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Aborto: ha davvero portato più uguaglianza tra uomini e donne?

PROLIFE, ABORTION, SLOGAN

StunningArt | Shutterstock

Feliciana Merino Escalera - pubblicato il 10/11/21

Il presunto diritto all'aborto ha portato davvero più libertà e uguaglianza alle donne? La realtà degli Stati Uniti, a decenni dalla sentenza Roe vs Wade, sembra dire di no

Il dibattito sull’aborto è tornato in primo piano nella politica statunitense. La disputa sulla costituzionalità della legge del Texas che proibisce gli aborti da quando viene individuato il battito cardiaco fetale o quella del Mississippi che li proibisce dopo 15 settimane intensificano la controversia e le argomentazioni delle femministe.

Queste ultime affermano che se una o entrambe le leggi venissero dichiarate costituzionali rappresenterebbe un passo indietro nei diritti delle donne statunitensi.

In questi decenni di sviluppo economico e sociale, le persone hanno organizzato la propria vita e ridefinito il loro ruolo nella società “confidando nella disponibilità dell’aborto nel caso in cui gli anticoncezionali fallissero”, di modo che sembra che la capacità di partecipare alla vita economica e sociale si debba in gran parte alle decisioni riproduttive e all’apparente dominio che sembrano avere sulla vita.

Ma è davvero così?

In un articolo molto interessante pubblicato sulla rivista America, si legge che le argomentazioni della Corte Suprema degli Stati Uniti non hanno mai sostenuto che le restrizioni all’aborto violino la clausola della protezione egualitaria della Costituzione.

Sembra, tuttavia, che nelle ultime sentenze di Planned Parenthood contro Casey i giudici dessero per scontato che l’aborto avesse rappresentato un passo avanti nell’uguaglianza e nella libertà delle donne come argomentazione “di fiducia”, come una “forza precedente” nelle loro motivazioni per dettare una sentenza favorevole all’aborto.

Dare per scontato?

Dopo un’analisi delle due generazioni della storia dell’aborto negli Stati Uniti, dalle sentenze storiche Roe v. Wade (1973) a Planned  Parenthood v. Casey (1992), bisogna chiedersi se l’aborto abbia portato davvero a una maggiore libertà e uguaglianza nella partecipazione delle donne alla vita pubblica.

Si dà per scontato che sia stato così, ma vediamo cos’è accaduto realmente.

In primo luogo, il facile accesso all’aborto ha provocato un aumento su ampia scala e in tutta la società dell’assunzione di rischi da parte degli “attori sessuali”. Il sostegno all’aborto produce non solo una diminuzione dell’uso attivo di anticoncezionali, ma comporta una mancanza di impegno da parte della coppia e un’incapacità di assumere i doveri genitoriali in caso di una gravidanza indesiderata.

Oltre a questo, sembra che non si possa dire che i frutti della legalizzazione dell’aborto abbiano qualcosa a che vedere con l’uomo. Se la decisione relativa all’aborto è qualcosa che spetta solo alle donne, è facile capire che per gli uomini questo si tradurrà in più rapporti sessuali, il che provocherà un tasso più alto di aborti e di nascite indesiderate.

La verità, infatti, è che non tutte le donne abortiscono, ma continua ad essere un tema tabù nell’agenda femminista, perché una donna che decide di non abortire dovrà allevare il figlio da sola, nella maggior parte dei casi senza aiuto da parte dell’uomo responsabile e senza sostegno istituzionale o culturale di alcun tipo, salvo le soluzioni apportate il più delle volte dalla Chiesa.

L’aborto ha liberato… gli uomini

Nell’articolo di America, si citano le premonizioni avute nel XVIII secolo da Mary Wollstonecraft, per la quale l’accesso relativamente facile all’aborto ha liberato gli uomini dalle responsabilità che accompagnano il sesso, e quindi ha intaccato i doveri di cura nei confronti dei figli che i genitori dovrebbero condividere in modo uguale.

È chiaro che l’aborto indebolisce ancor di più il rapporto tra sessualità e paternità, perché mancando

la componente biologica che corrisponde alla maternità – l’uomo non può abortire – e spettando la scelta solo alla madre, il padre sente che la sua presenza non è determinante se non al momento del coito.

Ciò non solo non contribuisce alla formazione del desiderio degli uomini legato alla responsabilità e alla cura dei figli, che in epoche passate già brillava per assenza, ma consolida la visione androcentrica e patriarcale dell’uomo le femministe detestano tanto.

Il dottor Alan Guttmacher di Planned Parenthood lo ha predetto così: “L’aborto su richiesta libera [l’uomo] da ogni possibile responsabilità, diventa semplicemente un animale da coito”.

Come il movimento &Me too ha rivelato centinaia di volte, “il nuovo ‘animale da coito’, che manca dell’educazione formativa del desiderio che ci si attende da un aspirante cavaliere, non farà attenzione alla parola ‘No’”.

Uscita “facile” al problema della conciliazione

In secondo luogo, la rivoluzione sessuale tanto predicata dal movimento del maggio del 1968, unita al controllo della popolazione e all’amore libero, lascia senza risposta una domanda che il femminismo radicale non si è neanche azzardato a formulare: come mantenere la preoccupazione sociale di allevare ed educare i figli, che finora era stata una responsabilità quasi esclusiva delle madri, e come farlo senza che questo intacchi il modello di relazioni sociali e lavorative la cui vigenza e continuità sembra essere interesse di tutta la società.

La nuova cultura che impone a poco a poco l’aborto per cui il sesso non ha conseguenze e non comporta responsabilità lascia le donne sole nelle loro gravidanze di fronte a un’unica decisione: abortire o allevare da sole i propri figli.

Ciò presuppone il fatto di dare continuità al machismo, a una maggiore disuguaglianza tra uomini e donne che ha cercato semplicemente di mettere sul tavolo una via d’uscita facile per evitare lo scontro con la vera difficoltà: come far sì che le donne si inseriscano nel mercato lavorativo senza la rinuncia implicita alla maternità e al lavoro per prendersi cura dei figli.

In questo senso, è forse il momento di riconoscere che il maggior beneficiario dell’aborto è il sistema capitalista con i suoi paladini, per i quali il diritto di abortire da parte delle donne non ha cambiato il modo di partecipare alla vita economica e sociale.

Secondo la docente di Diritto del Lavoro Deborah Dinner, “il discorso della scelta riproduttiva continua a legittimare le strutture lavorative modellate sull’ideale maschile [senza responsabilità di cura], come anche le politiche sociali che offrono un sostegno pubblico inadeguato alle famiglie”.

Pressione ad abortire

Per le famiglie continua ad essere un problema che provoca grande angoscia organizzare i doveri familiari rendendoli compatibili con quelli professionali, cosa che si vive come un latente oblio della possibilità di crescere professionalmente se non a costo della rinuncia a un progetto di vita familiare.

Non solo si rimanda la decisione di avere figli, ma la paura di essere licenziate per il fatto di essere incinte è secondario rispetto alla facile decisione trasferita sul lavoratore (in questa cosa lavoratrice): puoi abortire. Solo se abortisci potrai crescere a livello accademico, professionale, anche se per questo dovrai sacrificare il frutto delle tue viscere, che non è neanche un sacrificio dal punto di vista professionale, ma un avanzamento. Solo tu subirai le conseguenze di una decisione individuale, che non avrà mai effetti sulla tua vita economica e sociale, ma solo nell’intimità della tua coscienza.

È vero, come sostiene l’autrice dell’articolo, The feminist revolution has stalled, che l’equilibrio tra lavoro e famiglia continua ad essere un tema della massima urgenza, perché è la condizione della donna come madre e non solo la sua condizione di donna che continua a provocare le più grandi disuguaglianza e i maggiori problemi nel mondo sociale e lavorativo.

La rivoluzione femminista che non risolve i problemi della donna

Ci siamo nuovamente venduti a un modello mercantilista in cui l’inserimento della donna nel mondo lavorativo è avvenuta – con ampia accettazione da parte delle imprese e della società – senza correlazione con il lavoro a casa che corrisponde a padre e madre insieme.

Se la rivoluzione femminista si è fermata, è perché con troppa ingenuità chiude gli occhi di fronte a un fatto evidente e deplorevole: che la società ci lascia nuovamente sole di fronte a decisioni che distruggono la nostra vita, senza altra compagnia che quella del nostro abisso interiore, che è solo nostro ma favorisce tutti gli agenti sociali e imprenditoriali.

È facile liberarsi dalla colpa per chi, credendo di renderci più liberi, ci incatena di più alle sue esigenze spurie: quelle di un mondo produttivo in cui valiamo solo per quello che produciamo, anche se per questo si deve strappare quello che diamo al mondo dalle nostre viscere.

Magari in Europa il dibattito sull’aborto riaprisse quello ancor più urgente, quello della necessaria relazione tra lavoro e famiglia, perché dev’essere possibile trovare vie percorribili in cui escludere la vita non sia il prezzo da pagare per servire in modo sproporzionato un sistema economico che ci ha resi ciechi.

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