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“Gesù è l’incarnazione di Dio”: così si è convertito Fedor Dostoevskij

Dostoïevski

© DR

Fiodor Dostoïevski

Gelsomino Del Guercio - pubblicato il 10/11/21

La collana “Accenti” de “La Civiltà Cattolica”, la rivista culturale dei gesuiti, dedica un approfondimento all’intellettuale russo, in cui affronta il tema della sua conversione, avvenuta dopo un lutto

La conversione di Fedor Dostoevskij (Mosca, 11 novembre 1821 – San Pietroburgo, 9 febbraio 1881) avvenne dopo la detenzione in Siberia e un grave lutto che lo colpì.

La si può riassumere in un “passaggio”: cioè quando l’intellettuale russo ha cominciato a pensare Gesù non più come incarnazione dell’uomo, ma come incarnazione di Dio. Solo allora, secondo Dostoevskij, la morte è realmente vinta e l’angoscia trasformata in gioia.

A spiegare questo “passaggio” è la collana “Accenti” de “La Civiltà Cattolica”, la rivista culturale dei gesuiti, che dedica un ampio approfondimento dal titolo “Dostoevskij”.

La prigionia in Siberia

Da bambino Dostoevskij si è sempre considerato cristiano, anche per l’educazione ricevuta in famiglia. Poi gradualmente abbandonò la fede, fino a quando non fu recluso nei campi di prigionia zaristi. 

Nei quattro anni di lavori forzati trascorsi in Siberia, si legge nell’approfondimento dei gesuiti, «tra sofferenze e umiliazioni d’ogni genere, unica consolazione era stata la lettura del Vangelo. A contatto col Libro Sacro e col dolore di tanti disgraziati molte fantasie erano crollate, determinando nel suo spirito un vuoto ricco di promesse nuove. La fede religiosa era rimasta lontana, forse irretita dalla bruta realtà del male e dallo sconfinato squallore di quella “casa dei morti”. Quando lascia la prigione (1854) e poi la Siberia (1859), è ancora “figlio dei dubbi”, ma il Vangelo gli fermenta nell’anima e gli colora progetti e traguardi».

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La lettera alla signora von Vizin

Una prima svolta verso la conversione, Dostoevskij la segnò nel febbraio 1854, in una lettera alla signora von Vizin

Si legge in quella missiva: «Dio mi manda talvolta dei minuti, nei quali io sono del tutto sereno; in questi minuti io amo e trovo di essere amato dagli altri e in questi minuti io ho cercato in me stesso il simbolo della fede, nel quale tutto mi è caro e sacro. Questo simbolo è molto semplice. Eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più simpatico, di più ragionevole, di più virile e perfetto di Cristo […]. E non basta; se mi si dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo anziché con la verità».

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Non è ancora il Verbo incarnato

Nella monografia de La Civiltà Cattolica, si legge che «la lettera alla signora von Vizin, oggettivamente parlando, non è una professione di fede cristiana, pur essendo un documento rivelatore. Cristo è l’essere più ammirevole e amabile, e Dostoevskij lo ama “d’un amore geloso”, ma non è il Dio vivente, Verbo incarnato, Colui che è oltre la ragione, ma non contro di essa».

Dopo la morte della prima moglie

L’elemento che maggiormente contribuì alla scoperta dell’Uomo-Dio fu la morte della prima moglie, Maria Dmitrievna (15 aprile 1864), da lui appassionatamente amata. 

Qui le sue riflessione lo proiettano verso un sensibile avvicinamento a Dio.

«Amare l’uomo come se stessi, secondo il comandamento di Cristo, non è possibile – scrive l’intellettuale russo -. Sulla terra la legge della personalità impaccia. L’io è di ostacolo. Cristo soltanto poteva farlo, ma Cristo era l’ideale eterno sin dall’inizio dei tempi, quell’ideale al quale tende, e deve tendere per legge di natura, l’uomo».

Invece, «dopo la comparsa di Cristo come ideale dell’uomo incarnato, è diventato chiaro come il giorno che lo sviluppo supremo, l’evoluzione ultima della personalità deve appunto arrivare […] a far sì che l’uomo trovi, riconosca e con tutta la forza della sua natura si convinca che l’uso più elevato che egli può fare della propria personalità, della pienezza di sviluppo del proprio io, consiste quasi nell’annientare l’io stesso, nel consegnarlo completamente a tutti e a ciascuno indivisibilmente e senza riserve. E questa è la massima felicità». 

Le 6 vie verso la conversione di Dostoevskij 

Secondo La Civiltà Cattolica, Dostoevskij raggiunge almeno sei conclusioni, che ne attestano la conversione. 

1) Lo scopo della vita umana dunque, lo sviluppo supremo, la meta ultima consiste nel dono totale di sé agli altri. In tal modo la persona e la società si annullano, ma per fondersi e realizzarsi in pienezza. Questo è il «paradiso di Cristo». 2) Ciò sulla terra è impossibile: l’uomo, sulla terra, è soltanto un essere in evoluzione, non concluso, quindi un homo viator che postula un altro stato. 3) Di conseguenza, esiste la vita futura. 4) Per poterla raggiungere, è necessario che l’uomo sia rigenerato, assumendo un’altra natura: la natura di Dio, «sintesi completa di tutto l’essere». 5) Tale rigenerazione è resa possibile dalla nostra trasformazione nell’io di Cristo che è garante e realizzatore dell’immortalità dinamica e personale diciascuno. 6) Cristo può operare la Sintesi, cioè comunicarci Dio, perché ha una «natura sintetica».

La fede in Gesù Cristo, Verbo incarnato, permea l’opera di Dostoevskij, ma come una musica in sottofondo: più che gridarla, conclude l’approfondimento dei gesuiti, la riecheggia, la presuppone, la esige. 

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