei figli, dai miei genitori, dai miei amici. Dalle persone care, da quelle che mi hanno formato, da quelle che mi hanno accompagnato o che io ho accompagnato.

Radici che mi rendono grande

Essere pecora è essere gregge. Far parte di un gruppo, di una comunità. Ma tremo quando credo di non appartenere a nessuno, o a niente.

Non appartengo ad alcun luogo. Ho perso il mio accento o le mie radici. E nell’anima mi sorge una domanda: chi sono? Da dove vengo?

Non mi importa tanto l’origine, ma il luogo in cui getto le mie radici. Mi importano le radici che porto fin da bambino. La mia storia piena di volti concreti.

Ho tanto di cui essere grato… Appartengo a una storia comunitaria, a una famiglia. E mi sento in debito per tutto ciò che ho ricevuto.

Ho bisogno che mi ricordino chi sono

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Non voglio allontanarmi dal gruppo che mi costituisce, che mi dà pace e allegria. Perso per le strade, avrò bisogno di un pastore che mi venga incontro.

Qualcuno che si preoccupi di me e che si spaventi se mi allontano. Qualcuno che mi chiami quando fuggo. Che insista quando io desisto. Che mi ricordi chi sono quando io lo dimentico.

Ho bisogno di un pastore dalle spalle larghe che sopporti il mio peso, i miei fastidi, i miei sforzi per abbassarmi dalla sua altezza. Perché non voglio tornare.

Non ho amato bene

Avevo paura ma mi sentivo in pace. Quelli che ho ferito torneranno ad amarmi? Quelli che si sentono offesi accetteranno le mie scuse?

Perché il mio amore non è stato perfetto anche quando a volte sentivo che era meglio di altri, più nobile, più vero.

Ma a volte dimenticavo l’amore e l’accento dei miei fratelli. Li rifiutavo come estranei o costruivo barriere anziché ponti.

Tornando tutto si incastra

Andarsene dal gregge è facile, tornare è più complicato. Allontanarmi dal pastore è facile, sentire che sono sulle sue spalle è un peso.

È sentire che il suo perdono supera le mie aspettative e la sua paura di perdermi. Ha forse bisogno di sentire il mio peso sulle spalle per essere felice?

La pecora fa il pastore. E il pastore senza pecora non è nulla. Non ci avevo pensato. Come il padre senza figli non è padre e il figlio senza un padre non può essere figlio, si indurisce, diventa distante, sempre sulla difensiva.

L’amore si riconosce

La pecora conosce la voce del pastore:

“Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna”.

Il figlio sa chi è suo padre. Riconosce il nome pronunciato dalle sue labbra, come Maria Maddalena ascoltando il suo nome sulle labbra del risorto.

C’è un tono di voce che è quello dell’amore. Un modo di dire le cose che parla di intimità.

Non serve la firma in un regalo, basta mettere una frase che parli dell’intimità che unisce le due persone. Una chiave, una parola, un tono, un gesto.

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Il pastore ha il suo modo di chiamare la pecora, e lei lo riconosce. Come Gesù faceva con i Suoi. Ricordava loro chi era nel tono e nella forma in cui parlava loro, nel modo in cui li amava.

Il paradosso di appartenere a qualcuno

La pecora senza il pastore è sola e indifesa. Ho bisogno di avere radici e di sentire l’amore del pastore che cura i miei passi.

Perché dalle spalle del pastore la vita risulta molto più facile. Lì il lupo non arriva, e i pericoli non minacciano.

Dall’altezza del pastore mi sento protetto e allo stesso tempo indifeso. Non posso fuggire e mi fa male rimanere. Che sarà di me nel gregge?

Mi piace appartenere. Non amo le esigenze dell’appartenenza, come mi piace l’amore e non le esigenze velate che l’amato rappresenta.

Voglio la mia libertà senza appartenenze, ma più fuggo lontano da me stesso, dai miei cari, dal mio sangue, dalla mia terra, da quelli che amo, più sono infelice, più il mio cuore diventa duro e più sono perduto nella vita.

Non ho bisogno di nessuno?

Sento la vocazione di pecora, e allo stesso tempo voglio essere lupo. Il mio orgoglio dice che essendo lupo non avrò bisogno di pastori, né di cure, sarò forte e potrò difendermi da solo.

Nessuno oserà toccarmi. Avrò parole per disarmare chiunque. Ma vivrò sulla difensiva, difendendomi da quanti mi amano. Indosserò una corazza perché nessuno possa ferirmi di nuovo.

La pace di casa

Quando saprò di essere amato da Dio, dal mio pastore, dalle persone concrete che Dio pone nella mia vita, sentirò la pace della casa.

Saprò che il sangue mi unisce alle persone che amo. E allora non vivrò con paura, ma in casa, non vivrò temendo le cattive notizie.

Confiderò e non avrò paura. E la pace sarà l’ornamento della mia anima.

La pace di sapere che ho un gregge, un ovile, un pastore, una casa, una terra in cui le mie radici cercano le acque profonde.

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