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D’Avenia, non scuole occupate ma studenti che si occupano di scuola

D'AVENIA, STUDENTI

peacepix | Shutterstock

Annalisa Teggi - pubblicato il 21/02/22

L'obiettivo non è che la scuola torni alla 'normalità', ma che la scuola abbia come priorità la relazione. Agli studenti in autogestione D'Avenia ricorda: "Continuate a «occuparvi» della scuola, scegliendo come alleati adulti capaci di mettersi in gioco".

Scuole occupate

Occupazione, autogestione sono parole che rievocano, per me che ho fatto il liceo negli anni ’90, il ricordo di quella settimana (o settimane) di canonico far nulla. Era una tappa abituale dell’anno scolastico, non riconosciuta ufficialmente, ma tacitamente ammessa. E qualunque scusa andava bene, fosse anche la minaccia di estinzione dei panda.

Forse, anche in quegli anni tiepidi, la poca voglia di stare sui banchi, il bisogno di una tregua verso febbraio era sintomo di un malessere radicato nel dovere andare a scuola. Non si assaggiava un gusto tale da dare un senso alla fatica quotidiana.

Le occupazioni e autogestioni scolastiche che stanno moltiplicandosi in questi giorni negli istituti italiani sono parte di una storia diversa. Studenti che dal 2020 hanno vissuto a singhiozzo la presenza in aula, ora occupano la scuola.

Ne ha parlato Alessandro D’Avenia nel suo contributo settimanale sul Corriere e, come un cecchino, ha colto a segno:

I ragazzi non occupano la scuola ma si occupano della scuola. […] continuate a «occuparvi» della scuola, scegliendo come alleati adulti capaci di mettersi in gioco (un dirigente ha dormito a scuola sulla sua poltrona) senza paternalismo e chiacchiere. Assediate dirigenti e docenti, pretendendo periodica verifica delle azioni condivise.

Da Corriere

Occuparsi della scuola

Il salto da scuola occupata a occuparsi della scuola equivale a uscire dal letargo. Il participio passato è una forma verbale passiva, inerte come l’aria chiusa delle aule scolastiche. Adesso le norme sanitarie impongono che si tenga una finestra aperta, ma sarebbe ora che un vento poderoso spazzasse via lo status quo stantio dell’istruzione, quel

sistema di istruzione «moderno» che, avendo scambiato l’apprendimento con la sua quantificazione, la conoscenza con il potere, la scoperta e la cura di sé con la carriera, li ha resi [gli studenti – NdR] «consumatori di programmi» ed «erogatori di prestazioni».

Ibid.

La scuola è sempre stata troppo occupata, nel senso di ingombrata come uno sgabuzzino pieno di procedure e formalità. Insegnanti occupati a compilare e pianificare, studenti occupati a eseguire. Participi passivi entrambi. Se queste autogestioni sono una mossa per occuparsi, per rifondare la presenza scolastica sulla base della relazione, allora ben vengano. L’aspetto positivo che emerge è, infatti, la partecipazione attiva dei docenti nelle scuole autogestite.

Il preside del liceo Parini di Milano ha ricevuto dagli studenti una proposta:

«Mi piace ad esempio l’idea che i docenti dedichino almeno un’ora a settimana a ricevere i ragazzi. Senza filtri. Una sorta di confessionale, uno spazio libero, senza la mediazione della famiglia».

Da Corriere
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Confessionale, una parola squisitamente cristiana (e che il Grande Fratello ha guastato orribilmente). Il confessionale non è il luogo dello sfogo pruriginoso, è – invece – abitato dalla premura di custodire l’incontro con un’anima. E molti insegnanti già lo praticano questo confessionale. Ricordo il mio nervoso da giovane, quando mia madre si attardava oltre l’orario scolastico con le sue studentesse, e io fremevo perché l’aspettavo in auto in attesa di andare a casa a pranzare.

Riforma della scuola

Da che tutti abbiamo memoria si è sempre parlato di riforma della scuola. D’Avenia fa bene ad associare alla riforma scolastica l’immagine del travaglio. Non è una questione di banchi, distribuzione dell’orario, modalità di assunzione del personale. Tutto s’innesta su una visione che, avendo a che fare con esseri viventi, deve riformarsi continuamente. Cioè deve tenere vivo e vegeto uno scopo essenziale:

Ri-forma (il ri– indica qui intensità dell’azione da compiere) vuol dire travaglio per partorire la forma più adeguata a ciò che la scuola potrebbe essere: spazio di relazione tra le generazioni da abitare con maestri capaci di orientare «i nuovi» alla scoperta di sé e del mondo attraverso l’esempio, la cultura e il lavoro.

Ibid.

Queste specie di riforme-travagli esistono già nell’esperienza di docenti che, facendo salti acrobatici con le tabelle di marcia imposte dall’alto, riescono a ritagliarsi il tempo della relazione in forme cucite sull’esperienza personale di ciascuno. Ripeto, per mia madre autogestione era trascorrere le ore libere negli spogliatoi della palestra scolastica. Ascoltava ragazzi che togliendosi una tuta si toglievano anche tanti pesi dal cuore.

eleve classe

La pandemia e quasi tre cicli scolastici attraversati da lockdown e DAD non si superano tornando alla normalità. La a-normalità della pandemia ha reso chiaro che il nostro precedente stato era un corpo atrofizzato e avvelenato tra tre mali che D’Avenia chiama con questi nomi:

se esistesse un tampone per la psiche risulteremmo drammaticamente «positivi»: individualismo, razionalità strumentale, impotenza politica.

Spazio …

Un antidoto a queste tossine già in circolo forse è scritto in una evidenza essenziale: la scuola è un luogo fisico in cui i nostri figli trascorrono del tempo. Guardare le variabili di spazio e tempo come risorsa può essere un punto di partenza per liberarsi dell’atrofia educativa che incombe. C’è perfetta consonanza tra D’Avenia che scrive,

l’edilizia scolastica non può essere ancora concepita come a inizio ‘900

e un altro scrittore, Eraldo Affinati, che poco tempo fa aveva osservato perché il tipo di spazio è importante quando è in gioco l’educazione:

Dovremmo piuttosto rinnovare i programmi, aggiornare gli insegnanti e modificare lo spazio didattico superando l’aula chiusa e la semplice lezione frontale. […] La scuola non dovrebbe essere uno spazio specialistico, bensì l’intensificazione della vita.

Da Repubblica

Le forme attuali di autogestione scolastica vanno nella direzione di questo bisogno di vicinanza tra studenti e insegnanti. L’autorevolezza del maestro può essere ribadita anche evitando una distanza puramente formale. Ed è una studentessa a chiedere a D’Avenia come custodire il frutto degli incontri fatti:

“Volevo chiederle un consiglio su come riuscire a far sì che queste voci non si spengano con la fine delle occupazioni”. 

… e tempo

Una risposta solo apparentemente non attinente mi pare venga dalla difesa del tema scritto. C’era, infatti, l’ipotesi che lo scritto di italiano fosse tolto dall’esame di maturità. Molti sono scesi in campo per chiedere che lo scritto rimasse. I docenti che hanno a cuore che queste voci non si spengano, sanno bene che togliere il tema sarebbe stato come togliere ai ragazzi la speranza di prendersi il tempo di conoscersi. Lo ha scritto bene un’insegnante che abbiamo già ospitato su Aleteia For Her, Laura Crucianelli. A proposito del bene che porta in dote una componimento scritto osserva:

Oggi tutto si svolge in modo veloce e la comunicazione si adegua: viviamo di frasi accostate una all’altra, in una paratassi che livella i pensieri mettendoli tutti sullo stesso piano. Che bello, l’uguaglianza! Beh, insomma, mica tanto. Non riconoscere le gerarchie e le dipendenze del pensiero ci fa perdere in una giungla di informazioni che arrivano in modo martellante e continuo. La parola scritta, invece, richiede innanzitutto il tempo. Per fermarsi, per riflettere, per chiedersi se un concetto è certo e dunque richiede l’indicativo oppure se possa essere espresso come ipotesi, al congiuntivo. Scrivere significa, prima di tutto, conoscersi, interrogare se stessi, cercare le parole che diano forma a idee che, prima di sostanziarsi in una sintassi, appaiono a noi stessi come nebulose.

Da Marchemedia

C’è da ringraziare chi, dentro alla scuola, accetta il guanto di una sfida titanica: starci. In mezzo al polverone di mille disastri c’è chi non si disamora. E fissa l’unica nebbia in cui vale la pena infilarsi, quella di cuori che chiedono di essere accompagnati a conoscere una realtà custode di una chiamata particolare per ciascuno.

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