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Gloria Cecilia Narváez ha raccontato il suo calvario, e Aleteia era lì ad abbracciarla

COLOMBIA

DANIEL MUNOZ / AFP

Lucía Chamat - pubblicato il 22/11/21

Un racconto coraggioso e toccante nato dalla sua anima di missionaria. Una vera testimonianza di fede di chi ha dedicato la vita al servizio di Dio. “Ho visto sempre la mano di Dio e della Vergine Maria”, ha detto ad Aleteia

La religiosa colombiana Gloria Cecilia Narváez Argoty ha raccontato la storia della sua prigionia e della sua liberazione, e Aleteia è stata testimone del suo racconto. Era emozionata, la voce incrinata e le lacrime agli occhi, logica conseguenza di 4 anni, 8 mesi e 2 giorni di sequestro da parte dei terroristi nel deserto africano, sempre in pericolo di morte.

Colpi, fame, sete, minacce, catene, derisione, insulti, sputi, punizioni al sole e forti maltrattamenti fisici e psicologici. L’hanno ferita nel corpo, ma non sono riusciti a cancellare la sua vocazione missionaria, né hanno posto fine al suo amore per l’Eucaristia e l’adorazione perpetua, che è il carisma della sua comunità, la Congregazione delle Francescane di Maria Immacolata.

“Volevano uccidermi in qualche modo, ripetevano continuamente che volevano cadaveri e mi facevano soffrire per vedere quanto resistevo. Io dicevo: ‘Lotterò, ma se è volontà di Dio che muoia sia fatta la Sua volontà’”.

La sua pelle sta recuperando il colore naturale, la voce continua ad essere calma e l’atteggiamento tranquillo e prudente. Mentre raccontava dettagli inediti del suo sequestro, suor Gloria Cecilia rimaneva seduta, un po’ incurvata, il che si spiega forse per i lunghi periodi di tempo in cui è rimasta nascosta per ordine dei suoi rapitori, fuggendo da chi la cercava o da gruppi nemici.

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Un “cane di chiesa”

I musulmani che l’hanno rapita in Mali e l’hanno tenuta sequestrata per quasi cinque anni la chiamavano “cane di chiesa”, l’espressione più dispregiativa con cui sono soliti offendere i cattolici. “’È la tua religione’, mi dicevano sempre. In quella cultura la donna non vale niente, peggio ancora perché ero cattolica. Non mi consideravano in alcun senso”.

Gloria Cecilia accoglieva gli insulti e i maltrattamenti in silenzio, perché il suo motto era “Tacete, tacete e tacete, che Dio ci difende”, frase che ripeteva la beata Caridad Brader, fondatrice della sua congregazione, di cui ha sempre portato una medaglietta al collo e un’immagine in tasca. La sua fede le ha senz’altro dato la forza per resistere e rimanere in silenzio, serena e in pace nonostante il pericolo e la morte che affrontava tutti i giorni. “Ho sempre visto la mano di Dio e della Vergine Maria”, ha detto ad Aleteia.

Non le è mai mancata la comunione spirituale, e scriveva preghiere e lettere a Dio con pezzi di carbone o sulla sabbia delle dune. “In quelle lettere ringraziavo Dio per il fatto di essere viva, e Gli dicevo che mi aveva sicuramente permesso di affrontare quella prova per essere più paziente, umile e dedita alla missione”.

Recitava anche il Magnificat per proteggersi dalle tempeste del deserto e dalle raffiche di mitragliatrice che spesso la circondavano, si confortava ricordando le canzoni delle sue consorelle e ripeteva costantemente i salmi.

Per rivivere nel suo cuore la Messa, i sacramenti e gli atti di pietà, si è anche dedicata a conoscere Dio nella natura. “Contemplando il sole raggiante, il cielo, le stelle fugaci, la luna e gli animali, pensavo come San Francesco d’Assisi che la natura è nostra sorella e in lei c’è Dio”.

Un calvario nel deserto

Suor Gloria Cecilia ha esposto un racconto dettagliato e toccante del momento della sua cattura, mentre guardava la televisione con due religiose colombiane, Sofía Cortés e Clara Vega, e suor Adelaide, di nazionalità francese. Il dolore ricordando quel momento era palpabile: “Quella notte ho sentito i cani abbaiare e mi sono affacciata varie volte, ma non ho visto niente. Poco dopo sono entrati degli uomini armati. Quando ho capito che la loro intenzione era prendere una delle sorelle più giovani, mi sono offerta perché ero la più anziana e la responsabile del gruppo”.

Da allora è iniziato un vero calvario. Incatenata e con al collo qualcosa che sembrava una bomba, ha viaggiato su una moto per quattro giorni, poi in canoa, altre volte in camion. Ha trascorso giorni interi nascosta e ha resistito alle pericolose tempeste di sabbia. Guardandosi intorno, si è resa conto che la stavano portando nel deserto, e con questo venivano stroncate le sue speranze di essere liberata. Ha poi saputo che era nelle mani di simpatizzanti di Al-Qaeda.

Nel suo gruppo c’erano altre tre donne sequestrate: Sophie Petronin, una francese di cui si è presa cura fino quando è stata liberata, una svizzera e una giovane canadese. È stata vicina anche al sacerdote italiano Pier Luigi Maccalli. I primi anni le venivano dati cinque litri d’acqua al giorno per bere, preparare il cibo e lavarsi.

L’ultimo anno

L’aspetto più difficile per la suora colombiana è arrivato dopo il quarto anno, quando è rimasta sola. Sophie e padre Maccalli sono stati liberati, la canadese si è convertita all’islam ed è riuscita a fuggire e crede che la svizzera sia stata assassinata. Nell’ultimo anno non le davano cibo né acqua, per cui si puliva con l’urina, uno dei tanti metodi per sopravvivere.

Ha cercato varie volte di fuggire, ma veniva sempre scoperta e i maltrattamenti peggioravano. “Una volta il leader del gruppo è arrivato e ha iniziato a spingermi da dietro, mi faceva cadere, mi rialzava e mi faceva ricadere, il tutto varie volte”.

Nonostate tutto, ha sempre rispettato la cultura e la religione dei terroristi, e non ha mai provato rancore nei loro confronti. Al contrario, pregava per loro. “In Mali il 98% della popolazione professa l’islam, e io ho imparato a vivere in mezzo alle differenze, e del resto Allah e Gesù Cristo sono lo stesso Dio creatore dell’universo, misericordioso e amorevole”.

Verso la libertà

Il suo cammino verso la libertà è durato vari giorni, fino a quando il 9 ottobre ha incontrato il Presidente del Mali e il cardinale. Da lì è passata al Vaticano e alla casa della sua congregazione a Roma, dov’è rimasta per alcune settimane, per poi recarsi in Colombia il 16 novembre.

Suor Gloria Cecilia si è adattata a poco a poco alla realtà che ha trovato tornando in libertà. Dice di essere sempre stata bene di salute, e che questa è stata un’altra benedizione di Dio. Riguardo al coronavirus, ha avuto solo un breve riferimento quando un capo ha detto che nel mondo c’era una malattia grave che stava uccidendo molta gente.

Ha sospettato della morte di sua madre, Rosa Argoty de Narváez, avvenuta nel settembre 2020, quando ha ricevuto una lettera firmata dai suoi fratelli e non da lei, ma ne ha ottenuto la conferma solo quando è stata liberata.

Continuerà ad essere missionaria

“Dio ha compiuto un grande miracolo in me, e mi ha dato l’opportunità di portare avanti la mia vocazione, perché una persona porta dentro di sé questa missione, questo donarsi senza condizione”, ha affermato convinta.

Si nota il suo desiderio di tornare a servire i poveri, come quei 50 bambini orfani, da appena nati ai due anni, che sono rimasti nella casa che la sua comunità gestiva vicino Karangaso. Lì alfabetizzavano anche le donne, insegnavano loro a cucire, offrivano microcrediti, immagazzinavano grano e prestavano servizi sanitari.

Ora si recherà a Pasto (nella zona sud-occidentale della Colombia), dove ha sede la sua provincia religiosa. Lì incontrerà familiari e amici, riposerà e potrà godersi i festeggiamenti preparati per lei.

Non sa cosa Dio abbia in serbo per lei in futuro.

È però sicura che si può testimoniare con la vita, senza fare necessariamente cose grandi, e lo conferma con un messaggio che le ha inviato un sacerdote che vive in Africa: “Sorella, ci ha unito di più nella fede. La fede cattolica in Mali è aumentata”.

Suor Gloria Cecilia è umile e un esempio di fede e obbedienza, grata a Dio e a tutti coloro che hanno pregato per lei. Ora, libera, è tornata nella sua terra e nella sua comunità, per continuare a offrire la sua testimonianza e servendo i più bisognosi.

Nota di redazione: l’abbraccio di Aleteia

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Nell’immagine, la collaboratrice di Aleteia in Colombia, Lucía Chamat, insieme a suor Gloria Cecilia il 19 novembre, una fotografia che riassume come Aleteia ha seguito la storia della religiosa per quasi cinque anni, con decine di articoli e una copertura che ha sempre cercato di far sì che il lettore potesse non solo avvicinarsi alla verità, ma anche pregare per lei e per la sua liberazione.

Gloria Cecilia è stata finalmente liberata, e l’abbracio di Aleteia è colmo dell’affetto fraterno di tutti coloro che fanno parte di questa comunità.

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