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Mio figlio mi parla di bellezza oltre la sindrome di Down

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Courtesy of Famiglia De Paolo

Paola Belletti - pubblicato il 11/01/22

Anna Chiara Gambini, moglie di Gigi De Palo, è mamma di 5 figli; l'ultimo, che ora ha 3 anni, è nato con la sindrome di Down. Le abbiamo chiesto di mostrarci come il suo arrivo in famiglia ha cambiato lei e gli altri. Ci ha risposto senza un filo di retorica: aveva troppa bellezza da mettere in campo. La cosa che noterete subito è che è davvero come dice lei: Giorgio Maria ha portato soprattutto libertà.

Buongiorno Anna Chiara e grazie della disponibilità. Probabilmente tutti i lettori di Aleteia ti conoscono già e seguono la vostra famiglia con affetto. Ci piacerebbe ora però dare spazio alla tua voce di madre. Vorrei chiederti una riflessione sulla tua maternità rispetto a Giorgio Maria, che è il vostro quinto figlio e ha la sindrome di Down.

Per prima cosa vorrei evitare l’approccio un po’ retorico al figlio cosiddetto “speciale”. Chi è Giorgio Maria e come avete accolto il suo arrivo?

Sì, condivido anche io questo approccio. Parlavo qualche giorno fa della bellezza della quotidianità; ecco, i figli come Giorgio Maria ti aiutano semplicemente a riconoscerla, ma la bellezza non dipende da loro. Sono come un occhiale, uno sguardo nuovo attraverso il quale vedere quel che già c’è. Giorgio Maria mi ha aiutato ad essere un genitore migliore anche degli altri. La sua diversità mi ha fatto capire come in realtà vivessi con meno libertà il rapporto con gli altri figli.

Per la sua condizione genetica Giorgio Maria ha delle fattezze facilmente riconducibili alla sindrome e questo all’inizio mi ha turbato e preoccupato; ciò che mi ha colpito tanto come mamma è che non mi somigliasse. Lo racconto spesso quando parlo coi genitori adottivi. Ho fatto un’esperienza simile a quella che tocca a loro; di sicuro non posso dire per lui come per gli altri cose come “hai lo sguardo di nonno”, perché i tratti della sindrome lo caratterizzano decisamente.

Si intuisce però che questo ti ha permesso di compiere dei passi importanti

È una cosa che mi ha interrogato e quindi mi ha anche liberato: perché mi sono resa conto che puoi essere preparato quanto vuoi, ma alla fine noi genitori proiettiamo tanto sui nostri figli; per questo quelli cosiddetti speciali ti aiutano a vivere con più libertà l’essere genitore e questa liberazione fa bene anche a loro.

Si viaggia più leggeri?

Sì, questi figli sono dei perdonati in partenza perché sono come dei “neonati adolescenti”.

Cosa intendi con questo ossimoro così particolare?

Parlo del momento di scontro col figlio che non è come vuoi tu. Col figlio che nasce con disabilità avviene subito, con gli altri di solito in quella tempesta che è l’adolescenza.

Te lo dicono subito, questi figli: “non sono quello che ti aspettavi, non ti assomiglio”. Sembra te lo urlino dalla culla, senza consapevolezza. Ed è un’occasione liberante.

Da cosa ti libera?

Dalla pretesa di essere il genitore perfetto. Da quelle ansie di dovergli dare tutto. Il primo ha più attenzione di tutti, ti rendi conto che non volendo un po’ di oppressione, di iper-controllo su di lui lo eserciti. Il nostro primogenito è nato che io avevo 25 anni ed eravamo sposati solo da un anno.

Invece Giorgio Maria ci ha proprio sollevato da tutto questo ed è stato come l’adolescente che non puzza (ride di questo accostamento che per chi ha figli in pieno sviluppo è alquanto efficace, Ndr). E in qualche modo mi ha risvegliato.

La decisione di accogliere i figli quando si prende davvero? Cioè, davanti alla scoperta dell’inizio di una gravidanza, diciamoci la verità, se si è veri e onesti non c’è più alcuna decisione da prendere. Semmai ci sono comportamenti da tenere, indagini non invasive da fare per prepararsi a curare dopo se non addirittura durante – vedi l’approccio del professor Noia e di tanti colleghi.

Provo a rispondere in modo non ideologico.

Ho scoperto alla nascita che mio figlio era affetto da trisomia 21. E questa è una cosa che mi ha aiutato perché sono un’ansiosa cronica. Qualcuno lassù sapeva che sarebbe stato meglio così. Ma ci sono state coincidenze di fatti per cui durante la gravidanza abbiamo vissuto una sorta di plagio per la sindrome di Down.

Ovvero, cosa vi è successo?

Incontravamo persone con la sindrome ovunque, ed è successo per sette mesi, sia a me sia a Gigi. Per strada, al supermercato, a una cena, al bar, dappertutto.

A un certo punto ci siamo detti: “Ma non è che qualcuno ci sta dicendo qualcosa? Vabbè, e se fosse?”

Per questo in qualche modote lo aspettavi pur non avendo avuto diagnosi prenatali?

Sì e credo che, a dispetto di ogni aspettativa, oggi posso affermare che quando è venuto a dirmelo Gigi, mi ha detto la frase più intima, bella e romantica della nostra storia ed è stata:

“sta bene, lo monitorano nell’incubatrice, ma sta bene e oh! alla fine è andata come ci aspettavamo”.

E ho capito che quella era la dichiarazione più sensazionale della mia esistenza, perché c’era dentro tutto: affidamento, fede, progetto comune, sintonia, commozione, accoglienza.

Quanto ha contribuito alla tua tenutail fatto di essere così saldamente unita a tuo marito?

Moltissimo, non posso negarlo. Perché accogliere insieme un bambino con difficoltà è tutta un’altra cosa che doverlo fare da sole.

Tutti sappiamo che non ci sono “colpe”, ma le mamme sono quelle che fanno il figlio e in noi c’è sempre una vocina che in questi casi ci sussurra “lo hai fatto male”. La mamma si arrovella, è quella che lo ha “prodotto”. Ecco che allora per una madre subire anche l’abbandono da parte del marito (o comunque il padre di quel figlio) è un doppio senso di colpa, ma aggiungo anche per una coppia subire l’abbandono del mondo è spesso il dolore più grande da dover sopportare. Perché di fronte a certe disabilità, gli stessi genitori sono i primi ad essere increduli per lo stupore di provare un amore spesso addirittura incomprensibile, che l’abbandono di chi ti è accanto rischia di offuscare.

Così sostenuta hai potuto entrare in questo mondo un po’ sconosciuto?

Come dicevo non ci si spiega l’amore che si scatena per questi figli. A vederlo da fuori può sembrare un amore irrazionale perché credi erroneamente che non possano darti nulla, in cambio.

Parlavo qualche giorno fa con la mamma di una bimba che è nata con una grave menomazione cerebrale, una condizione per cui non sarebbe dovuta sopravvivere che pochi mesi e invece oggi, a sette anni, percepisce la presenza di mamma e papà. Sembra che possa offrire pochissimo e invece aumenta in modo esponenziale la loro capacità di affetto e amore.

La mamma mi confidava quasi con pudore che ama follemente questa bambina e che non sa come spiegare al mondo questa realtà.

Anche noi sentiamo questo amore così intenso, lo percepiamo vero e con forza. E quando si innesca non hai più bisogno di spiegartelo. Per questo ringrazio Dio che Giorgio Maria sia nato.

Meglio quindi non essere troppo preparati per non ridursi ad essere solo preoccupati?

Nella mia personalissima esperienza sono contenta di non averlo saputo prima. Perché l’unico problema delle diagnosi prenatali è che sono sempre riferite a qualcuno che non hai ancora conosciuto e di cui non ti sei ancora innamorata.

Sento di non poter dare giudizi su scelte diverse dalla mia, prima di tutto perché la scienza riesce a fare delle cose eccezionali oggi grazie a tante diagnosi prenatali, come arrivare ad operare un bambino quando è ancora nell’utero materno, secondo vivo in un ambiente che mi ha messo nella condizione di accogliere un figlio in piena libertà. Quello che invece posso fare è portare la testimonianza del fatto che innamorarsi prima di qualcuno è bellissimo.

Prima di cosa? cosa intendi?

È nato mio figlio ed è di lui che mi sono perdutamente innamorata: solo dopo ne ho scoperto le caratteristiche genetiche. E questa per me è stata una grande libertà.

Giorgio Maria ha la sindrome di Down e non viceversa. Questo appare evidente da come tu parli di lui, di voi.

Ma oltre la bellezza e l’amore incondizionato, anzi dentro a questa cornice, ci sono momenti di particolare scoraggiamento, paura e fatica?

I momenti di scoraggiamento più intenso sono stati quelli iniziali. E’ stato dieci secondi con me e poi è andato in TIN (terapia intensiva neonatale) per nascita prematura di un mese abbondante. Quello è stato il momento di maggiore difficoltà. Mi mancava il fatto che non fosse stato con me i primissimi tempi. E poi sì, avevo paura che questa non somiglianza fosse un ostacolo, temevo di non saperla gestire. Ma, superato questo smarrimento iniziale, tutto si è sciolto in una carezza. Ho ripreso quel contatto con lui dall’altro lato della pancia, quello tra due esseri umani: mamma e figlio.

Lui ha una morbidezza, una tenerezza particolare perché i bimbi con questa sindrome sono bimbi molto ipotonici. Tutto il resto è la scoperta di un mondo. Sì, Giorgio Maria mi ha regalato un mondo.

Pensando alla malattia e alla disabilità si pensa ad un mondo grande e forse un po’ indistinto. Invece è un universo ricco e pieno di differenze. Per te cosa significa?

Ho capito che Giorgio Maria ha scelto la disabilità che la sua mamma può reggere. Non mi ha mai provocato rabbia. Se vogliamo renderla in modo plastico diciamo che ho scagliato cose più per Gigi che per Giorgio. Lui mi ha regalato un mondo, mi ha permesso di entrare in un ambiente dove ho trovato tante sensibilità diverse, tante amicizie, tante persone con storie differenti con cui sperimento una profonda condivisone.

Pensi ci sia il rischio di sentirsi dei guerrieri solitari contro un sistema insensibile e lontano?

Guarda, quello che non solo posso madevo proprio testimoniare io è una fiducia nella società e nel servizio sanitario nazionale. Io ho constatato che c’è una grande attenzione e un grande supporto. Ho scoperto tanto, mi sono arricchita come persona.

È nato in un grande ospedale romano e nel periodo di TIN e dei follow up dei prematuri che dura tre anni ho trovato un solo medico dei moltissimi che ho conosciuto che è stato crudele nei confronti della mia scelta, che mi guardava con l’aria di dire “ma perché gli hai fatto sto torto? Perché l’hai messo al mondo?”

Scusami se mi permetto una considerazione personale: come mamma con gravidanza difficile ho sperimentato una vera e propria schizofrenia dello sguardo su mio figlio tra il tempo della gestazione e quello dopo la nascita. Prima era un prodotto difettoso sacrificabile, dopo ho visto affollarsi persone, competenze, abnegazione, umanità per aiutarlo e curarlo. Ma lo sappiamo bene: lui era già lui…

Penso che dobbiamo cambiare il modo di parlare di questa schizofrenia. Perché spesso la moralizziamo troppo. Ma dobbiamo parlarne come di una schizofrenia comprensibile anche se moralmente non giustificabile.

Incontro famiglie che hanno vissuto l’arrivo di un figlio disabile come l’eruzione di un vulcano con la sua enorme devastazione; ma poi si sono trovati con questa nuova capacità addosso di amare. Ed è solo attraverso quella persona che si trovano ad amare persino la disabilità.

“Ma tu lo vorresti senza la sindrome?”, mi si potrebbe chiedere.

Ma grazie al cavolo, certo che non vorrei per lui un limite, tanto che lavoriamo costantemente da quando è nato con i suoi terapisti per aiutarlo ogni giorno a superare un pezzetto in più, ma divenendo parte di lui quel limite non è più scindibile e come tale non è più detestabile.

Pensa che mia figlia, durante un incontro che abbiamo fatto alla Papa Giovanni XXIII, ha visto così tanta bellezza e una tale gioia nelle famiglie e una così grande felicità nelle persone disabili che a un certo punto mi ha guardato e mi ha chiesto:

“Mamma, ma non pregherai mica perché sia disabile vero?”

Facendo memoria di una cosa che un carissimo amico sacerdote ripeteva spesso, ebbi senza accorgermene la risposta pronta:

“Non si chiede mai una croce, ma si accoglie”. 

Il cattolicesimo non è mica roba da masochisti, anzi!

Come ha inciso l’arrivo di Giorgio Maria nel rapporto con tuo marito e con gli altri figli?

I figli mi hanno insegnato tanto ad accogliere Giorgio: per loro la realtà era che entrava in famiglia un fratello, punto. Il grande aveva 14 anni. Diceva semplicemente “è arrivato mio fratello”. Successivamente subentrano prese di coscienza diverse, com’è giusto, ma l’accoglienza è totale e incondizionata.

Con mio marito quella frase di prima “è andata proprio come ci aspettavamo” è la sintesi di tutto.

Si sperimenta che la pienezza non è quella che ti aspettavi a 15 anni, ma arriva quando c’è un dedicarsi pienamente l’uno all’altro, con una comprensione sempre più profonda. Accogliere insieme un figlio così è stato di sicuro un punto fondamentale della nostra relazione. Poi devi fare i conti col fatto che un figlio con disabilità ha bisogno di molte più attenzioni, e che non deve avere il monopolio assoluto dell’amore dei genitori né farti lasciare il coniuge all’asciutto di dedizione e presenza.

Giorgio Maria rischia di assorbire totalmente non solo il tempo ma anche la tua attenzione?

Non corro solo io questo rischio. Anche mio marito: l’altro giorno doveva partire e ha dedicato 35 minuti di saluti e smancerie a Giorgio Maria e a me solo due e pure un po’ sbrigativi.

In base alla tua esperienza con un bimbo con disabilità c’è il rischio di leggere gli altri figli in sua funzione?

Ci sono momenti in cui si chiede aiuto, quello sì. Ma ciò che sperimento soprattutto è che avere un soggetto fragile in casa diventa la colla per tutti; è come un reset di tante cose.

Certi argomenti non sono più cosa astratta ma esperienza. L’accoglienza non è uno sforzo da imparare a mettere in pratica, ma un bisogno e un desiderio inspiegabile.

Chiaramente non amano la sua disabilità; però me lo dicono un sacco di volte: “io la cosa che più temo al mondo è che lui soffra, che lui possa non esserci più”. Vedere soffrire lui, il fratello fragile è insopportabile. Anche solo se Giorgio Maria fa “labbruccio” si ferma la famiglia. Ma in tutto questo serve che siano normali tra loro. Il fratello migliore di Giorgio è Gabriele perché è quello che ci litiga.

Quando mi chiedono “com’è la vita con un figlio speciale?” io rispondo con un’altra domanda: “A quale ti riferisci, a quello di 16 anni?”

La fatica è conciliare i loro mondi che sono cinque. Di uguale hanno solo il cognome, ah e ovviamente il fatto che i difetti li hanno presi da me!

Di che aiuti avrebbero più bisogno le famiglie che hanno figli con disabilità, con tutte le differenze tra le singole situazioni?

Ritornando al discorso di prima io vedo che c’è una rete assistenziale molto bella, ma di sicuro con disomogeneità nel territorio.

Ora ti faccio una battuta: Giorgio Maria ha l’accompagnamento, tutti i figli mi dicono “il più ricco è Giorgio che ha tre anni” e capita che anche solo per scherzo vadano da lui con questa richiesta: “me lo compri tu, Giorgio?”

In assoluto fa riflettere: è bene che ci siano politiche familiari più strutturate per riconoscere a ogni figlio il proprio valore, non solo ai fragili.

Il fatto che ci siano assegni familiari per tutti è un segnale importante perché dice che lo Stato investe su di loro e riconosce il valore anche delle loro passeggiate con gli amici e dello sport che scelgono.

Ora vorrei dare una risposta più ideale.

Sono convinta che serva una vera dinamica di inclusione.

Viviamo un tempo in cui l’inclusione è argomento fondamentale e bellissimo, ma purtroppo tutto schiacciato su alcune categorie. È bellissima l’inclusione, è cristiana alla radice. S. Francesco baciava i lebbrosi, includendoli così nel mondo. Per questo non va strumentalizzata, in nessun ambito; chiedo invece che sia abitata sempre di più.

Su una pagina dedicata alla sindrome di Down ho visto una foto di una bambina statunitense con la sindrome che aveva come tutor un adulto anche lui con sindrome di Down. L’ho trovata meravigliosa. Ciò che ci preoccupa come genitori è poter immaginare un posto nel mondo per loro. Un posto, non un rifugio, non una cosa pietosa ma un luogo da abitare.

Tu e tuo marito avete anche un ruolo pubblico a servizio del bene comune sul fronte della promozione della famiglia e della natalità. Cosa ha aggiunto Giorgio Maria alla vostra testimonianza?

Mio marito ha un ruolo più pubblico del mio, io lo appoggio, ma ognuno fa il suo. Cosa ha aggiunto Giorgio? Io sto sperimentando che quando c’è una fragilità manifesta, in tutte le sfaccettature della vita, le persone si sentono più accolte e quindi anche più libere di condividere. Per questo lo ringrazio tanto perché rischiavamo di sembrare un po’ la famiglia del Mulino Bianco. L’ho visto perché tanta gente mi ha scritto, mi ha raccontato, mi ha aperto il cuore. Come si fa con l’amica con cui tutti vanno a confidarsi: spesso scopri che quell’amica ha un cuore un po’ ferito.

Invece l’eroismo che viene attribuito a questa condizione soprattutto in ambito cattolico fa un disservizio. Non c’è alcun eroismo e questa normalità devo dire che la sperimento di più nel mondo laico, che idealizza meno queste scelte e magari ti compatisce, però questo compatirti è meno grave di chi ti idealizza.

Abbiamo ripreso proprio qualche giorno fa una catechesi di Don Fabio su questo: è dai nostri fallimenti che comincia tutto, è su quello che il Signore costruisce la santità. 

Don Fabio è proprio il padre del concetto che se le cose le guardi come occasione sono un’altra cosa. “E se fosse una grazia?” Questo è proprio il refrain che ti fa cambiare tutto.

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