Pakistan, a 16 anni scappa dalla conversione forzata
Sono poche e scarne le notizie su Meereb Mohsin, una 16enne cristiana del Pakistan rapita e violentata per essere costretta alla conversione attraverso un matrimonio forzato con un musulmano.
Quel poco che si sa lo ha diffuso Acs, Aiuto alla Chiesa che soffre, insieme a una foto in cui si vede la ragazzina avvolta in un abito dai colori vivaci e affiancata dalla madre e dall'avvocatessa Tabassum Yousaf. Possiamo vederla perché Meereb, chissà come e con quali forze, si è liberata dal suo aguzzino. È scappata, e ora il suo caso è stato presentato all’Alta Corte di Karachi, facendo leva sulla legge che impedisce i matrimoni al di sotto dei 18 anni.

E la distanza geografica dal Pakistan si somma a quella che percepiamo abissale in tema di diritti, pensando che di fronte a un caso (leggi: uno dei troppi casi) di rapimento e violenza sessuale su una minorenne si possa - per ora, ed è già un grande passo - appellarsi alla giustizia solo in merito al tema di un matrimonio non lecito per la minore età della 'sposa'.
Oggi all'orrore si affianca il sollievo, perché Meereb si è liberata. Ma ACS ricorda:
L'aggressore: noto e recidivo
L'uomo che ha rapito e poi violentato Meereb ha un nome e cognome: Noman Abbas. Si sa anche che non è nuovo a questo genere di crimine. Aveva già rapito due ragazze della provincia del Punjab costringendole a subire ripetuti strupri. Le aveva poi vendute dopo essere state obbligate a sposarlo.
Più volte, raccontando casi simili e raccapriccianti di altre ragazze, ci siamo imbattuti nell'evidenza che questo genere di aggressori è protetto dal sistema legale pakistano, troppo spesso ancora connivente con la prassi di conversioni forzate nei confronti delle minoranze, quella cristiana in primis. Oltre alle violenze, e magari al dolore di un lutto, la famiglia della vittima è costretta a subire le angherie neanche troppo nascoste dei presunti tutori della legge che affossano la verità dietro le maschere degli inciampi burocratici o, addirittura, sviando le indagini.
Ma questa volta l'affronto più grande l'ha fatto Meereb: si è liberata. Come sarà riuscita a scappare a un aguzzino così esperto di soprusi su vittime deboli? Deboli poi? Quei colori vivaci indossati da Meereb in tribunale non esibiscono la spavalda audacia di certo femminismo occidentale. Sono l'evidenziatore di una presenza.

Immagino che dia fastidio a molti guardare questa povera ragazzina viva e libera. Doveva essere solo un oggetto inerte da martoriare, invece è sfuggita alle grinfie di un predatore esperto e padrone del suo territorio.
E quei colori del suo abito sono, forse, anche un grido per altre sue sorelle di pena, storie di cui a noi neppure arriva l'eco.
Una donna 'fastidiosa' in tribunale
Non è un nome nuovo per i lettori di Aleteia, quello dell'avvocatessa cristiana Tabassum Yousaf. Quando abbiamo trattato altri casi di conversioni forzate in Pakistan, era sua la voce che difendeva le vittime. Oggi è al fianco di Meereb, si occuperà di seguire il suo caso presso l'Alta Corte di Karachi dove lavora da anni. Nella fossa dei leoni, verrebbe da dire.
O forse è meglio rovesciare l'immagine: l'avvocato Yousaf è una vera spina nel fianco nei tribunali pakistani. 40 anni e madre di due figli, ha deciso di dedicare il suo impegno nella difesa dei cristiani perseguitati, scardinando il sistema dall'interno un pezzo per volta. Nasce da lei la legge attualmente in vigore che vieta i matrimoni al di sotto dei 18 anni.
Eccomi qui, è la risposta del cristiano. Stare al proprio posto, essere il sale della propria terra pare un compito misero alle nostre latitudini, quasi la resa a una comoda invisibilità. Evidentemente non ci è chiaro il senso di questo presidio. Che non manchi nella mia terra il mio granello di sale, è la testimonianza dei perseguitati.
E lì dove è sparso il sale deve sciogliersi, infilarsi nelle pieghe della terra - che può voler dire disfarsi fino a dare la vita, ma anche entrare nel tessuto vivo, presidiare tribunali, governi, scuole.
Se un membro soffre...
Conosciamo bene il passo della lettera ai Corinzi di San Paolo,
Il più delle volte ho ridotto questa frase a uno sforzo di immedesimazione psicologica. Un'empatia indotta, con sincera ma astratta contrizione. Oggi guardo questo tragico episodio di persecuzione che arriva dal Pakistan alla luce di un mia piccola angoscia personale. Ne ero ignara, ma negli stessi giorni in cui io portavo un piccolo peso, Meereb pativa una pena grande. Trovandomi a pregare la sera con voce un po' più nuda del solito, ho provato un'enorme consolazione nel sentire che ero parte di una compagnia di membra ferite. Probabilmente il frutto della preghiera è stato quello ribaltare i termini della questione, per come li ponevo io.

Le altre membra soffrono insieme, è l'opposto di ciò che il mondo chiama 'altruismo'. Cristo ci ha insegnato a guardare le piaghe che feriscono l'umano come parte del travaglio comune del mondo. Unendo i nostri segmenti al vertice che è Lui, siamo corpo ora. "Compio ciò che manca ai patimenti di Cristo" lo diciamo in coro anche quando la pena è personale.
Ciò che disintegra la tentazione della disperazione, è la certezza di essere compagnia già nell'ora del dolore. E non solo nonostante il dolore, oppure oltre il dolore. Meereb non era sola nei momenti di paura e sofferenza più atroci. Così come io, nel mio ben più piccolo patire, non mi sono sentita sola.
C'è uno stupore grande nell'accorgersi che siamo, anche quando il travaglio è personale.
Quella frase di San Paolo mi pare sia la via d'uscita dall'isolamento disperante che può ingabbiarci quando soffriamo. Il cristianesimo spazza via la solitudine da ogni frammento anche buio e nascosto di vita. Ne parlammo anche quando si diceva che i malati del Covid morivano soli negli ospedali. Il calvario di Gesù ci permette di riconoscere che siamo membra che soffrono, anche quando ci verrebbe la tentazione di dire semplicemente: sto soffrendo.