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D’Avenia, educare e crescere è questione di desiderio

ALESSANDRO D'AVENIA;

peacepix | Shutterstock

Paola Belletti - pubblicato il 17/01/22

La forza del desiderio come motore di libertà, creatività e dedizione. Ma come si distinguono i desideri dal vero desiderio?

Fare l’appello

Gli inizi mantengono intatta la loro carica di novità, bellezza possibile e carico di aspettative; ogni volta che si torna alle occupazioni solite, sospese per un periodo di riposo, è facile provare un misto di ansia e di golosità per ciò che di spaventoso o bello potrà accadere. In questo equilibrio instabile di promessa e timore anche i ragazzi sono tornati a scuola dopo le vacanze di Natale.

Mai come quest’anno, per ora, il ritorno è parso incerto, frammentato, minacciato da quarantene talmente estese da assomigliare a un poco caro e non abbastanza vecchio lockdown. Eppure tornare bisogna, grazie a Dio.

E così anche il professor D’Avenia ha accolto i suoi studenti al rientro a scuola nel più classico dei modi: con l’appello.

E’ strano gennaio, così iniziale e conclusivo insieme: a scuola si sa che a lui spettano gli ultimi colpi di coda del primo quadrimestre; nel teatro del tempo solare gli tocca invece l’onere e l’onore di dare inizio all’anno.

Niente oroscopi, bastano le parole

E così ai suoi ragazzi ha chiesto di rispondere non solo con un “presente!” ma con una parola-guida per il 2022 appena abbozzato.

E non ci sono molte altre cose potenti come quel sottile fiato articolato in suono che ci esce dalla bocca per dire, per nominare, per profetizzare ciò che con i sensi interiori già vediamo.

D’Avenia racconta di avere dedicato un’ora intera a questo appello: ai ragazzi e alle loro parole che sono diventate un inedito elenco di nomi di battaglia, di epiteti capaci di spiegarli e di tradurre la loro tensione in intenzione e promessa.

La parola ci precede: l’abbiamo dentro e ci guida, ma solo se la nominiamo con precisione, perché faccia accadere ciò che segnala, altrimenti la vita possibile, in essa custodita, muore. Così il primo appello dell’anno è diventato un elenco di «sinonimi» dei loro nomi: Ricerca, Speciale, Coltivare, Scoperte, Aggiornamenti, Focalizzazioni, Armonia, Rinascita, Esplorazione, Emergere, Ritrovamento, Fruttuoso, Mongolfiera, Potenziamento, Diverso, Esperienza, Cambiamento… Parole che tradiscono quel «desiderio» di cui parlavo la settimana scorsa e che oggi vorrei approfondire.

Un’unica radice

Come fanno i veri filologi di queste parole così diverse D’Avenia ha riconsciuto la radice comune, trasformatasi per apofonia umana in molti significati diversi: in ognuna di esse è rilevabile a occhio nudo una stessa spinta, una forza comune e originale che le assimila. E’ il desiderio.

E’ quel principio di animazione che ci abita e ci rende capaci di moltiplicare la vita in modo inedito e gioioso

Non so se era sua intenzione alludere ai grandi santi del Carmelo ma è a quella fonte che fa pensare subito quando descrive il desiderio presente nei ragazzi e nell’insegnante e anche in noi che leggiamo; solo questa comune anche se spesso taciuta esperienza ci permette di capire di cosa stia parlando.

Il desiderio autentico è una fonte celata in noi, da cui scaturiscono ogni pensiero, parola e azione nuovi e creativi, ma è spesso sepolto sotto i detriti di falsi desideri indotti dalla cultura dominante e dalle ferite che abbiamo, ma è solo l’acqua di questa fonte che ci porta alla terra promessa a ciascuno di noi.

Corriere della Sera

Bonus fondamenta, altro che facciate

Ormai è tempo di mettere mano agli escavatori. Non ci sarà nessuna rinascita da governare e scomporre in fasi per decine di progetti se non avviene una autentica ri-generazione personale.

E dove ci si trova generati se non in fondo all’essere esattamente dove è impossibile negare che siamo alla presenza di Altro? In quello specchio d’acqua ci si riflette senza perdersi come Narciso perché ciò che si scorge lì è il volto di un altro che, finalmente, ci svela il nostro.

Proprio ora che siamo tutti protocollo e nuove disposizioni, esattamente adesso, al giro di boa del secondo anno di pandemia, sappiamo noi e sanno anche i ragazzi che ciò che serve è questa forza un po’ selvatica e autentica che sobbolle sotto, in fondo, alla radice di noi.

Credo, e mi permetta questo azzardo l’autore a cui mi appoggio, che proprio in questa libertà e originalità radicale risieda l’unica possibilità di diventare uomini e donne veri, virtuosi, a servizio del bene di tutti, disciplinati persino.

Lo dice molto meglio lui quando, in pochi chiari passi ci conduce dall’amore al dovere. Lo dicono un elenco sempre in compilazione di santi, pensatori, mistici, insospettabili profeti: sei libero quando ami ciò che ti è dato da vivere.

La mappa del desiderio

Il desiderio autentico lo si riconosce infatti perché è libero, originale, audace, fecondo, non mortifica mai la vita ed è capace di abbracciare fatica e impegno come materia del suo realizzarsi: chi vi attinge trasforma l’aridità di un campo in giardino. Il desiderio autentico ci porta a prendere posizione in favore di qualcosa per cui siamo disposti a dare (la) vita, un pezzetto di mondo per cui ci scopriamo insostituibili: è unicità realizzata, fatta carne. Ma come scoprire questa fonte per potervi attingervi costantemente?

Per risalire alla fonte non si dovrà partire per lunghi viaggi dunque ma andare a ritroso e a fondo. Il campo in cui scavare è già di nostra proprietà; è quello dei giorni soliti, della ferialità che si finge noiosa, del mistero vestito di quotidiano per passare inosservato.

Come rabdomanti i ragazzi lo sentono che là sotto c’è acqua, ma non sanno organizzarsi per scavare il pozzo da cui poi, con pazienza e metodo, potranno attingere l’acqua che servirà loro ogni giorno. Come si fa?

Da dove si comincia?


Risponde alla domanda un personaggio che ho amato nel bel libro di W. Somerset Maugham, «Il velo dipinto», dicendo a Kitty, l’infelice protagonista: «Ricordati che compiere il proprio dovere non è nulla, e che non si acquista più merito, a compierlo, di quanto se ne acquisti a lavarsi le mani. La sola cosa che conti è l’amore del dovere; quando amore e dovere saranno tutt’uno in te, allora sarai in stato di grazia e godrai di una felicità che supera ogni comprensione».

Corriere della Sera

Tutto uguale, tutto diverso

Ah dunque questo nuovo anno sarà come gli altri, fatto di scadenze da rispettare e compiti da svolgere; sarà uguale, che delusione. A che servono le parole nuove, il santo a cui affidarmi, gli obiettivi audaci da perseguire se visti da fuori saremo identici a prima e con noi i nostri giorni? Ma infatti ciò che occorre cambiare è proprio da dove si guarda; non da fuori, ma da dentro.



Lo stato di grazia è la coincidenza di amore e dovere: quando si agisce per amore e per amare. Quando io studio, spiego, scrivo, anche se mi costa fatica, sono in stato di grazia, e quella fatica si trasforma in luce, come fa la dinamo di una bicicletta, perché su tutto prevale il sentimento di una vita piena di senso.

Ibidem

Il senso della fatica

E quando non ci sentiamo in stato di grazia? Basterà sforzarsi, basterà scavare ancora un po’ più a fondo?

Non necessariamente, altrimenti si rischia di subire quella nuova sevizia contemporanea che ci vuole a tutti i costi positivi, preda del ricatto della motivazione sempre a 5000 giri, della posa forzata a voler trovare opportunità dove ci sono inciampi.

Negli inciampi bisogna anche saperci finire, dagli ostacoli bisogna lasciarsi dire qualcosa prima di passarci sopra e proseguire oltre.

Che ci si fa dunque con i momenti dis-graziati? E se fossero invece solo un po’ tristi? Oggi è il cosiddetto Blue Monday, il lunedì più triste dell’anno, per la sua distanza dal Natale, la sua pericoloso vicinanza ai saldi, la sua distanza da altre vacanze e il corredo di aumento ponderale che di solito porta con sé.

Ecco, allora, non c’è giorno e stato d’animo migliore di questo per mettersi di buzzo buono ad essere lieti, liberi, appassionati di quello che ci tocca in sorte, cambiandolo dall’interno, se occorre.

Succede anche a D’Avenia, autore de L’Appello e sperimentatore di un appello extended version coi suoi studenti; ecco come ci racconta che ne esce (al solito, entrando ancora più a fondo).

Non mancano i momenti in cui sembra invece prevalere un dovere disgraziato (senza grazia), quelli in cui mi pare di fare le cose solo perché vanno fatte: la spesa, le faccende di casa, le riunioni… ma poi cerco il modo di portare l’acqua del desiderio anche in questi «campi», così da trasformarli in stati di grazia (faccio la spesa immaginando che cosa creerò e per chi, pulisco mentre ascolto un audiolibro, partecipo a una riunione provando a cercare soluzioni che alleggeriscano le fatiche altrui).

Ibidem

Per poter rinascere, evolversi, essere diversi, originali, armoniosi e tutti i significati che i ragazzi dell’appello hanno evocato, bisogna che i desideri cedano il passo al desiderio.

Siamo pronti a tutto se ci liberiamo dai desideri che crediamo nostri — li abbiamo interiorizzati a tal punto da crederli tali — e se ci mettiamo al servizio del desiderio autentico. I desideri falsi portano infatti in stato di «disgrazia», come dice perfettamente Mariangela Gualtieri in questi versi di «Quando non morivo»:

«Questo giorno che ho perso
e che non ha fruttato
se non una mestizia, il puntiglio
del suo modesto mucchio
di faccende.

Questo giorno che ho perso
ed ero nell’esilio
dentro panni che non erano miei
e scarpe che mi disagiavano
e tasche che non riconoscevo
e correvo correvo puntuale
senza neanche un dono
per nessuno. Solo un vuoto, corto
respirare. A conferma che nel disamore
il fare anche se fai resta non fatto».

Desiderio ed educazione

Cosa c’entrano tutte queste suggestioni così intense con l’educazione e, peggio ancora, con la scuola?

Educare è tirare fuori e condurre ma anche liberare, aiutare a liberarsi: delle zavorre e di ciò che ammorba e soffoca anziché far crescere e fiorire. Il maestro dunque non è solo chi fa diventare più grande, chi fa crescere ma innanzitutto chi cresce a sua volta.

L’educazione serve a liberare e far scorrere il desiderio autentico. Perché ciò accada, come suggerisce Massimo Recalcati, l’educatore è chiamato a: essere lui per primo testimone del desiderio autentico; far sentire il bambino/adolescente desiderato; costruire argini (l’esperienza dei limiti e dei no) perché il desiderio zampillante del bambino/adolescente non si blocchi o disperda (se repressa, l’energia dei portatori sani di desiderio diventa inevitabilmente distruttiva o autodistruttiva) ma si indirizzi al suo «campo»; non mettere chiuse (paura, mancanza di fiducia, aspettative soffocanti, controllo, sensi di colpa, indifferenza…) che fanno stagnare la pura acqua di fonte che la terra assetata aspetta da ciascuno dei nuovi.

Ibidem
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