Verga il verista (cioè interessato al Vero)
Il 27 gennaio 1922 moriva a Catania, dove era nato, Giovanni Verga. La sua voce, dunque, si spegneva cent'anni fa esatti. Ricordo bene quando in prima liceo leggemmo Rosso Malpelo, quanto lo detestai. Per anni un'immagine mi ha ossessionato ed è quella che ho messo in copertina. La carcassa di un animale su un pendio roccioso.
In quella novella di Vita dei campi Rosso, a un certo punto, porta il piccolo Ranocchio (un bimbo gracile che lavora in miniera con lui) a contemplare la carcassa dell'asino grigio in fondo a un dirupo, preda della voracità dei lupi. Amavo la dolcezza di Manzoni e la voce cruda di Verga mi repelleva. Cosa mi dava fastidio? Che non ci fosse un briciolo di pietà espressa. Che l'umano potesse essere una carcassa dolente, ferita e abbandonata.
Ma davvero non c'era pietà? Davvero il verismo di Verga è cruda esposizione dei fatti, assenza di immedesimazione? A distanza di anni, ora mi trovo a leggere Malpelo come un capolavoro di vera compassione. E proprio la carcassa dell'asino grigio ne è l'emblema. Malpelo sa che il suo povero piccolo amico sarà destinato a morire presto. Nessuno gli ha insegnato l'amore e la tenerezza, è stato cresciuto a schiaffi e insulti, chiamato diavolo per i suoi capelli rossi. Eppure è capace di una mossa di viscerale compassione per il piccolo Ranocchio. Non è forse straordinario questo?
Chino su di lui. È forse nudo realismo questo? Verga è l'opposto di una voce distaccata. Ha molto da dirci in questo tempo di passioni esibite e litanie di sentimentalismi.
Lo sguardo cristiano di Verga
In occasione del centenario della morte di Verga è stato pubblicato un articolo su Avvenire dal titolo Rileggere Giovanni Verga a cento anni dalla morte: verista o cristiano?. L'ho letto con grande entusiasmo perché batte dove il dente duole. La riflessione s'innesta su una recente pubblicazione di Giuseppe Savoca e intitolata Verga cristiano. Dal privato al vero (Olschki editore).
Su questo tema il dente duole, forte. C'è sempre la tentazione di fare la radiografia spirituale a ogni autore. E la tentazione ancora peggiore è quella per cui, fatta la radiografia e scoperte le pecche degli autori, si concluda che non abbiano titolo per essere un esempio cristiano. Non conosco l'intimo rapporto di Verga con Dio. Dirò di più, volutamente ignoro se sia stato uomo di fede oppure no. E lo faccio sulla scorta dell'intuizione davvero cristiana che Chesterton espresse molto bene:
Se la buona notizia cristiana potesse essere proferita solo da chi lo fa in modo consapevole e ne è effettivamente degno, beh ... immagino solo silenzio. Ben più degno di stupore è il fatto che uomini di ogni genere e specie riescano a mostrare segni di una originale somiglianza con lo sguardo di Dio al di là delle certezze esibite, al di là dei comportamenti inadeguati o addirittura pessimi.
Il semplice fatto umano farà pensare sempre
Verismo, dunque. Questa l'etichetta con cui si incasella Verga nelle storie letterarie. Gli -ismi sono sempre repellenti, ma la radice vero ci porta al succo del discorso. Si riduce il tutto a una tecnica di narrazione oggettiva e in cui la presenza dell'autore non si percepisce. Verga spiega bene il senso tutt'altro che distaccato della scelta artistica che fece nella sua lettera a Salvatore Farina. Fu anteposta a L'amante di Gramigna ed è ritenuto il suo manifesto.
L'autore si sottrae, ma per lasciare pieno spazio al mistero eloquente dei fatti. È tutt'altro che distaccato, visto che il fatto umano tracima in un pensare. L'urto che sentii nel primo impatto con Rosso Malpelo era proprio la forza di una voce che mi costringeva a riflettere, senza usare armi retoriche dolciastre.
Abbiamo molto da imparare da questo nascondimento di Verga. Mette in un angolo la sua soggettività. Oggi trabocchiamo di opinioni intellettuali scritte in Prima Persona su ogni genere di fatto. Eppure mai come oggi ci viene tolta da sotto gli occhi la realtà. La parola più vera (o verista) di Verga è proprio misterioso processo.
Un dito puntato contro il progresso
Il naufragio della Provvidenza, la sintesi dei Malavoglia che viene spesso contrapposta alla luce provvidenziale dei Promessi Sposi. C'è da unire, più che da separare. Verga e Manzoni giocano nella stessa squadra, fanno scendere in campo i panchinari.
Renzo e Lucia starebbero benissimo nel ciclo dei vinti (non degli sconfitti!) di Verga. Sono le presenze piccole che patiscono il peso quotidiano della vita. Sono l'umano che non fa notizia, ma compie la battaglia eterna tra bene e male nello spazio nascosto in cui opera. Verga e Manzoni hanno osato uno sguardo che ad oggi resta sovversivo, quello che dà voce agli Alfie Evans di tutti i tempi. I vinti sono quelli che ci perdiamo per strada (non si perdono loro, perdiamo noi l'occasione di notarli) nella corsa incessante imposta dall'idolo di un progresso disumano.
Così la prefazione ai Malavoglia resta - per chiunque scriva, o anche solo guardi la realtà di tutti i giorni - un'indicazione dell'unico lavoro necessario, guardare altrove dal ciò che luccica e sale sui troni.
Cristiana si può davvero dire questa voce, somigliante - all'origine - allo sguardo di chi stanò uno Zaccheo nascosto in mezzo alla folla e sentì sfiorarsi il mantello.