I cristiani che sono stati in Terra Santa se ne portano spesso dietro un ricordo forte, pur nella sua ambivalenza: in moltissimi sono segnati, per esempio, dalla confusione che regna nella basilica dell’Anastasis, o dalla moderna sporcizia di alcune città galilee che – magari a partire dalle ricche descrizioni di Maria Valtorta – immaginavano floride di vigne e uliveti. D’altro canto il ricordo del Lago di Tiberiade all’alba, o del deserto di Giuda all’imbrunire, basta e avanza per riempire di nuova comprensione la lettura di molte pagine scritturistiche.
S’impone dunque una duplice constatazione: da un lato certamente non è necessario viaggiare fino in Medio Oriente per essere cristiani (molti tra i più grandi santi non hanno mai visto Gerico eppure da Cristo hanno ricevuto non meno di Bartimeo); dall’altro il cristianesimo non è un platonismo o un altro sistema filosofico, del quale ci si impadronirebbe con la mera lettura di un libro, bensì è una religione rivelata, e rivelata in una storia – lunga e complessa – avvenuta in alcuni tempi e non in altri, in alcuni luoghi e non in tutti.
Indubbiamente – per dirlo meglio – leggere la Bibbia in Terra Santa non è come leggerla altrove: qui le Scritture “si aprono” e nasce gradualmente un rapporto speciale con i luoghi menzionati in esse, finché, quasi senza accorgercene, quei nomi geografici, che spesso ci sono suonati così astrusi, si legano a un luogo preciso e a un’esperienza viva di fede, è come se acquistassero un “volto”. Non si tratta più di realtà lontane, bensì concrete e familiari.
Pierbattista Pizzaballa (Patriarca di Gerusalemme dei Latini, già Custode di Terra Santa), Presentazione in Germano Lori, Francesco Giosuè Voltaggio, Mattia D’Ambrosi, Terra Santa. Bibbia-Archeologia-Catechesi, Napoli 2021, p. 7