S può uscire più forti da una tragedia vissuta sulla nostra pelle? La risposta è affermativa, e Don Luigi Epicoco ci dice come fare nel suo nuovo libro “In principio erano fratelli” (Tau editrice). «La sofferenza annienta, non è poesia, ma la buona notizia che Cristo ci testimonia è che in tale distruzione è possibile trovare fecondità, che ciò che è stato demolito in realtà sta preparando a qualcosa di nuovo», afferma Don Epicoco.
“Dio non dice cosa accadrà”
Pensiamo alla storia di Noè, un personaggio biblico che noi riconduciamo all’Arca e al drammatico Diluvio Universale. Il diluvio, i quaranta giorni, la prova, la speranza di qualcosa di nuovo. Noè non sa cosa ne sarà di lui, non ha davanti a sé una spiegazione, Dio non gli dice cosa accadrà, non ci sono chiarimenti. E lo stesso succede a noi nel momento in cui soffriamo, vorremmo sapere che ne sarà di noi, quando terminerà il dolore, a cosa porterà.
Il corvo
Noè manda un corvo a cercare la testimonianza dell’esistenza di un nuovo inizio, poi libera una colomba e attende finché questa non torna indietro con un ramoscello d’ulivo. Il tempo della prova, allora, toglie tante cose della nostra vita che ritenevamo importanti, ma ci rimanda a una fecondità che prima non pensavamo di avere. Quando si soffre, evidenzia Don Epicoco, l’unica cosa da chiedersi è per cosa valga la pena vivere, soprattutto per chi.
Gesù nel deserto
Il sacerdote poi cita la “Quaresima” di Gesù. I Vangeli ci dicono che Gesù, alla fine dei quaranta giorni nel deserto, ebbe semplicemente fame: non ci raccontano di un gesto eroico di sopravvivenza, ci dicono che a uscirne fortificato è colui che ha fatto della propria debolezza una risorsa.
Combattere contro la propria debolezza
Dopo aver sofferto, ragiona Don Epicoco, si perde fiducia nei vani ragionamenti, siamo riportati al nucleo essenziale di noi stessi che la debolezza ci ha restituito. Se si combatte contro questa fragilità allora non la si può scoprire. Gesù fa il contrario, ci insegna che per salvarci dobbiamo incontrarla, accoglierla. Lui ci ha salvati con la Croce, non con l’uso della forza. Vorremmo sempre un Dio forte in battaglia, il Signore degli eserciti, ma Lui salva stando inchiodato sulla Croce.
La vera conversione
La vera conversione, afferma il sacerdote molto amato dai giovani, sta nell’accettare il nostro nucleo più fragile e debole. Il male insinua che per andare avanti devi evitare la debolezza, la proposta cristiana invece è invita ad abbracciarla con amore, che non è attaccamento alla sofferenza. Nessuno ama la Croce in quanto tale, ma è accogliere il suo potere redentivo. Tutta la potenza di Dio è nascosta nella debolezza della Croce.
La disgrazia diventa grazia
Passiamo la maggior parte del tempo a cercare di sopravvivere, osserva ancora Don Epicoco, ma finché non si trova un valido motivo per cui morire, non si ha un valido motivo per vivere: è questo che cambia la vita di ciascuno di noi. È così che la disgrazia può diventare una grazia. E quella che è una sconfitta relazionale, educativa, può trasformarsi in un’opportunità. Se amiamo siamo disposti ad accogliere quanto ci sta succedendo e anche una tragedia può diventare una storia di salvezza.
Ci fidiamo nell’attesa di un nuovo inizio
Se siamo disposti ad accogliere questo, a fare spazio – impreparati come Noè con l’arca – noi che non sappiamo che ne sarà di noi, ma ci fidiamo rimanendo dentro la realtà, sperimenteremo sempre che può esserci un nuovo inizio.
Ce lo conferma il capitolo ottavo della Genesi:
Tirando fuori il nuovo
Per iniziare, quindi, conclude Don Epicoco, non bisogna estirpare una parte ma cercare l’intero, accettare che, da questo momento in poi, Dio stabilisce una nuova storia non distruggendo semplicemente la parte sbagliata ma tirando fuori il nuovo.
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