L’ultimo capitolo della ponderosa biografia del Papa Emerito scritta da Peter Seewald, storico intervistatore del Pontefice tedesco, è dedicato alle “ultime domande a Benedetto XVI”. Dopo pochi scambi per entrare in argomento, Seewald chiese se Vatileaks avesse avuto qualche peso nella decisione di rinunciare all’esercizio del ministero petrino: seguono sette righe di risposta per illustrare come quello scandalo non c’entrasse «assolutamente niente».
Il susseguirsi dei Profeti mandati alla Chiesa
Poi Seewald chiese se la visita del 2009 alla tomba di Celestino V lo avesse in qualche modo ispirato e/o incoraggiato nel prendere l’estrema decisione. Qui sono bastate tre righe e una manciata di parole per negare che il precedente di Celestino potesse in qualsivoglia modo essere preso a esempio per la sua rinuncia. A seguire si è registrato invece questo scambio di battute:
Negli scambi successivi Benedetto cercò di precisare ulteriormente il senso e la portata delle sue risposte precedenti, ma non è per questo che le abbiamo volute ricordare in questa sede: se infatti si accettano per buone le risposte del Papa Emerito, e se si trova sensato che lo Spirito Santo gli abbia effettivamente ispirato e confermato la decisione di far posto a un altro, ci si dovrà aspettare che lo stesso Spirito abbia agitato le anime dei Cardinali in Conclave verso l’elezione di un pastore che avesse altri strumenti – diversi da quelli di Benedetto XVI – per «combattere la corruzione nella Curia».
Il ragionamento potrà sembrare banale o (al contrario) inconsistente, ma se lo si prende sul serio si troverà una domanda rispondendo alla quale sarà più facile individuare la specificità teologica del pontificato bergogliano, ossia quale sia il motivo per cui Dio abbia voluto che il posto occupato per otto anni da Joseph Ratzinger venisse preso da Jorge Mario Bergoglio.
Quando morì san Giovanni Paolo II, si diceva a Roma, la Chiesa versava in uno stato di grande apertura al mondo e di desolante dissipazione interiore, e giustamente ci si sarebbe interrogati, già all’epoca, su quanto fosse positiva quella cosiddetta “apertura al mondo”, ovvero in cosa consistesse. Un po’ per la vertiginosa difficoltà di dare un successore al Papa polacco, un po’ per il “discorso programmatico” contenuto nell’omelia della missa pro eligendo pontifice del card. Ratzinger, fu chiesto all’anziano presule tedesco di combattere la dittatura del relativismo.
Quale potrà mai, domani ma già oggi, dirsi la missione principale del pontificato bergogliano? Anzitutto ci si chiede: la dittatura del relativismo è stata debellata? Non sembrerebbe, ma allora perché cambiare battaglia? Si diserta la lotta? Neppure questo sembrerebbe: piuttosto si “cambia fronte”, ovvero si prova a interrogarsi più a fondo sulle ragioni dell’impasse. Se la “sporcizia”, che Ratzinger denunciava già sul crepuscolo wojtyłiano, e il “chiacchiericcio” che papa Benedetto denunciava, hanno un qualche legame con quella “dissipazione interiore”, che cosa lo Spirito propone alle Chiese come antidoto? Quale rimedio profetico manda ad esse mettendo al timone della barca di Pietro un gesuita venuto «quasi dalla fine del mondo»?
A cosa risponde il pontificato bergogliano?
Mi sembra che a questa domanda risponda l’articolo scritto dal padre Diego Fares per il numero de La Civiltà Cattolica in uscita domattina: la lotta al trionfalismo e alla mondanità spirituale non è “il nuovo slogan” della nuova corte pontificia – solo un nemico dello Spirito la leggerebbe così –, ma l’invito a proseguire il pellegrinaggio ecclesiale approfondendo il solco tracciato dal Magistero Pontificio e rendendo più fine lo strumento per la lotta che ciò necessariamente comporta. Benedetto XVI aveva denunciato i danni che la povertà di pensiero arreca al mondo e alla Chiesa; Francesco chiede che la riforma sia ancora più radicale, perché neanche il pensiero, in sé e per sé, è immune alla marcescenza della corruzione.
Scrive dunque il p. Fares:
Bergoglio nel 1984, dice Fares. E la Meditazione sulla Chiesa (che è del 1953), dice Bergoglio. Quali che siano le direttrici di questi testi, pochi al mondo sono oggi meglio attrezzati, a comprenderlo e a illustrarlo, del padre Fares, che nel 1975 – quando aveva appena diciannove anni – veniva accolto nella Compagnia di Gesù da padre Bergoglio.
E la direttrice fondamentale di queste riflessioni, confluite di getto già nella Evangelii Gaudium (del 2013: il Papa ce l’aveva già tutta in punta di penna), è la tribolazione, che si ha in senso proprio e stretto – a livello spirituale – quando cominciano le defezioni alla vocazione cristiana.
Sembra dunque che lo Spirito abbia ritenuto opportuno inviare alla sua Chiesa, dopo un dottore della Chiesa in pectore, un padre spirituale che abbia ereditato – in una vita decisamente fuori dell’ordinario – le tradizioni ascetiche della Compagnia di Gesù, da sant’Ignazio a padre Fiorito:
A quel travagliato periodo della vita di padre Bergoglio, che portava sulle spalle (fra l’altro) i meriti e i pesi di aver traghettato la Compagnia attraverso buona parte del regime di Videla (con annessi e connessi), si deve la composizione di alcuni scritti parzialmente raccolti e divulgati già fin dall’inizio del pontificato e ancora in anni più recenti. Padre Fares ne ricorda due: il primo è “Non fatevi rubare la speranza”, che Mondadori pubblicò nel 2013; il secondo è “Lettere dalla tribolazione”, curate da La Civiltà Cattolica e pubblicate con Àncora nel 2019.
In particolare quest’ultima raccolta è una silloge di alcuni testi che il giovane Bergoglio propose come strumento di lavoro alla LXVI Congregazione dei Procuratori della Compagnia di Gesù, che si tenne a Roma dal 27 settembre al 5 ottobre 1987:
«Come affrontare bene la vergogna e la confusione»
Ma chi ha avuto l’idea di ripubblicare queste lettere su lettere? Francesco stesso, nel 2018: «Sento che il Signore – si legge nella Prefazione – mi chiede di condividere di nuovo le Lettere della tribolazione». E perché? Il Pontefice l’aveva spiegato in capo a quel medesimo foglio:
Quali sono dunque le insidie pratiche da cui germina la “mondanità spirituale” cui De Lubac aveva dedicato le ultime pagine della sua Meditazione?
E aggiungeva poco dopo riportando le parole di padre Bergoglio pronunciate a Mendoza nel 1985, durante la commemorazione del IV centenario dell’arrivo dei gesuiti in quelle terre:
Autentiche perle storico-teologiche, e proprio per questo intensamente spirituali, che illustrano per quali vie i membri della Compagnia – oggi come ieri e come sempre – si siano potuti vestire da bonzi buddisti e perfino da mandarini nel XVII secolo, ma sempre e solo per portare a tutti gli uomini la Parola della Croce (e che quella parola non fosse una chiacchiera lo comprovano i cilici che quegli stessi gesuiti portavano sotto le seriche vesti per non abituare alla seta la mente e il cuore).
Stare presso la croce nella “fatica del cuore”
Ecco perché Francesco diffida tanto – lo ripete così spesso! – delle “ricette preconfezionate”: non c’è alcun “tampone rapido” per individuare il trionfalismo, specie quando esso è occulto, ma nel periodo medio-lungo i frutti rivelano la natura degli alberi a cui sono appesi.
Ecco i tre versanti del Golgota dai quali si può rovinare, quando non si resta aggrappati alla Croce (e al suo disonore): si diventa fatalmente
Certo, si fa presto a dire “aggrapparsi alla Croce”, ma è pressoché un modo di dire se non c’è la pazienza nell’umiliazione:
Quando Francesco dice, ad esempio (ma non solo) all’indomani della pubblicazione del rapporto CIASE sugli abusi, “questa è l’ora della nostra vergogna… della mia vergogna…”, non sta approntando un estemporaneo diversivo per dirottare l’attenzione dei media, ma indica profeticamente la via della sola riforma ecclesiale possibile, quella che diserba il chiacchiericcio e che scardina la dittatura del relativismo:
Abbracciare umilmente l’umiliazione, dunque, dovunque venga e con tutto il suo (eventuale) tasso di ingiustizia, è ciò che ci «pone nella migliore disposizione per fare discernimento». Il principio della vita gesuitica, certo, ovvero l’orientamento al fine ultimo della vita umana: «lodare, riverire e servire Dio nostro Signore e […] salvare, mediante ciò, la propria anima» (Ignazio, Principio e fondamento degli ES 23).
Vivere così è faticoso, lo riconosceva lo stesso Ignazio, tentato dal demonio col pensiero di non poter reggere una vita a tale stressante intensità. È noto che il Santo abbia respinto il Nemico rinfacciandogli che non aveva il potere di «promettere neppure un’ora di vita soltanto»; padre Bergoglio e papa Francesco, inoltre, raccolgono dal magistero giampaolino la “particolare fatica del cuore” (Redemptoris Mater 17) che la fede costò anche all’Immacolata Concezione.
Queste di Fares e soprattutto le altre di padre Bergoglio, a cominciare da quelle scritte in anni di conflitto e di confusione (esteriore), sono pagine importanti per tutti quanti oggi vogliano mettere mano a ordinare la propria vita al proprio fine, naturalmente, ma lo sono particolarmente per i membri della Chiesa che più attivamente si coinvolgeranno nel cammino Sinodale da poco avviato. Perché esso non venga assorbito e assimilato dalla consueta “convegnite ecclesiale” e non si traduca in un buco nell’acqua, è necessario che la Chiesa si ponga assieme queste due domande: perché il Signore ci ha mandato un Papa che chiede queste cose? e di quali cose dunque ha bisogno la Chiesa per riformarsi davvero?