Il rapporto indipendente sugli abusi commessi nell’arcidiocesi di München-Freising tra il 1945 e il 2019 chiama in causa anche Benedetto XVI, per la sua gestione di quattro casi di abusi sessuali commessi da preti quando egli era ordinario del luogo, ossia tra il 1977 e il 1982.
Redatto dallo studio legale monacense Westpfahl-Spiker-Wastl in due anni di lavoro, il rapporto consta di 1.893 pagine, nelle quali si valuta e si giudica la responsabilità della direzione dell’arcidiocesi bavarese – in particolare degli arcivescovi che si sono avvicendati – in un arco di tempo di settantacinque anni. Gli esperti dello studio legale incaricato dalla curia hanno lavorato principalmente a partire da testimonianze e dagli archivi ufficiali dell’arcivescovado.
Tali valutazioni, precisano gli autori del rapporto,
220 pagine del rapporto vertono esclusivamente sul cardinal Ratzinger. Tra queste, 73 pagine consistono in una valutazione “normale” di quattro dei cinque casi di abuso sui quali gli esperti avevano dei “sospetti”, alle quali si aggiungono 66 pagine dedicate a un caso particolare, tale da invocare un’inchiesta più approfondita. Infine, sono consultabili in allegato le 82 pagine della deposizione consegnata agli investigatori da Benedetto XVI con lettera datata 14 dicembre 2021.
Se Benedetto XVI non è stato arcivescovo di Monaco che per cinque anni soltanto, l’inchiesta tenta anche di sapere se la sua azione alla testa della Congregazione per la Dottrina della Fede (1982-2005) e della Chiesa Cattolica tutta (2005-2013), nonché poi successivamente, da Papa Emerito, abbia potuto influenzare la gestione di altri casi. Benedetto XVI si è rifiutato di scendere in dettagli su questi punti, ritenendo che tali richieste si collochino «oltre il mandato d’indagine ricevuto dallo studio».
Nel loro rapporto, gli esperti seguono un medesimo metodo per analizzare le possibili mancanze o colpe intervenute con ciascuno dei responsabili dell’arcidiocesi in tutto l’arco temporale considerato. I casi di preti abusatori sono resi anonimi e indicati tramite numeri progressivi. Inoltre il rapporto non offre, se non raramente, date precise, e questo rende la cronologia degli abusi, delle condanne (civili e canoniche), delle incardinazioni o dei trasferimenti dei preti menzionati nel rapporto difficile da elaborare.
Gli esperti procedono anzitutto a una presentazione generale del caso, poi in un “parere preliminare” espongono i loro sospetti in merito al responsabile del caso. In un secondo momento, si espone la risposta di quest’ultimo prima di una “valutazione finale” degli indagatori, in cui questi ultimi spiegano se mantengono o ritirano i loro sospetti.
Per quanto riguarda Benedetto XVI, sono stati studiati cinque casi. Uno solo, il “caso 22”, giunge alla conclusione che Benedetto XVI sia «totalmente discolpato». In altri casi, specialmente il “caso 41”, il pontefice non è discolpato che su alcuni punti, mentre gli esperti non cambiano la loro valutazione iniziale – quella di “presunzione d’implicazione” del cardinal Ratzinger.
Primo caso
Gli esperti ritengono che l’allora cardinal Ratzinger avrebbe accettato con cognizione di causa il trasferimento nella sua arcidiocesi di un prete – il “caso 37” – condannato diversi anni prima per tentato abuso e insulti a carattere sessuale davanti a bambini. Arrivato a Monaco alla fine degli anni ’70, quest’ultimo è stato destinato a un incarico comportante prossimità a minorenni. Di nuovo condannato, a due riprese, per abusi su minori, una delle pene è stata carceraria (con condizionale). Il “caso 37” ha poi finalmente seguito un trattamento specialistico, poi gli è stato proibito l’insegnamento nel pubblico da parte dell’amministrazione bavarese.
Dopo consultazione della risposta di Benedetto XVI – il quale ha negato rigorosamente ogni conoscenza precisa dei fatti e contesta ogni responsabilità –, gli avvocati bavaresi considerano che la sua testimonianza non permette «di rimettere sostanzialmente in discussione» la loro valutazione preliminare. Mettendo in dubbio la testimonianza del Pontefice Emerito, essi continuano a “supporre” che egli «avesse conoscenza» del comportamento del “caso 37”, considerando che era stato informato dal suo vicario della prima condanna del prete.
Gli esperti giudicano inoltre che Benedetto XVI minimizzi la percezione all’epoca di quel che descrive come «delitti di minore gravità» commessi dal “caso 37”, e nella fattispecie dell’esibizionismo. Lamentano l’assenza di misure preventive e di reazione rivolte a vantaggio delle vittime.
Secondo caso
Lo studio legale considera che Benedetto XVI abbia accettato con cognizione di causa l’incarnazione nella sua diocesi di un prete – il “caso 40” – condannato in passato a una pena detentiva per abusi sessuali ripetuti su dei bambini, dopo essere partito per una diocesi all’estero. A Monaco gli avrebbero affidato una cappellania ma proibito di erogare lezioni di religione. Una nomina seguita da «reiterate modifiche». Più tardi, dopo un episodio di esibizionismo davanti a dei bambini, gli è stata proibita ogni celebrazione parrocchiale.
Benedetto XVI ha affermato di non ricordarsi di questo prete, e ha dichiarato di essere «certo» di non averlo incontrato né di aver trattato il suo caso. Una dichiarazione che non ha convinto gli esperti, i quali mantengono la loro valutazione provvisoria affermando che il Pontefice Emerito avrebbe prodotto «dichiarazioni contraddittorie». Fondandosi sugli archivi amministrativi, essi giudicano in particolare «molto poco probabile» che egli non abbia incontrato il “caso 40”.
Tornando a rimettere in causa la sua testimonianza, essi ritengono ad esempio che la dispensa dall’insegnamento accordata al “caso 40” fosse legata ai suoi precedenti. Analizzano il comportamento dell’allora arcivescovo come testimonianza di «mancanza di sensibilità e di volontà di chiarezza».
3Terzo caso
Gli esperti considerano inappropriata la scelta di affidare a un prete – il “caso 42” –, colpevole di aver scattato foto «perlomeno suggestive a giovani sotto i 14 anni» l’incarico pastorale di una casa di riposo e di un ospedale. Condannato dalla giustizia civile dopo l’insediamento, il prete non avrebbe subito misure disciplinari o canoniche per il prosieguo.
Se papa Benedetto XVI nega di essere stato a conoscenza dei fatti, gli esperti ritengono che egli fosse stato allertato circa il comportamento del prete mediante un articolo di giornale che gli era stato comunicato: esso è stato ritrovato nei dossier dell’ex arcivescovo, e accusava il prete di palpeggiamenti ai danni di una ragazzina dodicenne. Essi ritengono inoltre che il cardinale avrebbe dovuto già allora avviare una procedura canonica, cosa che Benedetto XVI pure contesta.
Bisogna osservare che il pontefice tedesco afferma in preambolo di avere un «ricordo inalterabile» di quel periodo del suo passato, e che ogni elemento di cui non abbia memoria «non ha avuto luogo». Il “caso 42” costituisce ciononostante, secondo gli esperti, un interstizio decisivo che essi sfrutterebbero per tornare a mettere in discussione la difesa di Benedetto XVI nel rapporto.
4Quarto caso
Il “caso 41”, o “caso X”, è trattato a parte, nel rapporto, diventando oggetto di un’inchiesta molto più approfondita. L’esperto Ulrich Wastl, che si è occupato esclusivamente di questo dossier, spiega la scelta metodologica in primo luogo col fatto che le risorse a disposizione lo permettevano, a differenza degli altri casi in cui esse risultavano spesso molto «lacunose». Gli avvocati sottolineano inoltre la natura «istruttiva ed esemplare» di questo caso, già largamente studiato e mediatizzato in occasione della comparsa di un precedente rapporto, nel 2010. L’affaire si stende su quattro decenni: dall’epoca in cui Joseph Ratzinger era arcivescovo fino all’attuale arcivescovo, il cardinale Reinhard Marx.
Per quanto riguarda il cardinal Ratzinger, il caso implica il trasferimento di un prete proveniente da una diocesi in cui gli avevano revocato un incarico a contatto con i giovani, considerando che egli costituisse «un pericolo», per via di palpazioni su tre ragazzini di 12 anni. In seguito a una psicoterapia, il prete è stato accolto a München quando era arcivescovo il cardinal Ratzinger, e lì egli ha insistito per anni nei suoi crimini. Il rapporto sottolinea che allora gli è stato affidato un posto comportante una reale prossimità a dei bambini. Benedetto XVI nega di essere stato a conoscenza dei precedenti del prete.
Fondandosi su un insieme di invidi e di documenti d’archivio più importanti che negli altri casi, l’avvocato bavarese scarta diversi sospetti riguardanti Benedetto XVI, ma considera che il Tedesco abbia nondimeno sviluppato, una volta di più, una «strategia protettiva» consistente nell’affermare che «quasi tutto ciò di cui non si ricorda non ha avuto luogo». E ciò perfino laddove gli elementi raccolti dall’inchiesta sembrano dire il contrario, ad esempio nel caso della riunione durante la quale è stata decisa l’incardinazione del “caso X” nell’arcidiocesi, e alla quale Benedetto XVI ha fermamente negato [salvo correggersi in data 24 gennaio 2022, N.d.R.] di aver partecipato.
L’esperto ritiene la testimonianza del papa emerito “poco credibile”, fondandosi sul verbale della riunione, in cui il suo nome figura. Il documento elenca infatti nell’ordine del giorno una discussione in cui il cardinale rese conto della «conversazione che papa Giovanni Paolo II ebbe il 28 dicembre 1979 con qualche vescovo tedesco riguardo al caso del professor Küng», il teologo rivale del giovane cardinale tedesco – rivale che proprio in quel periodo cadeva in disgrazia agli occhi di Roma.
«L’ignoranza sistematicamente rivendicata» di Benedetto XVI
Nel complesso dei casi, il rapporto lamenta «l’ignoranza sistematicamente rivendicata» da Benedetto XVI nella sua testimonianza, e il suo rifiuto di rispondere alle domande riguardanti il suo ruolo dopo il 1982. Gli esperti rimettono anche radicalmente in discussione il suo argomento dello “spirito dei tempi” o delle “conoscenze dell’epoca” – soprattutto dal punto di vista delle procedure canoniche.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]