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L’“uomo incinto”: uno sticker per neutralizzare l’umanità 

emoji pregnant man

© emojipedia

Tugdual Derville Tugdual Derville - pubblicato il 10/02/22

Ogni giovedì Tugdual Derville decritta importanti temi sociali alla luce di Laudato si’. Questa settimana ragiona sull’obiettivo che si sono proposti i promotori dell’emoji dell’“uomo incinto”: far entrare nella testa della gente l’idea di un’umanità senza punti di riferimento.

Ah, se fossi una donna… sarei stomacata all’idea che una multinazionale planetaria quasi monopolistica (Apple) osi imporci – a mo’ di complemento simmetrico all’emoji di una donna incinta – quello di un uomo che alloca un bambino nel suo ventre. Credere all’uomo incinto è assurdo quanto credere alla terra piatta. Il grembo materno è il luogo femminile per eccellenza. La gravidanza, esperienza intima – sacra, direbbero alcuni, perché riguarda la vita –, non appartiene che alle donne. 

Un uomo può sempre divertirsi a mmaginarsi “incinto”, per misurare fino a che punto il maschile sia incongruo all’espressione. Nessun maschio ha mai saputo per esperienza che cosa sia portare nel proprio grembo un altro essere umano. Insistiamo: che sia o meno un “privilegio esorbitante” (così Françoise Héritier), il fatto di generare non appartiene che alle donne. 

Quel che tutti noi – uomini e donne – sappiamo è che siamo stati lungamente albergati nell’utero di una madre. Un tale dato vitale – fonte di stupore – dovrebbe prevenirci contro ogni manipolazione di questa realtà. 

“Incinta”: un’esperienza indicibile 

Avendo accompagnato molte donne incinte in difficoltà, so (per sentito dire) fino a che punto l’esperienza della gravidanza sia forte, quasi indicibile, al contempo gioiosa e dolorosa, spesso le due cose – simultaneamente oppure alternatamente. Realtà così femminile, per essenza, che ci si dovrebbe ben guardare dal travestirla. Ci si scandalizza del “razzismo” degli uomini che fanno l’impossibile per dare alla propria pelle un altro colore… e non si dovrebbe a fortiori proibire la propagazione dell’immagine di donne che pretendono di sperimentare la gravidanza “da uomini”? 

Alcune donne, in ragione di sofferenze che permangono misteriose, tentano di adottare l’aspetto maschile assumendo ormoni, eventualmente associati a una chirurgia, il tutto mantenendo in funzione il proprio utero. Quando queste si ritrovano nella situazione di pretendere di “partorire da padri”, però, il giochetto salta. Secondo l’adagio, infatti, «la madre è colei che partorisce»: l’apparenza maschile non cambierà la realtà di una femminilità che, giustamente, il parto attesta. 

Sbandierare una “maternità paterna” significa dar credito a un insensato sotterfugio: quando il ventre di un uomo comincia ad assomigliare a quello di una donna incinta, di solito la ragione è che… beve troppa birra. Il femminismo buono non consiste nell’imbrogliare le coordinate corporali che distinguono l’uomo dalla donna, ma nel fare in modo che queste differenze non siano fonte di ingiusta discriminazione. Invece 

non è sano un atteggiamento che pretenda di «cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa». 

Francesco, Laudato si’ 155 

Che si abbia bisogno della tecnica per accreditarlo non fa che confermare che di artificio si tratta, una negazione dell’ecologia umana. Le donne ne escono perdenti, perché la loro specificità – la loro natura – viene negata, diciamo anche disprezzata. 

Occultare il senso del corpo 

Attenzione però! Benché la cultura woke intimi loro di tacere, anche gli uomini sono vittima dell’inganno: l’emoji “uomo incinto” non ci mostra un uomo che scimmiotta una donna (incinta), ma una donna (incinta) che scimmiotta un uomo, pretendendo di partorire sotto mentite spoglie. Per quanto la sua realtà biologica venga accuratamente dissimulata, è d’obbligo il pudore sulla nudità. 

In fatto di cose umane, “maschile” qualifica il corpo che non è fatto per partorire. Pubblicità menzognera imposta dalla decostruzione antropologica, l’emoji “uomo incinto” (come ogni menzogna) è insomma un’ingiustizia e una violenza fatta all’umanità nel suo complesso, perché attenta a uno dei più inviolabili dei suoi muri portanti, ossia l’alterità sessuale che sta all’origine di ogni generazione. Un tale progetto nasce da un piano ben preciso: neutralizzare l’umanità. Neutralizzarla nel senso che la parola assume in un conflitto armato: renderla impotente e inoperante, disfarla. Non ignoriamo gli ingranaggi ideologici dell’irruzione di quest’immagine transumanista sui nostri schermi: per i suoi promotori, niente ha senso poiché nulla è dato e tutto è costruito, dunque tutto può essere decostruito. Ai loro occhi non esiste, in fatto di costruzione dell’umanità, alcun riferimento incontestabile. 

Gli adepti di questa agitprop provocatrice hanno un’intenzione: «Colpiamo! Scuotiamo! E tanto peggio se le cose andranno sempre peggio…». Stiamo in guardia! Puntano ai dibattiti attorno alla loro icona virale – contano dunque anche sui loro oppositori – per diffonderla meglio, farla entrare nelle teste, renderla pensabile, possibile, poi accettabile e alla fine incontestabile. 

Questo editoriale rischia dunque – salva l’intenzione di generare nei suoi lettori una risoluzione di resistenza lucida – di fare il loro gioco: abituarci a occultare il senso del corpo, banalizzando in un “genere” quel che è proprio dell’alterità. 

L’umile e reciproca incompletezza dell’uomo e della donna è un tesoro prezioso, che va meditato più a fondo… e difeso. 

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]

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