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Il rosario che aiutò Eliana a stare di fronte al cadavere del marito

ELIANA CARMINA

Giovanni Di Caro | Youtube

Annalisa Teggi - pubblicato il 15/03/22

È rimasta vedova dopo il crollo della palazzina a Ravanusa. La fede continua a sostenerla accanto alle figlie che chiedono a qualche giorno dalla festa del papà: "È vicino, allora perché non lo vedo? Io voglio vederlo con questi occhi".

Abbiamo la distruzione negli occhi, però poi ce ne dimentichiamo in fretta. Da sempre le esplosioni si guadagnano il centro della scena. Poi cosa accade, il giorno dopo il boato, e il mese dopo? La telecamera si sposta altrove verso altri collassi.

Tanti eventi urlano solo nel momento acuto del distastro. Cioé: il dovere di cronaca troppo spesso non s’inoltra nel sentiero ardito della fatica che viene dopo una tragedia.

Il paese di Ravanusa nell’agrigentino è stato al centro delle notizie a metà dello scorso dicembre. Ora, dopo la bufera della variante Omicron e la catastrofe in corso in Ucraina, è un ricordo già sbiadito. Eppure è stato colpo al cuore per tutta Italia. Quattro palazzine sventrate per una fuga di gas e 9 vittime, tra loro Samuele che era ancora nel pancione della mamma. Siamo stati incollati a guardare il lavoro instancabile dei Vigili del Fuoco. E forse ci sarà scappato di detto sembra una scena di guerra.

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Giuseppe non doveva essere lì

Eliana Boncori ha perso il marito Giuseppe Carmina e i suoceri nell’esplosione di Ravanusa, ora è vedova con due figlie di sette e quattro anni, Miriam e Sara. In mezzo al clamore di tante altre notizie, stamattina sono state le sue parole a catturare la mia attenzione, per quel ricomincio nel titolo sul Corriere che la riguardava. Inconsapevolmente la testa è andata al verso di T.S. Eliot: in luoghi abbandonati noi costruiremo con mattoni nuovi.

Chi resta a costruire dove ci sono macerie? E che specie nuova di mattoni serve?

Oggi (come ieri e come sempre) sullo sfondo della Grande Storia che urla morti e distruzione c’è anche la storia piccola eppure enorme di chi edifica nell’epicentrodi una voragine. E si scopre che questi mattoni nuovi sono presenze vive, trasfigurate dal dolore.

Stiamo bene, ma è dura perché ogni giorno siamo a contatto con la mancanza. È tutto un ricostruire, come quando succede un terremoto. La vita va avanti.

Da Corriere

Paragonato ai venti di guerra, quello di Eliana è un sussurro. Ma vale la pena ascoltarlo. A tre mesi dalla tragedia che ha colpito la sua famiglia, fa il punto sul lato meno esposto del dolore, la fatica di andare avanti e fare i conti con una mancanza che pesa. Nella sera dell’esplosione suo marito Giuseppe non doveva essere lì, a casa dei suoceri che è stato l’innesco dell’esplosione. Lo ha portato a morire una di quelle piccole incombenze quotidiane in cui siamo impelagati tutti, non ci crediamo mai fino in fondo che su ogni gesto c’è l’ombra del nostro destino ultimo.

E poi il suo cadavere è stato trovato per ultimo, aggiungendo al peso di un’angoscia prolungata anche lo strazio del lutto. Insomma, molte sarebbero le ragioni di rabbia, o quantomento sconcerto, per la moglie Eliana. Da subito, nel giorno dei funerali, lei parlò invece di speranza.

La casa è vuota, le bambine piangono

Era il 17 dicembre – quasi Natale – ed Eliana salì sul piccolo palco davanti alla distesa di bare e parlò con vece serena, le scappò anche qualche delicato sorriso. Era un volto credibile Eliana Boncorsi nel giorno dei funerali di suo marito Giuseppe, dei suoceri e delle altre vittime. Disse:

La casa è vuota. Le nostre bambine chiedono in continuazione, piangono. Il letto è diventato grande. Quei suoceri che per me erano altri due genitori. Tutto questo ci manca. E vi posso dire che la croce è pesante, molto pesante. Però con Cristo tutto diventa più leggero. E non maledico Dio, continuo a benedirlo e ringraziarlo.

Ci scuote sempre sentirlo, eppure non è un messaggio nuovo. È vecchissimo, e resta inaudito qualunque sia la voce umana che lo pronuncia. Il cristiano fa questa esperienza di benedizione dentro il dolore, ce lo hanno detto tanti testimoni di cui Eliana è parte. Dal punto di vista logico e razionale è una cosa assurda ringraziare Dio dentro una circostanza di perdita così atroce, improvvisa, che lascia disarmati.

Solo il criterio dell’esperienza tiene in piedi quella che astrattamente sarebbe follia. La benedizione accade, non è un discorso. E nella recente intervista al Corriere, infatti, Eliana ritorna ai momenti più concitati della tragedia e descrive l’irrompere di una luce di speranza quando tutto era ancora nel buio più fitto.

Il grido e il rosario

Quando mi hanno comunicato che Giuseppe era morto sono stata in silenzio, ma poi ho iniziato a gridare, disperata. Lì con me c’era Suor Maria Goretti, fondatrice dell’ordine di cui fa parte anche mia cognata, che ci ha invitati a recitare il rosario: così è sceso un attimo di pace. Poi, paradossalmente, mi ha dato forza vedere il corpo di Giuseppe. 

Da Corriere

È scritto testualmente nella Bibbia che Dio risponde al grido del suo popolo. Non è una bella frase retorica o una metafora. La risposta di Dio si traduce in un affiancamento. E tutto comincia da un “Lì con me c’era“: accanto a Eliana c’era una suora che ha convertito il grido in rosario. Dio non ci lascia sprovvisti di segni o presenze che c’invitano al passo dell’affidamento quando l’istinto sarebbe quello di urlare e maledire tutto. Il grido c’è, non si toglie. Lo si tira fuori. L’invito accolto è stato quello di trasformarlo in una litania di Ave Maria.

E ce lo ripetiamo spesso che la preghiera non è una serie di parole, ma è già la compagnia di Dio presente. Una volta di più, la voce di un testimone credibile – una mamma come noi, una vedova – ci dice che il rosario è stato lo sperone di roccia che le ha permesso di stare di fronte alla morte (andare a riconoscere il cadavere di suo marito) senza esserne schiacciata.

PRAY

Non c’è retorica nelle parole di questa donna, che non tace la fatica di fare i conti con la mancanza di una persona amata. E come abbracciare il dolore delle figlie con la stessa fiducia?

La festa per un papà in cielo

Tra poco sarà il 19 marzo, a scuola i bambini stanno dedicandosi ai famosi lavoretti, quei semplici biglietti o doni da regalare al papà in occasione della sua festa. E Giuseppe era proprio il nome del marito di Eliana e padre di due bimbe ancora piccole e ora orfane.

I bambini parlano senza eufemismi, conoscono la via breve per arrivare al centro delle questioni. Proprio l’occasione del lavoretto scolastico ha fatto scaturire una domanda che mamma Eliana Bonicori riferisce così:

Ricostruire non è semplice, ma lui da lassù ci sta dando una grande mano e per questo non mi sento sola, lui è vicino a me, anche se non posso stringermi al suo petto e abbracciarlo. In tante situazioni che vedo risolversi, sento che Peppe ha fatto la sua parte. Sara mi dice: “È vicino, allora perché non lo vedo? Io voglio vederlo con questi occhi”. Tutto il problema sta in questi occhi che, ancora, non vedono».

Ibid

Non c’è esigenza più radicale nella nostra anima, vedere coi nostri occhi che chi è morto vive. Una meditazione rilassante per dimenticare il dolore non ci basta. Una teoria filosofica sull’inellutabilità del destino non ci convice fino in fondo. Come San Tommaso noi abbiamo bisogno di vedere e toccare la carne del Risorto.

Nessuno si augura di vivere delle sciagure, ma, quando accandono, occorre riconoscere anche la misteriosa dote di chiarezza che portano. Cos’è la speranza di cui Eliana Bonicori parlava già durante i funerali se non questa voce affranta ma sicura di ciò che desidera: io voglio vederlo con questi occhi, voglio fare esperienza della resurrezione. Veniamo a patti con le urgenze della nostra anima solo nei tiepidi momenti di una quotidianità vissuta obliterando gesti. Ma – come diceva Emili Dickinson – quando la realtà c’interroga sul serio, allora ci alziamo in piedi in tutta la nostra statura.

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