La Chiesa si è schierata contro la contraccezione e in particolare la pillola abortiva. negli anni del concilio, manifestando poi una giustificazione teologica e morale con la enciclica Humanae Vitae.
I retroscena con cui la Chiesa arrivò a prendere questa posizione, sono raccontati da Gilfredo Marengo nel suo libro “Chiesa Sesso Amore” (edizioni San Paolo).
L’invemzione della pillola
Il dibattito si infiamma con l’invenzione (1958) della pillola contraccettiva da parte di G. Pincus (1903-1967). Una scoperta che sembrava offrire alle coppie un metodo sicuro, scientificamente testato, per un esercizio responsabile della loro facoltà procreativa.
Già nel primo dibattito conciliare (1962-1965) sul matrimonio: in quell’occasione il cardinale Ernesto Ruffini (1888-1967) pose da subito l’accento sulla necessità di una chiarezza dottrinale circa i fini del matrimonio e il controllo delle nascite.
I dubbi sulla regolazione delle nascite
Certamente, scrive Marengo in “Chiesa sesso amore”, il concilio doveva astenersi dal giungere ad un intervento puntuale nel merito della contraccezione. Allo stesso tempo, però, l’annuncio dell’intenzione dell’allora papa Paolo VI non solo di avocare a sé un giudizio. Ma anche di riconsiderare il problema, segnalava – almeno implicitamente – che non era sufficiente la semplice ripetizione della dottrina già nota.
In questo scenario va compreso il modo con cui Gaudium et spes (1964, in pieno dibattito conciliare), entrò nel merito delle problematiche della regolazione delle nascite. Una volta sancito il principio che l’esercizio responsabile della paternità era in se stesso un valore positivo da perseguire, ritornava al centro dell’attenzione la valutazione dei metodi, leciti o meno, da impiegare.
Le 4 caratteristiche dell’amore coniugale
Questo esito dei lavori conciliari orientò in modo peculiare il percorso della stesura dell’enciclica Humanae vitae (1968).
Se lo scopo immediato dell’enciclica era esporre i criteri morali cui attenersi nell’esercizio responsabile della regolazione delle nascite, bisognava richiamare un orizzonte molto più ampio e promettente. Che doveva essere tracciato da una visione integrale dell’uomo (n. 7) e una conseguente comprensione dello specifico dell’amore coniugale, di cui si mettevano in evidenza quattro caratteristiche: umano, totale, fedele e fecondo (nn. 8-9).
Il problema che doveva sciogliere l’enciclica
Il nodo teologicamente centrale dell’enciclica, scrive Marengo in "Chiesa sesso amore", è rappresentato dal modo con cui la fecondità veniva articolata con le prime tre, attraverso l’analisi degli «atti della vita coniugale». Si apprezza l’intenzione di proporre da subito uno sguardo positivo a essi, in accordo con le istanze di una nuova considerazione della sessualità. Una volta individuato in tali «atti» il luogo espressivo e di verifica di un amore totale, fedele e volontario, ne conseguiva la necessità di rispettare il suo essere fecondo.
Si coglie una certa fatica a superare senza esitazione il paradigma dei “due fini” del matrimonio, ancora sotteso al vocabolario. Che distingue l’amore come mezzo di reciproco perfezionamento e «via» alla missione propria degli sposi (la fecondità).
Gli atti dei coniugi e il processo generativo
La scelta, poi, di porre al centro dell’attenzione gli atti dei coniugi favorì un approccio non sempre capace di evitare la deriva casistica. E ha amplificato il rilievo assegnato ai temi dell’etica, di fatto ricondotti all’orizzonte della natura da cui derivare criteri e norme indisponibili alla libertà dell’uomo.
Procedere in questa direzione conduceva direttamente al rifiuto di ogni pratica di contraccezione e la rinnovata approvazione da parte della Chiesa, di una regolazione delle nascite perseguita «rispettando le leggi del processo generativo». Sono state molte le resistenze affinchè il documento prendesse questa direzione. Marengo nel libro spiega bene le difficoltà e le mediazioni all'interno della Chiesa per trovare una soluzione a questi nodi.
Il paradigma della “natura”
E' così che, man mano, l’enciclica ha ribadito ancora una volta la difesa della sequenza matrimonio-sesso-figlio, sviluppandola con due variazioni che la articolano in questo modo. Cioè gli atti propri degli sposi (e solo di essi) sono legittimi anche perché esprimono il loro amore. E, per questa ragione, hanno un valore in sé anche quando “naturalmente” non siano fecondi e siano compiuti in un esercizio responsabile della loro capacità procreativa.
La centralità dell’appello al paradigma della “natura” non era solamente un doveroso ossequio ad una secolare tradizione magisteriale e teologica. Ma appariva dirimente nel momento in cui l’insegnamento ecclesiale su matrimonio e famiglia si sporgeva a ospitare la soggettività dei coniugi. Valorizzando, così, il loro amore reciproco e riconoscendo loro la possibilità di decidersi per la procreazione o meno di una nuova vita.
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