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Nata ad Auschwitz e nascosta in uno sgabello: “Ho succhiato la paura insieme al latte di mia madre”

STEFANIA WERNIK

fot. Agnieszka Bugała

Stefania Wernik z mamą Anną Piekarz oglądają numer obozowy 79414, który mama nosiła do końca życia.

Agnieszka Bugała Agnieszka Bugała - pubblicato il 26/11/21

“Sono nata l'8 novembre 1944 nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau...”

“Subito dopo la nascita, mi hanno tatuato il numero 89136 sulla gamba sinistra, ma oggi non si vede più, resta solo un segno livido. Mamma ha pianto molto quando mi hanno portata con quel numero. Sono stata la primogenita dei miei genitori, molto attesa”, dice la signora Stefcia.

Stefcia Wernik ha 77 anni, vive a Osiek, vicino Olkusz, in Polonia, è da 58 anni moglie di Jan ed è madre, nonna e bisnonna. È allegra e sorridente, e quando parla le brillano gli occhi. La sua vita adulta è stata felice, ma sul suo certificato di nascita, quando si parla del luogo in cui è nata c’è una scritta che le fa venire ancora i brividi: Auschwitz-Birkenau.

Sappiamo dai documenti disponibili che nel campo di Auschwitz l’ostetrica Stanisława Leszczyńska assistette a più di 3.000 parti. Tra questi, c’era quello di Stefcia Piekarz.

Durante la guerra mancava tutto, e la madre di Stefcia lasciò la sua città per andare a trovare i suoio genitori, che vivevano a Osiek. Era aprile, faceva caldo, doveva percorrere una decina di chilometri, ma i Tedeschi la catturarono durante una retata di donne contrabbandiere e la arrestarono con loro. Le donne catturate vennero portate a Olkusz, e da lì, dopo un giorno di prigione, ad Auschwitz. Anna non disse che era al secondo mese di gravidanza.

“Quando arrivarono lì, una donna tedesca le aspettava sulla rampa: ‘Sapete dove siete arrivate? Questo è un campo di sterminio! Da qui si può uscire solo dal camino!’ Poi le portarono ai bagni, le rasarono e le obbligarono a indossare uniformi a righe. L’acqua era maleodorante, gli abiti erano rigidi per la sporcizia, gli zoccoli di legno ferivano i piedi scalzi e pesavano”, dice la signora Stefcia ricordando i racconti di sua madre.

Nei documenti del campo scrissero: Piekarz Anna, numero 79414, nata il 13 luglio 1918. Arrivò ad Auschwitz il 14 maggio 1944, a 26 anni, e venne destinata alla baracca numero 11.

Auschwitz. Gli esperimenti dell’“angelo della morte”

La signora Stefcia dice che per fortuna lei non ricorda nulla, e che sua madre non ha mai voluto parlare troppo del campo. “Siamo state lì due volte insieme, ma non ha detto molto. Solo poco prima di morire, quando ha perso il contatto con la realtà, gridava nel sonno, dicendo che era in ginocchio nell’acqua, che camminavano, che le facevano molto male le gambe, che faceva freddo, che lui la toglierà Stefcia”, dice Stefcia, che da neonata e da bambina è stata sottoposta a esperimenti medici.

La madre ricordava che appena nata Mengele gliela toglieva a forza dalle braccia, e quando la riportavano piangeva per ore e nessuno riusciva a calmarla.

I neonati ad Auschwitz. Nascere per morire

“Fino al maggio 1943, i bambini nati nel campo vennero crudelmente assassinati, affogati in un barile. Dopo ogni parto, un forte gorgoglio e un lungo getto d’acqua, a volte persistente, giungeva alle orecchie delle ostetriche. Poco dopo, la madre poteva vedere il corpo del figlio gettato di fronte al blocco e lacerato dai topi”, ha dichiarato l’ostetrica del campo, Stanisława Leszczyńska, nel Rapporto dell’ostetrica di Auschwitz. Non c’erano pannolini, bende, analgesici o disinfettanti. Non c’era neanche l’acqua. Secondo Stanisława Leszczyńska, raccoglieva i resti di erbe amare delle tazze che le prigioniere non avevano bevuto, lavava i neonati con quei resti e tagliava il cordone ombelicale con delle forbici ossidate.

Ad agosto, Anna Piekarz era già sul camion che si supponeva dovesse portarla al campo di Ravensbrück. La sua amica Hela disse al “kapò” che Anna era incinta. La fecero scendere la camion e la trasferirono nella baracca 15, e venne anche eliminata dalla lista dei lavori pesanti.

STEFANIA WERNIK

La nascita

Il parto della piccola Stefania è durato tre giorni, dal lunedì al mercoledì. La madre Anna era così debole da non avere la forza per partorire. Denutrita, affamata e infreddolita, ha dato alla luce la bambina nell’ospedale del campo. Non ricordava di aver avuto nessuno accanto a lei, anche se secondo il Rapporto di Stanisława Leszczyńska al parto era sempre aiutata da qualcuno. Dopo aver partorito è stata male per due settimane e ha avuto molto latte, anche se non si sa perché, visto che pesava appena 28 chili. Le donne della baracca confezionarono dei vestitini per la bambina dalla tela delle uniformi a strisce, una coperta e un piccolo cuscino per la piccola Stefcia. Si avvicinava però l’inverno, e quei teli lacerati pieni di pidocchi non riscaldavano il corpo gelato lavato con acqua gelida.

“Quando arrivò la liberazione del campo, mia madre mi ha portata via nascosta in uno sgabello che ha trascinato sulla neve fino a Libiąż. Lì ci hanno accolto delle brave persone. Allora qualcuno lo ha detto ha papà, ma lui non ci ha creduto! Alla fine è venuto e ci ha portate a casa. Sono venuti da tutta la zona, come se fosse accaduto un miracolo…”, ricorda Stefcia.

Lei e la madre sono sopravvissute miracolosamente per vedere il 27 gennaio 1945, giorno della liberazione del campo. I Tedeschi distruggevano documenti e appiccavano incendi, ma le porte erano aperte, e Anna Piekarz decise di fuggire. Avvolse la bambina in una coperta o in un cappotto, non lo ricordava. Girò uno sgabello, ci mise dentro Stefcia, legò una corda alle gambe dello sgabello e trascinò la bambina nascosta in questo modo sulla neve. Non aveva la forza di prendere in braccio sua figlia, era troppo debole.

“Dopo un po’, mio padre andò all’anagrafe per informare della mia nascita, ma come luogo di nascita mise Czubrowice”, dice Stefcia. Perché? “Aveva paura che i Tedeschi mi portassero via. Solo nel 1977 ho corretto il mio certificato di nascita davanti al tribunale di Cracovia”.

“Anche se il nome di Auschwitz evoca semplicemente tristezza nei documenti, assomiglia alla sofferenza di mamma. Il corpo non vuole dimenticare questo incubo. Le malattie delle donne della mia famiglia sono ereditarie, ho avuto la pelle della testa rugosa come un cavolo fino a 16 anni, e la paura succhiata con il latte di mia madre terrorizzata mi accompagna ancora oggi”.

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