quarantenne giovanile, avvenente e dinamica, Hélène Machel, decoratrice e formatrice, ha vissuto ai quattro angoli del globo seguendo gli spostamenti professionali del marito Gilles, prima di mettere radici in Francia. Algeria, Messico, Vietnam… Un giro del mondo durante il quale i due hanno avuto la gioia di adottare tre figli: Paul, 17 anni, Capucine, 13 anni, e Olivia, 6 anni. La famiglia però non è al completo che ricordando anche Jeanne, la figlioletta morta 18 anni fa quando non aveva neppure un anno. Hélène racconta, sotto forma di un romanzo corale che tocca per la sincerità, Envolée (Mame), la breve ma bella vita di Jeanne, una “neonata-bolla” affetta da una severa sindrome da immunodeficienza. Aleteia ha incontrato Hélène, che si è aperta senza filtri sulla ribellione e sul dolore legati alla perdita di un figlio, nonché sul progressivo ritorno alla vita e alla fede.

Entrambi portatori di un’anomalia genetica, Hélène e Gilles hanno una possibilità su quattro di avere un figlio dalle difese immunitarie quasi inesistenti. La loro prima figlia, Jeanne, nata nove mesi dopo il loro matrimonio, si è battuta per quasi un anno contro questa malattia. Chemioterapia, trapianti di midollo osseo, camera sterile… i trattamenti non sono riusciti a salvarla, e neanche le preghiere. Una constatazione che all’epoca portò Hélène alla rivolta.

Credente, praticante, la donna si ricorda le numerose preghiere rivolte a Dio per salvare la figlia, fino alle «prostrazioni sul suolo delle cappelle» per implorare la misericordia del Signore. In tutto il mondo venivano organizzate catene di preghiera, la madre era sicura, certissima del miracolo. Se lo aspettava, se lo meritavano – si diceva allora. Sarebbe stata la ricompensa alla loro fede certa, alla loro speranza indefettibile. Scrive nel suo libro:
Il miracolo però è passato oltre: «Ho perduto Jeanne e la fede nello stesso giorno», confida oggi. Oltre alla sofferenza che trapassò il suo cuore di madre, fu invasa da un implacabile furore: «Mi sono fatta tanto male per perdere la fede». Ha smesso di pregare ed è rimasta ostinatamente fuori dalle chiese. Durante un lungo periodo di deserto ha rigettato la fede, senza tuttavia riuscire a perderla. Hélène non ha più la spensieratezza di un tempo, ma una mattina si è svegliata più leggera: si è autorizzata a ridere di nuovo, a rallegrarsi per le buone notizie degli altri – anche i suoi cari hanno quindi potuto riprendere a respirare.
L’attesa e l’arrivo dei loro figli adottivi hanno segnato anche la riconciliazione con Dio:

«Far entrare gli estinti nelle nostre case è un po’ come avere il cielo in salone»
È stato in Messico che Hélène ha trovato un certo sollievo dopo la scomparsa di Jeanne:

Il cimitero. Un posto in cui si forzava ad andare, ma dove il dolore si faceva troppo pesante:
Un gesto consolatore, riparatore. Jeanne resta presente in mezzo a loro. Hélène ha l’impressione di averla sempre seduta sulle proprie spalle: le parla, le rivolge brevi frasi, pensieri. I loro figli sono particolarmente vivaci e zelanti nel far posto a Jeanne, nonché attenti e rapidi nel completare l’elenco dei figli quando Hélène, per brevità, dice di avere solo tre figli. Dopo la sofferenza e la rabbia, progressivamente è arrivata l’accettazione: «Non era fatta per questa vita», conclude semplicemente Hélène.
Dando simbolicamente la parola alla figlia, nelle ultime righe del suo libro, Hélène illustra magnificamente come l’amore non cessi di trasmettersi attraverso la comunione dei santi:
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]