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Chi ha inventato la seconda (e ultima) parte dell’Ave Maria?

CANISIUS
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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 21/12/21
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Se non fu proprio Pietro Canisio, a scrivere la fine della più nota (e biblica) tra le preghiere mariane, se ne deve a lui la codificazione definitiva.

Le ferie verso il Natale (gli ultimi giorni d'Avvento, praticamente quelli della Novena di Natale) smorzano particolarmente il tono delle memorie dei santi, e di proposito, nel senso che – data l'importanza del tempo liturgico – si è scelto di lasciar prevalere questo su quelle.

Ecco dunque che quanti si sono ritrovati iscritti nel calendario nei giorni della novena e dell'ottava di Natale (e non sono dei calibri massimi, come santo Stefano, san Giovanni Evangelista o i Santi Innocenti) passano spesso in cavalleria senza che neppure li conosciamo.

O riconosciamo, perché magari hanno invece esercitato una forte influenza sulle nostre vite, benché non lo sappiamo. È questo il caso, ad esempio, di Pietro Canisio, il gesuita e dottore della Chiesa morto il 21 dicembre 1597 – e pertanto festeggiato oggi (benché in sordina).

Lo si ricorda per il fervoroso apostolato in Germania, onde è detto “secondo apostolo delle Germanie” (in cima al podio sta, inarrivabile, san Bonifacio), per la fondazione dell'università di Freiburg im Breisgau, per la redazione di diversi importanti catechismi, per la partecipazione al Concilio di Trento… ma c'è una sua “invenzione” che ogni cattolico usa tendenzialmente ogni giorno (e molti anzi parecchie decine di volte al giorno!). Che cos'è?

Tante volte si dice – spesso in tacita polemica con i protestanti – che la preghiera dell'Ave Maria sia squisitamente biblica, e questo perché mette insieme i due saluti che la Vergine riceve nel primo capitolo del Vangelo secondo Luca: quello dell'Arcangelo Gabriele e quello della parente Elisabetta.

È vero, e difatti la preghiera era detta in latino, ancora per tutta l'età moderna, “salutatio angelica”, ossia “il saluto dell'angelo”. Però questo vale per la prima metà dell'Ave, almeno come la conosciamo noi. E la seconda?

La seconda fu aggiunta, o perlomeno codificata nella sua forma attuale (ci risulta già in un breviario francescano del 1525), proprio da san Pietro Canisio, che nel 1555 (in pieno Concilio di Trento) dedicò il secondo paragrafo del secondo capitolo del secondo libro alla “Salutatio angelica” riportandola appunto nella forma che conosciamo (alla fine del Concilio, san Pio V la “canonizzò” nel breviario tridentino).

È suggestivo, insomma, che ci abbia insegnato a pregare Maria pensando all'ora della nostra morte proprio uno l'ora della cui morte sarebbe caduta nei giorni in cui la Chiesa più intensamente contempla i misteri descritti nel primo capitolo del Vangelo secondo Luca.

La prima frase la consigliava, come chiusa, già san Bernardino da Siena. Un tratto tipico della devotio moderna, la meditazione sulla morte, nonché della spiritualità gesuitica; ancora prima, tuttavia, è un elemento di forte connotazione biblico-sapienziale. La Scrittura infatti, soprattutto negli scritti poetici, ridonda continuamente di inviti a tener presente il trapasso. Si ricordi per tutti il celebre Sir 7,40:

A ben vedere è significativo non solo che san Pietro Canisio, ardente apostolo di questa preghiera (e dell'amore filiale a Maria) sia morto “all'ombra del presepe”, ma pure che la sua preghiera sia rimasta particolarmente aderente al tempo dell'Avvento: Gesù Bambino è nella mangiatoia per essere mangiato come il pane dell'Eucaristia (e non a caso nasce a Betlemme, “casa del pane”), e anche nel presepe è spesso rappresentato con le braccia e le gambe già disposte “in modo crucis”.

Il memento mori che facciamo in ogni Ave Maria, anche grazie a san Pietro Canisio, è radice di verità e di libertà: così Gesù ci è venuto incontro nel primo Avvento, e così bisogna che Gli andiamo incontro nel secondo.