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Gesù conosceva tutto (e avrebbe saputo fare qualunque cosa)?

Man wearing Jesus Christ costume and plays guitar

By Antonio Gravante - Shutterstock

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 08/11/21

Che avrebbe fatto Cristo, se gli avessero messo in mano una chitarra? La domanda ha un preciso (e cruciale) retroterra dogmatico.

In moltissimi hanno letto il “Saint-Exupéry americano”, nato solo sei anni dopo il francese ma (a differenza di quello) ancora vivente: quasi tutti lo hanno conosciuto unicamente o prevalentemente per il suo “Il gabbiano Jonathan Livingston” (1970 – rimaneggiato nel 2013); da ragazzo un amico mi consigliò di leggerne anche “Illusioni. Le avventure di un messia riluttante” (1976 – proseguito nel 2014). 

«Non lo so suonare, quell’aggeggio» 

Sorvoliamo qui – visto che di aviatori si tratta – sulla concezione religiosa di Richard Bach, che pure impregna tutta la sua opera, ma nelle prime pagine di Illusioni si trova un breve dialogo tra il protagonista e Donald Shimoda, il suo “messia riluttante”: entrambi si trovano in un negozio dove il narratore cerca articoli da ferramenta e il misterioso compagno si mette ad arpeggiare «una modesta chitarra a sei corde esposta in vendita»: 

– Donald, è meraviglioso! Non immaginavo che sapessi suonare la chitarra! 

– Ah no? Allora credi che qualcuno avrebbe potuto avvicinarsi a Gesù Cristo, dargli una chitarra e sentirsi dire “Non lo so suonare, quell’aggeggio”? Avrebbe detto così Gesù? | 

Shimoda rimise la chitarra al suo posto e uscì nella luce del sole insieme a me. «O se passasse qualcuno che parla il russo o il persiano, credi che un qualsiasi Maestro degno della sua fama non lo capirebbe? O credi che se un Maestro volesse smontare un trattore D-10 o pilotare un aereo, non ci saprebbe fare?» 

Richard Bach, Illusioni, Segrate 2018, 16-17 

Già da queste poche righe si colgono alcune caratteristiche del pensiero religioso di Bach, quello su cui non intendo attardarmi qui: risulterà però utile esplicitare almeno che per lui (aderente a una tale “chiesa cristiana scientista”) Gesù è un Messia, forse il più eminente di tutti, in quanto è riuscito a destare la propria coscienza umana ai livelli supremi della “consapevolezza cosmica”. Roba new age, si potrà tagliar corto – e forse non se ne avrà ogni torto. La pagina mi è tornata in mente però osservando alcune animate discussioni avvenute sulla nostra pagina social sotto al post riferito all’articolo sull’ultimo libro di un noto porporato italiano – laddove il libro era dedicato appunto a una “Biografia di Gesù secondo i Vangeli”.

Mi è tornata in mente, dicevo, perché – al di là del presupposto antropologico fallace (ma non così isolato) – la domanda pone un tema cruciale anche per ogni cristologia che voglia essere ortodossa: che avrebbe fatto, Gesù, se Jimi Hendrix si fosse improvvisamente materializzato accanto a lui passandogli la sua chitarra? 

Come diceva il vecchio Apollinare… 

Negli ultimi anni è invalso in certi ambienti cristiani (non solo cattolici) l’uso di gridare a un presunto “ritorno dell’arianesimo”: dal fatto che poi di fatto costoro intendano con ciò la riduzione di Gesù Cristo a un semplice uomo si capisce anzitutto che ignorano cosa sia l’arianesimo (tale dottrina non nega affatto la sussistenza in Cristo del Verbo di Dio, ma non ammette che lo stesso Logos sia consustanziale e perciò coeterno al Padre). 

Inesattezze e ignoranze a parte, è sicuramente vero che ha corso da diversi decenni la tendenza – anzitutto nella predicazione e nella catechesi – a descrivere così massicciamente (e così banalmente) l’umanità di Cristo da non lasciar spazio ad altro: risulta a questo punto fatale il disinteresse a un messia tanto sbiadito – a che dovrebbe servire questo Cristo, che non solo non è divino ma in cui anche la sola umanità non sovrasta di netto quella di un buon maestro di morale (tanto più che raramente si parla del peccato umano in connessione con la corruzione della natura tutta e del bisogno di redenzione)? Il messia di Bach, al confronto, giganteggia! Non sarà il Verbo di Dio, ma almeno è così prodigioso nel suo percorrere le nostre stesse strade da accendere irresistibile il desiderio di imitarlo efficacemente (ed è questo il punto – per inciso – su cui la gracile impalcatura bachiana frana: chiunque può constatare come non basti “crederci” e “acquisire piena coscienza” per camminare sull’acqua o attraversare le pareti). 

Se questa grossolana tendenza a “demitizzare” la figura di Gesù ha comunque dei precedenti nella storia delle dottrine cristiane, forse essi vanno cercati più tra gli ebioniti che tra gli ariani. Non sarà male, tuttavia, riservare qualche attenzione anche alla dottrina apollinarista, che germogliò da un pensatore anti-ariano e niceno – anzi, Apollinare di Laodicea era perfino amico di Atanasio! – e proprio nel solco del tema atanasiano sull’“efficacia del Redentore”. «Ario – diceva infatti il Vescovo di Alessandria – mi ruba il Redentore»: intendeva con ciò che se Cristo non fosse stato veramente divino non avrebbe potuto operare la redenzione umana. «Ciò che non è assunto – è l’altro caposaldo di questa cristologia – non è redento», e tanto basta per dire che Cristo doveva avere anche la nostra natura

Che cosa sia, però, e fino a che punto si spinga, la nostra natura, è questione che i dottori ecclesiastici hanno trovato tutt’altro che pacifica: se tutti erano d’accordo, ad esempio, sul fatto che la natura umana non includa di per sé e in senso proprio il peccato, non tutti lo sono sul fatto che l’anima faccia parte della natura umana. Per di più – Simonetti non finiva mai di stupirsene – questa tendenza antropologica e soteriologica avrebbe trovato larga fortuna proprio ad Alessandria, dove a suo tempo Origene invece aveva elaborato un sistema che tanta importanza riservava all’anima umana di Cristo… 

Abbiamo un testo di Apollinare, tanto breve quanto denso, che vale la pena leggere per farsi un’idea di ciò che sarebbe poi stato noto come “apollinarismo”: 

Poiché infetti Paolo dichiara nel modo migliore “nel Dio onnipotente e unico viviamo e ci muoviamo e siamo” (At 17,28), è sufficiente anche solo la sua volontà per mezzo del Logos, che ha preso dimora nella carne, per vivificare e muovere questa, in quanto l’energia divina occupa il posto dell’anima e dell’intelletto umano [corsivo d.R.]. Per questo Giovanni definisce anche dimora (Gv 1,14) la sua venuta dal cielo. Infatti quando dice “il Logos si è fatto carne” (Gv 1,14) non ha aggiunto “e anima” [corsivo d.R.]. È infatti impossibile che due principî intellettivi e volitivi coesistano insieme, così che uno non si opponga all’altro con la propria volontà ed energia. Perciò il Logos non ha assunto anima umana ma soltanto il seme di Abramo [corsivo d.R.]. Infatti il tempio del corpo di Gesù lo ha prefigurato il tempio di Salomone, che era senz’anima, senza intelletto, senza volontà [corsivo d.R.]. 

Apollinare, Frammento “sull’unione” in H. Lietzmann, Apollinaris von Laodicea und seine Schule, Tübingen 1904, 204 

Siamo in pieno quarto secolo, e in un certo senso Apollinare anticipava questioni che sarebbero diventate dominanti nel dibattito teologico un secolo più tardi e che neppure la definizione dogmatica di Calcedonia (451) avrebbe spento: l’imporsi, anzi, del difisismo romano rispetto al monofisismo alessandrino avrebbe rilanciato per i secoli a venire i germi delle questioni del monotelismo e del monoenergismo. Nessuno vuole un messia schizofrenico, certamente, e non solo ad Apollinare sarebbe parso opportuno troncare a monte questa catastrofica eventualità (quella del conflitto tra «due principî intellettivi e volitivi») sostituendo tout court all’anima umana di Cristo la persona del Verbo: Massimo il Confessore avrebbe invece lavorato (e sofferto) tanto per dimostrare che proprio la verità e la pienezza della redenzione si salvaguardano unicamente con la libera uniformazione della volontà di Cristo a quella del Verbo. 

Come si vede, la disputa si sarebbe concentrata, nei secoli, soprattutto sulla volontà di Cristo, lasciando alquanto in penombra il tema dell’intelletto del messia: che cosa sapeva Gesù? E come lo sapeva? E da quando? Un sacerdote è intervenuto nella disputa sui social con una sentenza lapidaria: 

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Il soggetto della conoscenza è la Persona divina che non può contemporaneamente sapere (con la natura divina) e non sapere (con la natura umana). 

Apollinare non l’avrebbe detto meglio, ma la verità è che per la communicatio idiomatum i cristiani riconoscono e confessano 

un solo e medesimo Figlio […], perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, [composto] di anima razionale e del corpo, consustanziale al Padre per la divinità e consustanziale a noi per l’umanità, […] generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità e in questi ultimi tempi per noi e per la nostra salvezza da Maria Vergine e madre di Dio, secondo l’umanità, unico e medesimo Cristo Signore unigenito. 

Definizione dogmatica del Concilio Ecumenico di Calcedonia, 451 

Se ogni natura operasse o subisse secondo le proprie peculiarità senza convergere sempre verso l’unica Persona del Figlio incarnato, sarebbe con ciò dissolta la communicatio idiomatum, il che tornerebbe ad assommare incredibilmente insieme gli errori del monofisismo e quelli del nestorianesimo; forse però il prete intendeva semplicemente dire che le operazioni dell’anima sarebbero sic et simpliciter assunte dal Verbo, ma parlando espressamente di conoscenza egli sembra con ciò escludere la volontà (si esporrebbe altrimenti ad essere troppo facilmente ripreso). Questo “apollinarismo larvato” trapela da altri interventi in cui il prete soppianta la canonica diade aristotelica “intelletto e volontà” con l’endiadi notarile “scienza e coscienza”: la coscienza però non è una potenza dell’anima, e la sua introduzione nel discorso non fa che complicare una materia già non facile (la coscienza la riferiamo infatti alla persona [divina], ma l’anima umana, vera e completa, appartiene alla natura [umana]). L’allarme al nestorianesimo era appunto il marchio di fabbrica degli eutichiani contro cui (oltre che contro i nestoriani) si rivolgeva la definizione calcedonese. 

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Cosa dice il Catechismo… 

Questo che si potrebbe dire “apollinarismo larvato” non è certo (né mai l’è stato) l’invenzione di un prete isolato, bensì la riproposizione costante del tentativo di scongiurare il conflitto nella coscienza di Gesù annientando almeno di fatto la sua anima umana. 

Così intervenendo nella discussione qualche lettore ha riportato l’ultima parte di un post di un noto (e apprezzato) domenicano italiano felicemente dedito al ministero della Parola. 

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Mentre però si deve immediatamente contestare che il Catechismo della Chiesa Cattolica citi, sul punto, quel passaggio della Mystici corporis di Pio XII (sovrapposizione che non opera il Domenicano, ma il Lettore), si deve osservare che la stessa citazione dell’enciclica pacelliana è parziale, a discapito della sua perspicuità. Pio XII ha infatti composto quel punto di due paragrafi: 

Il Figlio Unigenito di Dio, già prima dell’inizio del mondo, con la sua eterna infinita conoscenza e con un amore perpetuo, ci ha stretti a sé. E perché potesse manifestare tale amore in modo ammirabile e del tutto visibile, congiunse a sé la nostra natura nell’unione ipostatica donde avviene che “in Cristo la nostra carne ami noi”, come, con candida semplicità, osserva Massimo di Torino (Serm. XXIX; Migne, PL, LVII, 594). [paragrafo omesso nel blog del Domenicano]

In verità, questa amantissima conoscenza, con la quale il divin Redentore ci ha seguiti sin dal primo istante della sua Incarnazione, supera ogni capacità della mente umana, giacché, per quella visione beatifica di cui godeva sin dal momento in cui fu ricevuto nel seno della Madre divina, egli ha costantemente e perfettamente presenti tutte le membra del corpo mistico e le abbraccia col suo salvifico amore. O ammirabile degnazione della divina pietà verso di noi; o inestimabile ordine dell’immensa carità! Nel presepio, sulla croce, nella gloria eterna del Padre, Cristo ha presenti e congiunte a sé tutti le membra della Chiesa in modo molto più chiaro e più amorevole di quello con cui una madre guarda il suo figlio e se lo stringe al seno, e con cui un uomo conosce ed ama se stesso.

Pio XII,Mystici corporis Christi

Donde consta chiaramente che il soggetto della “amantissima conoscenza” di cui scriveva Pio XII è non la natura umana di Cristo, ma il Figlio Unigenito di Dio considerato «già prima dell’inizio del mondo»: che la seconda Persona della Trinità abbia «eterna infinita conoscenza» e «amore perpetuo» non sarà motivo di stupore per alcuno. Nel secondo paragrafo lo stesso Figlio è chiamato Redentore in quanto considerato a partire dalla sua incarnazione, e poiché – secondo l’efficace espressione di san Leone Magno – «assumendo ciò che era nostro non perse ciò che era suo», evidentemente Egli non perse l’intelletto e la volontà (peraltro condivisi con le altre due Persone): ciò non significa, però, che nell’utero di Maria l’appena creata morula della natura umana di Cristo avesse una precocissima coscienza naturale di sé. 

È falso che una cosa simile sia scritta nel Catechismo e non è vero che l’abbia detta Pio XII, il quale ha piuttosto affermato che – essendo l’incarnazione «condiscendenza della misericordia, non mancanza di potenza» (Leo, Ad Flavianum) – l’anima creata di Cristo fu immediatamente “innestata” nel Verbo che è il Figlio Eterno di Dio. L’anima di Cristo, tuttavia, era in quell’istante un’anima di embrione, verissima e sostanzialmente esistente ma lungi dall’essere pienamente sviluppata tanto quanto erano lungi dalla pienezza dello sviluppo le membra del suo corpo. 

Nel post del blog, in cui il Domenicano risponde alla domanda di un lettore, si rimanda agli articoli 472 e 473 del Catechismo, che vale la pena riportare e leggere con attenzione: 

472 L’anima umana che il Figlio di Dio ha assunto è dotata di una vera conoscenza umana. In quanto tale, essa non poteva di per sé essere illimitata: era esercitata nelle condizioni storiche della sua esistenza nello spazio e nel tempo. Per questo il Figlio di Dio, facendosi uomo, ha potuto accettare di « crescere in sapienza, età e grazia » (Lc 2,52) e anche di doversi informare intorno a ciò che nella condizione umana non si può apprendere che attraverso l’esperienza. 105 Questo era del tutto consono alla realtà del suo volontario umiliarsi nella « condizione di servo » (Fil 2,7).

473 Al tempo stesso, però, questa conoscenza veramente umana del Figlio di Dio esprimeva la vita divina della sua persona. 106 « Il figlio di Dio conosceva ogni cosa; e ciò per il tramite dello stesso uomo che egli aveva assunto; non per la natura (umana), ma per il fatto che essa stessa era unita al Verbo […]. La natura umana, che era unita al Verbo, conosceva ogni cosa, e tutto ciò che è divino lo mostrava in se stesso per la sua maestà ». 107 È, innanzi tutto, il caso della conoscenza intima e immediata che il Figlio di Dio fatto uomo ha del Padre suo. 108 Il Figlio di Dio anche nella sua conoscenza umana mostrava la penetrazione divina che egli aveva dei pensieri segreti del cuore degli uomini. 109

I due articoli sono rispettivamente dedicati alla “conoscenza acquisita” e alla “conoscenza infusa”: dopo aver ribadito che un’anima finita, in quanto creata, «de se illimitata esse non poterat», il CCC spiega (canonizzando proprio le parole di Massimo il Confessore) che il Figlio godette della scienza di tutte le cose (cuncta), a cominciare dalla peculiarissima relazione tra sé e il Padre e dalla cardiognosi. 

I due paragrafi sembrerebbero in sé contraddittorî (perché “tutte le cose” e anche i pensieri degli uomini sono innumerevoli ma finiti, mentre la vita intratrinitaria non lo è), ma il paragrafo del CCC su “l’anima e la conoscenza umana di Cristo” comprende altri due numeri, non citati dal Domenicano e da quanti lo rilanciano: il primo è il 471, che (guarda caso) mette le mani avanti circa l’apollinarismo

471 Apollinare di Laodicea sosteneva che in Cristo il Verbo aveva preso il posto dell’anima o dello spirito. Contro questo errore la Chiesa ha confessato che il Figlio eterno ha assunto anche un’anima razionale umana. 104

E l’anima razionale dev’essere funzionante e funzionale: non la si può tenere lì, formalmente attaccata al Verbo come un’edera (a ben vedere, poi, pure le piante rampicanti crescono…). Il secondo numero è il quarto del paragrafo, il 474, che delimita nella fattispecie l’àmbito proprio della conoscenza di Cristo: 

474 La conoscenza umana di Cristo, per la sua unione alla Sapienza divina nella Persona del Verbo incarnato, fruiva in pienezza della scienza dei disegni eterni che egli era venuto a rivelare. 110 Ciò che in questo campo dice di ignorare, 111 dichiara altrove di non avere la missione di rivelarlo.112

L’anima di Cristo, cioè, era continuamente immersa nella visione beatifica di Dio e dal Verbo veniva illuminata e dilatata incessantemente, così che Egli potesse crescere «in sapienza e in grazia» (cf. Lc 2,52), oltre che in età: ma di cosa si arricchiva, il Figlio incarnato di Dio, in quel tempo di continua crescita? Cristo passava le notti di preghiera esercitandosi a parlare le lingue dei popoli trapassati e futuri? O a studiare clavicembalo e violino elettrico – un po’ a metà fra il tutorial di YouTube e lo spinotto di Matrix? Questo è quel che suggerisce Bach (Richard), a modo suo, ma non ciò che insegna la tradizione cattolica: Cristo «fruiva in pienezza della scienza dei disegni eterni che egli era venuto a rivelare». 

Difatti il CCC non si attarda qui nell’esegesi degli episodî di nescienza di Cristo (cf. Mc 9,21-22), cioè della non-scienza occasionale di fatti intramondani (i quali ovviamente non sfuggivano alla scienza eterna del Verbo, ma che non per questo dovevano riverberarsi sulla conoscenza umana di Cristo), e allude piuttosto sibillinamente alla conoscenza delle “cose ultime”, che in Mc 13,32 Cristo dice di ignorare, mentre in At 1,7 afferma di non essere mandato a rivelare. 

Certa cristologia “fissista-essenzialista”, come paralizzata dal timore di scivolare nell’adozionismo o chissà in che altro, minimizza l’impatto dei misteri di Cristo sulla stessa natura umana di Gesù, laddove fin da principio autori ecclesiastici come Ireneo di Lione (prossimo a essere dichiarato Dottore della Chiesa…) non hanno temuto di dire che essi abbiano inciso perfino nell’immanenza del mistero divino! Ora, questo è tema che qui non possiamo neppure sfiorare, ma davvero vorremo dire che il Battesimo nel Giordano fu una mera parabola scenografica per gli osservatori diretti e per noi? Che la Trasfigurazione ci fu unicamente per confortare quei tre discepoli prediletti che ebbero la ventura di assistervi? E allora di che cosa stava parlando, Cristo, con Mosè e con Elia? Perché parlare, se era tutta una mistica “photo opportunity” con cui rincuorare i discepoli nell’ora della passione? E dovremo credere che nulla cambiò nell’umanità di Cristo al ritorno dagli inferi, quando egli era divenuto tale da poter non essere riconosciuto neppure dai più intimi amici? 

Diatribe fra tomisti 

Leggiamo su un ben più recente post (l’altro era del 2010) del medesimo sito del medesimo Domenicano che 

la coscienza di Gesù […] non si è svegliata poco per volta, come è avvenuto per ognuno di noi. 

Cristo fin dal primo istante del suo concepimento aveva quella perfettissima conoscenza per la quale conosceva individualmente ogni uomo nell’interezza della sua storia. 

E ancora a dire che questa dottrina si troverebbe nel Catechismo della Chiesa Cattolica, laddove così non è. È vero che san Tommaso d’Aquino sembra lasciare di fatto poco spazio alla conoscenza acquisita, ma Tommaso (fatta salva la venerazione per il Doctor Communis) era pure quello che negava l’animazione immediata in generale, figuriamoci se parlasse di visione beatifica nella morula di Cristo. Per Tommaso il Messia, nel “primo istante del suo concepimento” letteralmente non aveva un’anima – come (secondo lui) ogni uomo. E non è uno scandalo ammettere che su questo punto (come su altri) anche l’Angelico si sia sbagliato. Un tomista di ferro come Battista Mondin non ha avuto timore, nella sua Cristologia storica e sistematica, di scrivere: 

I contemporanei fanno una distinzione molto opportuna tra il Cristo storico e il Cristo glorificato e assegnano soltanto al secondo quella conoscenza infusa perfetta ed universale di cui parla Tommaso. Invece al Cristo storico assegnano quel tanto di scienza infusa che è indispensabile per il compimento della sua missione: la conoscenza dell’avvento del Regno e di tutto ciò che occorre per appartenervi. […] Se porta gli uomini alla salvezza, non è necessario | che conosca ciascuno nella sua propria singolarità, nel suo cammino particolare? Non sembra. Il Cristo salva gli uomini assumendo la loro condizione. Non appartiene alla condizione umana sostenere una relazione concreta con ogni uomo. Non è necessario con ciò negare che questo sia il progetto escatologico. Il Cristo accede a questa universalità concreta per la risurrezione. È nella oscurità che Gesù opera la salvezza del mondo. […] 

Restringendo l’orizzonte della scienza infusa a ciò che è strettamente indispensabile a Gesù per il compimento della sua missione salvifica, è possibile dare alla sua scienza acquisita un corso più naturale e più umano assoggettandola a quei limiti storici e culturali che sono propri d’ogni sapere umano.

Battista Mondin, Gesù Cristo salvatore dell’uomo, Bologna 1993, 317-318 passim

Dante, Kazantzakis e Ratzinger 

Dante, Kazantzakis e Ratzinger 

L’era dei social ha fatto esplodere l’insano hobby di dare e revocare patenti di ortodossia, ma quando si studia storia del dogma cristiano bisogna sempre tener presenti due grandi direttrici: 

  • la prima è che (quasi) tutti i protagonisti del dibattito hanno operato (almeno parzialmente) cercando in buona fede di crescere nella loro intelligenza credente, secondo il dono loro affidato e il compito loro richiesto, dunque sarebbe saggio astenersi da giudizi sprezzanti; 
  • la seconda è che anche le migliori sintesi, le definizioni più felici e i dogmi più chiari sono «omnia palea» (“tutta paglia” per restare alla famosa espressione attribuita al san Tommaso morente) in confronto alla visione beatifica che attende i credenti. 

Se questo vale per tutta la rivelazione, in modo sovreminente varrà per quel suo culmine che è il mistero stesso di Cristo, “Regno-in-Persona”. Non a caso lo stesso Dante, che aveva letto Tommaso (e molti altri) fa culminare i cento canti della sua Commedia nella contemplazione dell’uomo-Dio nella rosa dei beati: 

Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio fondelli indice, 

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
limato al cerchio e come vi s’indova. 

Pd XXXIII, 133-138 

Il dogma cattolico sta insomma a quel Mistero eterno come il π sta alla quadratura del cerchio: si possono fare buone approssimazioni della soluzione, ma i numeri trascendenti non sono costruibili e dunque il problema è, rigorosamente, non trattabile. Se non lo si può sciogliere, nondimeno, lo si può contemplare: così fecero Tommaso e Dante, così l’avrebbero fatto tutti i cristiani di tutti i secoli. E il pensiero mi va a quel grande frainteso che fu Nikos Kazantzakis, il quale chiudendo l’Introduzione alla celeberrima (nonché poco e/o mal letta) “Ultima tentazione di Cristo” scrisse: 

Tutto ciò che Cristo aveva di profondamente umano ci aiuta a capirlo, ad amarlo e a seguir la sua Passione come se fosse la nostra. Se in lui non ci fosse il calore di tale elemento umano, non potrebbe mai giungere ai nostri cuori con tanta sicurezza e tenerezza, né potrebbe diventare il modello della nostra vita. 

Lottiamo, lo vediamo lottare come noi e prendiamo coraggio. Capiremo che non siamo soli al mondo e che egli lotta al nostro fianco. 

Nikos Kazantzakis, L’Ultima tentazione di Cristo, Segrate 2012 

Lo scrittore greco fa, è vero, un errore di fondo analogo a quello del suo omologo statunitense: 

Ogni uomo è un uomo-dio, carne e spirito. Ecco perché il mistero di Cristo non è solamente un mistero particolare, ma tocca tutti gli uomini. In ogni uomo si combatte la lotta fra Dio e l’uomo stesso, una lotta inseparabile dal loro ansioso desiderio di riconciliazione. 

Ibid

In questo senso (e solo in questo) è vero che la sua lettura è “laica” (parola abusata e fraintesa come poche), ossia non-dogmatica, ma certo non irreligiosa – anzi. Il difetto dogmatico è certamente importante, in un’opera su Gesù, ma questo rende tanto più eclatante una duplice constatazione che noi, “i dogmatici” e “la Chiesa” dovremmo formulare e accogliere: 

  1. ci sono persone che trovano Cristo più significativo, nei loro svariati riduzionismi, di quanto noi riusciamo a significarlo ed esprimerlo con tanto di panoplia dogmatica in regola; 
  2. e converso, queste persone riescono spesso a mostrare a terze persone ancora un Cristo più interessante di quello che spesso la “propaganda religiosa ecclesiastica” (parole scelte una a una) riesca a produrre. 

Perché? Come si spiega? 

Evitiamo di arroccarci subito nel mantra “si disegnano Gesù secondo le loro voglie!”. Che c’è, d’accordo, ma leggiamo bene queste parole: 

La doppia essenza di Cristo è sempre stata, per me, un mistero profondo e impenetrabile, come l’appassionato desiderio degli uomini, così umano e così sovrumano, di arrivare fino a Dio o, con più esattezza, di ritornare a Dio e di identificarsi con Lui. Questa nostalgia così misteriosa e così reale allo stesso tempo mi infliggeva profonde ferite. 

Ibid

È questo un uomo irreligioso? O ci sembra di poter dire che descriva un’esperienza insignificante agli occhi di Cristo? Eppure cose molto simili la Chiesa le dice di sé nella massima solennità di cui è capace: 

[…] la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino [10]. Per una analogia che non è senza valore, quindi, è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, così in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del corpo (cfr. Ef 4,16) [11].

Concilio Ecumenico Vaticano II, Lumen Gentium

E se si pone come ponte tra Cristo e l’umanità, la Chiesa ha sempre posto l’uomo come ponte tra Dio e il cosmo. Già un secolo fa il Tanquerey scriveva: 

L’uomo è un composto misterioso di corpo e di anima, di materia e di spirito che in lui intimamente si uniscono per formare un’unica natura e un’unica persona. L’uomo dunque è, per così dire, il punto di congiunzione, il vincolo che unisce gli spiriti e i corpi; un compendio delle meraviglie della creazione, un piccolo mondo che concentra tutti i mondi […] e che manifesta la sapienza divina, la quale ha saputo riunire due esseri così disparati. 

Adolphe Tanquerey, Compendio di teologia ascetica e mistica, 45 

Se è vero, dunque, che l’uomo è per sé stesso un mistero ineffabile, più grande dell’intero mistero della natura e come “innestato” nel mistero dell’Essere stesso, la persona di Cristo è per l’uomo un Mistero infinitamente più insondabile e vasto, nel quale davvero chiunque pre-sente di poter esperire più di quanto osi immaginare o sperare. 

Grande paradosso è, nel Paradosso della Rivelazione, che questo unico ed eterno Mediatore paia condividere alcune tra le nostre condizioni più basse: la fame, la sete, il sonno, la fatica, l’ira… e perfino una qualche forma di ignoranza. 

Dunque che avrebbe fatto, Gesù Cristo, se gli avessero passato una chitarra? Rimandiamo in conclusione di questo lungo articolo a una sintesi proposta da Joseph Ratzinger in una nota dal chiarissimo titolo “Perché Gesù non sa tutto se è Dio?”: 

[…] Con l’andar del tempo si sono imposte principalmente due spiegazioni: 

1. Comune a tutte le soluzioni è la nozione, garantita dal dogma, che bisogna distinguere in Cristo il suo sapere umano da quello divino. Cristo non era soltanto il Figlio consustanziale dell’eterno Padre, ma anche perfettamente uomo, a noi consustanziale, che, come hanno definito i dogmi del V e VII secolo, possedeva anche una vera e propria intelligenza umana e una volontà umana, e quindi anche una maniera umana di conoscere le cose. Inoltre è chiaro che l’affermazione di Mt 24,36 si riferisce al sapere umano e non a quello divino di Gesù. Il punto discusso riguarda soltanto come il sapere umano si rapporti in Gesù con quello divino. Al riguardo, la teologia medievale era dell’opinione che i due saperi si compenetravano in modo così stretto, che Gesù anche come uomo partecipava della onniscienza divina. Tuttavia per poter risolvere il problema di Mt 24,36 e altri versetti analoghi si distingueva | tra sapere comunicabile e sapere non comunicabile. Di per sé Gesù, in quanto partecipa del Verbo eterno, ha certamente conosciuto tutta la realtà, ma sarebbe venuto in questo mondo con il compito di una ben definita rivelazione, in cui non rientrava la data dell’ultimo giorno. Di conseguenza, in riferimento al sapere che egli era stato incaricato di comunicare, poteva dire con ragione che esso non ricomprendeva il tempo e l’ora della fine del mondo. Sapere di più non è stato concesso, per così dire, perché non faceva parte del patrimonio della rivelazione divina. 

2. Le spiegazioni moderne si spingono un passo più avanti. Esse dicono che Gesù nella profondità della sua anima umana era sempre immerso nel Verbo divino, con cui costituiva addirittura un’unica persona; però questa unione, che caratterizzava la profondità del suo essere, non riversa tutti i dettagli della onniscienza divina anche nella sua umana consapevolezza; lo faceva soltanto nella misura in cui ciò era necessario perché potesse adempiere al compito della rivelazione. In questo modo diviene possibile ammettere in Gesù un sapere e un crescere autenticamente umano, senza per questo mettere in discussione la sua unità sul piano dell’essere con la seconda persona della Trinità. Il quadro complessivo dei Vangeli, che ci presenta un Gesù così genuinamente umano, diviene così più comprensibile. Secondo questa interpretazione, Gesù poteva dire a buon diritto di non conoscere la data dell’ultimo giorno, pur essendo il “Figlio” dal profondo del suo essere, perché la profondità divina del suo essere non illuminava la sua mente umana su questo punto. […]

Joseph Ratzinger, Perché Gesù non sa tutto se è Dio, in Benedetto XVI • Joseph Ratzinger Opera Omnia 6/2, Gesù di Nazaret. Scritti di cristologia, Città del Vaticano 2015, 627-628 passim 

Insomma, Gesù avrebbe saputo scrivere un programma informatico o parlare russo? Se c’è un rischio, nelle fascinazioni per Gesù come sembra quella di Richard Bach, sta nel fatto che dietro la spettacolare realizzazione di un’umanità perfetta – in Gesù – non si ritrova una via per cui essa possa diventare comune anche a noi. Forse neppure è un problema esclusivo di scrittori come lui. 

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