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Adrien Candiard: ritornare a sperare, ritornare al reale

Adrien CANDIARD

Guillaume POLI/CIRIC

Emiliano Fumaneri - pubblicato il 04/12/21

Nel suo ultimo libro il frate domenicano Adrien Candiard ci parla della virtù della speranza, un tonico indispensabile in un’epoca di sfiducia e disorientamento

Un granito tenero come un abbraccio

«Pur sapendo che tutto perisce, dobbiamo costruire in granito le nostre dimore di una notte», così Nicolás Gómez Dávila in uno dei suoi aforismi al fulmicotone. Ha ragione da vendere lo scrittore colombiano, chi può negarlo? Solo in parte però. Perché le nostre dimore terrene avranno sì bisogno della durezza del granito, ma non meno ne hanno della tenerezza di un abbraccio.

È di conforto allora ritrovare questa paradossale combinazione (durezza + tenerezza) nell’ultima fatica del frate Adrien Candiard: La speranza non è ottimismo. Note di fiducia per cristiani disorientati (Emi, 2021). Un libro, come si legge nella prefazione, «duro come il granito e tenero come l’abbraccio».

Il titolo illustra già le intenzioni – e le conclusioni – dell’autore: speranza e ottimismo non sono affatto la stessa cosa. Candiard scopre subito le carte ci informa che «la speranza, la speranza vera, la virtù della speranza, è […] il contrario dell’ottimismo».

Va detto però che sul punto la confusione regna sovrana nella cattolicità. E questo vuol dire guai seri se è vero, come scriveva il cardinale Siri, che «la Chiesa ha vinto le eresie, ma ha ben più difficoltà a vincere le confusioni».

Un’epoca di sfiducia e depressione collettiva

È un’epoca di grande confusione la nostra, ma anche di grande sfiducia; e il sospetto è che la seconda si alimenti della prima. Aver confuso ottimismo e speranza: è stato questo a produrre una sfiducia generalizzata? Giudichi chi legge.

Anche i cattolici, che pure dovrebbero essere dei «professionisti della speranza», sono sfiduciati per la scomparsa della cristianità. E così partecipano alla depressione collettiva.

È urgente dunque interrogarsi sul vero significato della speranza. E per farlo bisogna partire anzitutto da ciò che non è la speranza, ossia dall’ottimismo.

L’ottimista vede “la vie en rose”

L’ottimismo, ci spiega il giovane domenicano, è quella strana virtù che consiste nel dirsi che domani andrà tutto meglio. All’inizio della pandemia non si diceva forse “tutto andrà bene”? Peccato solo che “del doman non v’è certezza”. Pensare che il domani – di cui non sappiamo nulla – porti necessariamente un mondo migliore di quello di oggi è un atto di fede più volte smentito dall’esperienza.

Il guaio è proprio questo: l’ottimista in fin dei conti è un uomo che corre dietro ai miraggi. In breve, è uno vede la vita in rosa. Andrebbe anche bene se bastassero le buone intenzioni – che di regola lastricano invece strade poco raccomandabili…

Non si potrebbe dirlo meglio di Celine:

Massacri a miriadi, non c’è guerra dal Diluvio in poi che non abbia avuto per musica l’Ottimismo… Tutti gli assassini vedono rosa nel futuro, fa parte del mestiere.

Ahinoi, un mestiere antico quanto il mondo! Il rosa tende insomma a confondersi col rosso… sangue.

Non a caso tutte le idee assassine dello scorso secolo si sono nutrite di illusioni. Hanno celebrato i “domani che cantano” o il “sol dell’avvenire” prospettando all’umanità un futuro radioso, una costante avanzata verso le “magnifiche sorti e progressive”. Ma in definitiva hanno lasciato dietro di sé soltanto una lunga scia di sangue.

Gli idoli sono prodighi di promesse mai mantenute. E quando realizzano i loro sogni spesso non danno vita che a incubi. Non bisogna meravigliarsi allora che le rovine del progresso abbiano prodotto, per reazione, solo scetticismo e sfiducia. Non è stata la pandemia, non è stato il covid. La sfiducia ci aveva contagiati ben prima.

Geremia, il profeta della speranza

Se l’ottimismo si ciba di utopismo, la speranza si sposa semmai col realismo. Per rendersene conto bisogna distanziarsi dalla nostra immediata attualità e tornare a molti anni addietro. Al 587 a.C., per essere precisi.

È l’ora più buia di Israele, che assiste impotente alla catastrofe suprema: la distruzione del Tempio di Salomone ad opera di Nabucodonosor, sovrano di Babilonia. Una disfatta ancor più acuita, se possibile, dalla successiva deportazione del popolo ebraico a Babilonia.

Eppure, ci ricorda Candiard, il piccolo regno di Giuda aveva sfidato la grande Babilonia pieno di speranza in Dio, sicuro che non avrebbe abbandonato il suo popolo. Dio è con noi, tutto andrà bene!

C’era un abitante a Gerusalemme che la pensava diversamente. Il suo nome era Geremia, il profeta canzonato e disprezzato – oggi come ieri – per le sue “geremiadi”.

Geremia in effetti si comportava come un guastafeste. Mentre tutti incitavano alla ribellione contro Babilonia in nome del Dio d’Israele, lui predicava la sottomissione pura e semplice a un re pagano, empio e oppressore come Nabucodonosor. Mentre proliferavano profezie vittoriose, lui profetizzava sventure e rovina. La fede non lo spingeva all’ottimismo, bensì a un crudo realismo capace di valutare gli effettivi rapporti di forza.

Ma alla fine sarà il suo pessimismo a essere confermato dai fatti. Dopo un assedio interminabile e feroce, il re babilonese conquisterà Gerusalemme, farà deportare i sopravvissuti e distruggere il Tempio.

Fine dei giochi? No, fine di una falsa speranza

Fine dei giochi per il popolo che Dio aveva fatto uscire dall’Egitto? Fine delle promesse di Dio? No, solo la fine di una falsa speranza.

Accade infatti qualcosa di strano proprio nei giorni angoscianti dell’assedio. Geremia, certo della catastrofe imminente, è incarcerato e minacciato di morte dall’aristocrazia giudaica che giudica pericoloso il suo disfattismo.

Ma è proprio allora, nel pieno della tragedia, che questo “realista” comincia a scrivere cose bizzarre. Annuncia che Dio ricreerà tutto a partire dal nulla, afferma che la distruzione di Gerusalemme e del Tempio è solo un episodio della storia dell’alleanza d’amore offerta da Dio al mondo.

E anche su questo sarà lui ad avere ragione. Dio compirà le sue promesse in Gesù, in una maniera ancora più incredibile di quanto non si immaginasse. Il fatto è che le vie del Signore non sono le nostre. Per realizzare le sue promesse Dio non ha bisogno di ciò che gli uomini reputano necessario: un re, una terra, un tempio.

Israele pensava: se smettiamo di essere un popolo, Dio non potrà più salvarci! Avverrà esattamente il contrario. «Perché sperare non è tutto – scrive Candiard – bisogna anche sperare in Dio, e sperare in lui solo. Coloro che contavano su realtà diverse da lui — le alleanze estere, la politica, la resistenza armata —, anche in nome di Dio, anche – come pensavano — fondate su Dio, ci si sono rotti i denti».

La speranza, scuola di realismo

L’ottimismo è sempre una speranza umana, troppo umana, grande quanto un mucchio di rovine. O vana quanto lo sforzo di quei costruttori del Salmo 126, che si affannano a costruire una città contando solo sulle proprie forze.

La vera speranza è un’altra cosa. I teologi, nel loro gergo tecnico, ci dicono che è una virtù teologale, ovvero che ha Dio come oggetto, principio e fondamento.

È per questo che i veri maestri di speranza sono i profeti come Geremia, anche se la cultura corrente lega il loro nome a disgrazie e a litanie piagnucolose (le “geremiadi” appunto).

Al limite i palati più raffinati possono concedere a Geremia di essere la versione biblica di Cassandra, la sacerdotessa che prevedeva solo sventure. Ma pure lei va rivalutata, perché gli Antichi invitavano a non disprezzare profeti e profezie. Il matematico-filosofo Olivier Rey ci ricorda, nel suo Dismisura, che «la maledizione che colpiva Cassandra non era di vedere tutto nero, bensì di fare predizioni esatte senza essere mai creduta». Così, sottolinea Rey, «il modo migliore di onorare il reale non è di dipingerlo tutto rosa, ma di vederlo così com’è».

Anche Geremia, come Cassandra, non vede affatto un futuro in rosa e ci insegna, torna a dirci Candiard, «che la speranza non è ciò che spesso si crede, una sorta di ottimismo beato che si rifiuta di vedere le difficoltà».

L’eterno riecheggia in ciò che amiamo in vita

Dio non promette a Geremia di tirarlo fuori dai guai né di risolvere magicamente i problemi di Israele. Dio gli fa una sola promessa, sempre la stessa e ripetuta incessantemente: «Io sarò con te».

Il tempio può andare distrutto, l’impero di Roma può crollare, la cristianità può estinguersi. Ma anche nella peggiore delle catastrofi Dio rimane: è Lui l’unico oggetto della nostra speranza. E se il libro di Geremia insiste nel denunciare le false speranze è perché Dio esiste e si incontra solo nel mondo reale.

Rifiutare le false speranze, cioè le fantasie e le utopie con le quali cerchiamo di fuggire dalla durezza della realtà, è già un primo atto di speranza. È già cominciare ad attendere la salvezza solo da Dio.

In fin dei conti cos’è allora la speranza? È incarnare l’eterno amore nel tempo, ci dice Candiard:

Sperare è qualcosa di molto concreto: è credere che Dio ci rende capaci di porre degli atti eterni. Che, quando ci amiamo, questo amore non è semplicemente un bel sentimento in un oceano di assurdità votato alla morte, ma una finestra che apriamo sull’eternità. Perché gli atti eterni, gli atti che noi possiamo fare e i cui frutti sono eterni, sono, naturalmente, gli atti d’amore, i soli che contino. Sono questi che costruiscono, già nel nostro mondo, l’eternità, il regno di Dio.

Per parafrasare l’indimenticabile Massimo Decimo Meridio di Ridley Scott, l’eterno riecheggia in ciò che amiamo in vita.

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