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Un papà si racconta. Edoardo: “I figli ti aprono gli occhi su chi sei”

EDOARDO DANTONIA

Edoardo Dantonia

Annalisa Teggi - pubblicato il 02/02/22

Abbiamo chiesto a un giovane papà, Edoardo Dantonia, di raccontarci l'attesa, la nascita, la sfida che è crescere dei figli oggi. "Non viviamo in un tempo in cui tutti i datori di lavoro hanno un occhio di riguardo se mostri loro che vuoi fare il padre".

Chesterton è un grande procacciatore di buoni amici. La mia timidezza mi ha sempre ingannato, facendomi credere di essere un’anima solitaria. La spintarella di Chesterton, cioè il condividere la passione per quest’autore, mi ha accompagnata a essere parte di una grande compagnia allargata. Ne fa parte anche Edoardo Dantonia che ho conosciuto in occasione di una mostra dedicata all’autore sopracitato nell’edizione del Meeting di Rimini del 2013. Lui e altri ragazzi erano giovani studenti e appassionati della letteratura che entusiasmava anche me (Lewis, Tolkien, per citare i top). Oggi sono giovani adulti alle prese ciascuno con aspetti diversi della vita.

Continuano a dare forma alla loro passione per la lettura e scrittura in un blog che si chiama Schegge riunite – The Sparkling. Sono l’esempio lampante che il giovane letterato non è il triste topo di biblioteca che vive perennemente in un passato remoto. Sono sparkling, frizzanti … cioè accesi di senso di realtà.

Abbiamo ospitato alcuni loro contributi su Aleteia. Qualche anno fa Edoardo si è cimentato anche con una prova adulta per uno scrittore, ha scritto un romanzo. Ho pensato a lui perché di recente è diventato papà.

Le mamme raccontano e si raccontano tanto. La voce dei papà è più sintetica, i loro silenzi sono proverbiali. Ho chiesto a Edoardo di fare l’incursore, cioè di rispondere alle domande che di solito si pongono alle mamme. L’attesa, la nascita, la gestione familiare, il lavoro. Che ritratto esce della normale e affaccendata famiglia se a dipingerlo è il papà? Andiamo a scoprirlo.

Caro Edoardo, partiamo facendo una fotografia della tua famiglia?

Oggi vivo a Biella e nella mia famiglia ci sono 3 bambini, 2 sono miei figli biologici. Quando ho conosciuto Valentina, lei aveva già un figlio di 5 anni, Daniele. Il papà di Daniele c’è, è presente, però il bimbo vive con noi e quindi anche verso di lui il mio sguardo e la mia presenza sono, si può dire, paterni. Dopo il nostro matrimonio sono arrivati due bimbi, Gabriele e Alessandro. Oggi Daniele ha 9 anni, Gabriele ha appena compiuto 2 anni e Alessandro ha 8 mesi. Insomma, sono passato da 0 a 100 in un batter d’occhio.

Viene da citare Vasco, “voglio una vita spericolata”…

Sì, abbastanza. E se è vero che i figli sono sempre un imprevisto che ti piomba letteralmente sulla testa, Alessandro è stato proprio una vera sorpresa. Gabriele, il nostro primo figlio, era tanto desiderato e quindi il suo arrivo non ci ha presi alla sprovvista, anzi c’è stato anche un momento in cui siamo rimasti sospesi nel dubbio, perché la gravidanza non arrivava. Poi, semplicemente, lasciando che le cose facessero il loro corso, è nato.

Alessandro ci ha davvero spiazzati, abbiamo saputo della nuova gravidanza quando Gabriele era ancora molto piccolo.

Quando nacque il mio primo figlio, ci misi del tempo a riuscire a pronunciare la parola ‘mamma’ riferita a me stessa. Non rifiutavo la maternità, ne sentivo la vertigine. A te cosa è successo quando la parola ‘padre’ da vocabolo è diventata esperienza?

Padre è una parola che resta sospesa nell’aria prima che diventi esperienza. È un po’ come quelle domande: “Esistono gli alieni?”. Ti limiti a fare delle ipotesi e rispondi col dubbio: boh, forse esistono. Poi una mattina ti svegli con un disco volante sopra la testa e a quel punto sei costretto a dire: sì, esistono. Diventare papà è così. Ancora adesso quando qualcuno chiede a Gabriele: “Vuoi andare dal papà?”, mi viene da voltarmi indietro per vedere dov’è questo papà. È talmente grande come esperienza che il cervello non la assimila del tutto.

Penso che la parola ‘alieno’ sia azzeccatissima, la maternità e la paternità non sono vestiti che sentiamo comodi addosso. Ogni giorno siamo parte di una storia che trabocca rispetto ai nostri contenitori mentali. Però immagino che ci siano dei momenti in cui, stando coi tuoi figli, ti senti papà.

Capita nelle circostanze in cui i miei figli hanno proprio bisogno di me. Sono momenti di epifania, in cui prendi coscienza che è lui, il figlio, a esigere la tua presenza. Penso a quando devo addormentare Gabriele. Mi devo mettere con lui nel letto e lui ha bisogno di starmi addosso per abbandonarsi al sonno. A quel punto devo aspettare che il sonno sia profondo, altrimenti anche a occhi chiusi si riattacca a me. Lì sento che sono il suo papà.

DAD, SLEEP, CHILD

L’addormentamento è uno dei momenti più intimi. E mentre raccontavi, vedevo sullo sfondo anche la figura di San Giuseppe che nei momenti cruciali della sua storia si addormenta. Cioè, è un padre che col suo sonno ci invita ad abbandonarci al Padre. Hai descritto un momento di contatto con tuo figlio. Facciamo un passo indietro. Volevo chiederti come sono i 9 mesi di attesa per un papà. La mamma ha un rapporto fisico col bambino già dalla pancia, tu come li hai vissuti?

Ci si sente un po’ fuori, quasi tagliati fuori. L’uomo semina, letteralmente, poi è la donna che porta. Non è un modo di dire. Certi uomini se ne approfittano, addirittura, e la usano come scusa per disinteressarsi completamente della gravidanza. Per me è stato un limite. Ho fatto, spero, tutto quello che potevo per essere di supporto, ma la gravidanza resta una cosa esclusiva di madre e figlio. Tengo molto a preservare questa verità evidente, l’esclusività che essere madre implica nel rapporto con il bambino. Ho sentito la mia distanza e l’ho accettata. È così. Ho partecipato da fuori e questo teneva aperta dentro la testa la domanda: “Come faccio a esserci veramente?”.

Mi pare interessante rimanere su questo tema della distanza, di un uomo che c’è e accompagna da fuori. Come hai vissuto il momento del travaglio e della nascita dei tuoi figli?

Per la nascita di Gabriele sono stato in sala parto dall’inizio alla fine. È stata lunga perché le acque si sono rotte, ma le contrazioni non partivano. Dopo un lungo pomeriggio di incertezza, alle 11 di sera le contrazioni sono cominciate. A quel punto mi sono ricordato di aver letto da qualche parte che poteva essere utile invitare la donna a muovere il bacino, quasi facendola ballare, per aiutare la discesa del bambino. Ho messo la musica e ad ogni contrazione la aiutavo a fare cerchi col bacino. Col senno di poi sono stati momenti molto teneri, sul momento era tutto confuso.

Il travaglio spetta alla mamma, certo. C’è una vastissima letteratura sulla forza che dimostra la donna e anche sugli inciampi di cui sono capaci i papà in quei momenti (frasi sbagliate, comportamenti inadeguati). Nella mia esperienza personale posso dire che avere avuto mio marito è stato essenziale. Guardarlo mi aiutava. Per cui ti chiederei di andare avanti nel racconto del travaglio vissuto dalla parte meno illuminata, quella del padre.

Adesso faccio un’affermazione e pioverà su di me un fulmine dal cielo: è stato pesante. Non sto parlando di dolore e fatica, ma proprio della tentazione di cedere. A ogni contrazione aiutavo Valentina a muoversi, e poi, alla lunga nel corso della notte, tra una contrazione e l’altra mi veniva da assopirmi. Lo sforzo è stato quello di continuare a fare quel piccolo gesto di accompagnamento.

Ricordo un’altra cosa nitidamente. Per buona parte del travaglio il mio sguardo è stato concentrato sulla “parte bassa” del corpo femminile. L’attesa era quella di vedere il bambino nascere. A un certo punto il mio sguardo è stato catturato dal viso di Valentina, perché sono rimasto scioccato dalla forza con cui lei spingeva. Le ho guardato il collo contratto e ho pensato che non c’era paragone con tutti gli sforzi di cui mi vantavo in palestra sollevando i pesi. Ero completamente impressionato dalla forza che dimostrava.

Poi è arrivato il momento, credo fisiologico, in cui la mamma dice: “Non ce la faccio più a spingere”. L’ostetrica mi ha chiesto di guardare la testa che stava spuntando, così avrei potuto rassicurare e dare l’ultimo incoraggiamento a mia moglie. Allora il tuffo al cuore si è fatto sentire, l’ho visto e mi sono detto: è tutto vero.

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Quello è il primo incontro vero tra padre e figlio…

Sì, e c’è stato un attimo di panico per me. Una volta che la testa è uscita, il bambino nasce in fretta. L’ho visto scivolare fuori, come una saponetta. Era un corpo quasi inerte, un po’ cianotico. Non avevo mai vissuto un’esperienza del genere e ho guardato le ostetriche, come fai sull’aereo: se c’è una turbolenza guardi le hostess per capire se il volo sta comunque andando bene. Le ostetriche procedevano nel fare le loro mansioni e la loro tranquillità è diventata la mia. Ho guardato mio figlio mentre lo mettevano addosso alla mamma, lui era tranquillo a occhi chiusi. Ha solo fatto un minuscolo versetto, una specie di eh. Per me è stato come se mi dicesse: eccomi.

L’impatto di assistere alla nascita di un figlio è come quello di un incidente, ma in senso positivo. Sul momento non ricordi nulla, tutto è troppo, c’è anche paura. Solo più avanti cominci a raccogliere i pezzi sparsi di memoria.

Grazie di questo tuffo nel ritaglio di meraviglia che è la nascita. Ora entro a gamba tesa nella realtà, i papà fanno errori coi figli?

L’errore più grande che si può fare è avere la presunzione di non dover commettere errori. Lo dico perché lo vivo sulla mia pelle. Una cosa con cui faccio sempre i conti è il colpevolizzarmi, e quindi l’autocondannarmi. Capita che la realtà prenda questa piega: mi comporto in un certo modo e poi traggo da solo le conclusioni, pessime, su di me. Ci sono notti in cui m’innervosisco perché i risvegli dei figli sono continui e la mia sveglia suona prestissimo per andare al lavoro. In seguito giudico il mio nervosismo e sono tentato di concludere che se basta così poco a farmi sbottare, allora non tengo molto ai miei figli. Non voglio loro bene nel modo giusto, mi viene da pensare. Questo è un meccanismo perverso.

Perverso eppure realissimo, posso confermare.

È un po’ come la profezia che si autoavvera. Se continui a dire a qualcuno che è stupido, alla fine si comporterà da tale. E per me vale la stessa cosa. C’è il rischio, lo sento, che ripetendomi che ‘non sono abbastanza presente’ o ‘ non voglio loro bene nel modo giusto’ questi giudizi incidano davvero sul mio essere. Per ora vedo che sto reagendo a questa tentazione, ma mi rendo conto che non ne sono salvo per sempre. Il rischio di cadere nel circolo vizioso dell’autocondannarsi c’è sempre.

Penso che tu sia riuscito a dare voce a un aspetto taciuto eppure quotidianamente presente nell’esperienza dei genitori.Rispetto a questo, uno degli elementi che incidono nei rapporti familiari è il lavoro. Come stai vivendo il tuo essere padre e lavoratore?

È una banalità dirlo, per me vengono prima i figli. Banale sì, ma non poi così scontato. Secondo l’idea prevalente il padre è quello che lavora e si occupa della cose pragmatiche. Certo non è un’idea campata per aria. Però si dà quasi per assodato che, di necessità, stia meno coi figli. È assolutamente naturale che la madre sia vicina ai figli ed è altrettanto evidente che il padre ha una vocazione diversa da quella materna. Però io avrei il desiderio di essere più presente nella vita dei miei figli. Diversamente mi sembrerebbe di perdere delle occasioni, di mancare. Posto il fatto che il rapporto con il padre è essenziale, io vorrei essere presente in modo totale.

DAD, CHILD

E in questo momento storico come siamo messi? Un padre se lo deve sudare il tempo coi figli?

In questo tempo storico chiunque si deve sudare il tempo con i figli. Nel mio caso la situazione attuale non è rosea. Sono nei servizi fiduciari, sono una guardia di vigilanza e il nostro contratto di lavoro è scaduto da sette anni. Ad oggi, che sappia, non si sono fatti passi in avanti. Il salario è basso. E so bene che c’è chi ha una situazione ancora più difficile della mia. Questo riguarda sia uomini che donne. I miei congedi parentali sono pagati al 30% e se dovessi mettermi in congedo per 3 mesi mi darebbero del pazzo. C’è anche l’aspetto morale da non sottovalutare. Non viviamo in un tempo in cui tutti i datori di lavoro hanno un occhio di riguardo se mostri loro che vuoi fare il padre.

Mamme e papà si devono sudare il tempo coi figli e temo che nei prossimi anni sarà addirittura peggio. I salari non aumentano, il prezzo della vita aumenta. Gli effetti della crisi della pandemia dobbiamo ancora scoprirli. In questo orizzonte l’effetto a cascata è sentito in modo più pesante da noi lavoratori. Me ne sto rendendo conto, banalmente, girando per la mia città. Per Biella fino a poco tempo fa girava una certa quantità di automobili, adesso si è triplicata. È come girare per Torino. Questo mi fa pensare che se prima bastava una persona per portare il pane a casa, adesso ne servono tre.

Quindi non vale la pena scommettere sulla famiglia?

Vale la pena, assolutamente. Senza la mia famiglia forse starei economicamente meglio, però, per citare un santo delle mie parti, sarebbe un ‘vivacchiare’. Tornare a casa e, qualunque cosa succeda, trovare un bimbo che ti corre incontro e ti chiama ‘papà’… ecco, non lo baratterei con niente.

Questi bambini che ti corrono incontro portano novità. Il loro sguardo insegna al genitore un modo nuovo di guardarsi. Si imparano cose insospettabili di sé grazie ai figli. Cosa hai imparato di te da loro?

Loro sono la via d’uscita a quello che dicevo prima sull’autocondannarsi. I figli ti aprono gli occhi su chi sei. Non penso che ti migliorino. Sono abbastanza convinto che se uno nasce tondo non muore quadrato. Noi siamo noi, non accade che a un certo punto il nostro essere si ribalta completamente. Può esserci un margine di crescita e di cambiamento, sì. Rispetto a questo, i figli ti aprono gli occhi. E io grazie a loro ho imparato uno sguardo di indulgenza su di me. Ho sempre avuto addosso la paura di non fare abbastanza e di non essere abbastanza e mi accorgo che con loro, e per loro, faccio cose che non avrei mai pensato di fare.

Non parlo di chissà cosa, ad esempio: sta male il bambino nel cuore della notte. Ti ritrovi senza un’ombra di esitazione a vestirti, vestirlo e andare in ospedale. E lo fai anche se non è qualcosa di grave, che quindi giustificherebbe l’urgenza di una mossa pronta. Mi sono ritrovato a muovermi senza l’ombra di un dubbio, a una sollecitudine che non esita.

E poi la pazienza di addormentarlo anche quando sono stanco morto e la sveglia suona alle 3 e mezza di mattina. Sono i figli ad accordarti il perdono che non ti daresti da solo. Però bisogna accorgersene. Vedendo tante situazioni vicino a me, mi rendo conto che alcuni cedono al meccanismo a cui ho accennato prima. Schiavi del pensiero di non voler abbastanza bene ai figli, ci sono padri che finiscono davvero per far mancare loro il bene. E mi rattrista che il diventare genitori non comporti per tutti quest’apertura di stupore che s’impara dai figli.

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