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Vescovi e cardinali, perché li chiamiamo con i titoli di «eccellenza» e «eminenza»

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Antoine Mekary | ALETEIA

Toscana Oggi - pubblicato il 27/10/21

Perché ci si rivolge a vescovi e cardinali con i titoli di "eccellenza" e "eminenza"? Padre Francesco Romano spiega l'origine storica di questi titoli, e come usarli


Come mai nella Chiesa i cardinali e i vescovi, che più degli altri sono chiamati a servire, vengono nominati come eminenza ed eccellenza? Non sarebbe più opportuno un termine come padre o fratello che li farebbe sentire più vicini alla gente?
Alessandro Salvati

Risponde padre Francesco Romano, docente di Diritto canonico
La titolatura cui fa riferimento la domanda posta dal lettore ha un’antica tradizione e richiama la distinzione dignitaria dovuta a cariche istituzionali o di rango. Un po’ di storia ci aiuta a inquadrare il quesito del lettore e a cogliere il senso di quanto si perpetua sino al giorno d’oggi.

Il titolo di «eccellenza» lo troviamo nel cerimoniale diplomatico riservato agli ambasciatori e ai consoli, ma anche ai capi di Stato e ai ministri nelle cerimonie ufficiali. Per convenzione protocollare molti Paesi hanno introdotto questo trattamento distintivo in ambito giudiziario, militare, religioso e nobiliare.

Secondo l’uso ecclesiastico il titolo di eccellenza è riservato a vescovi e arcivescovi. La Sacra Congregazione del Cerimoniale con il decreto Sanctissimus del 31 dicembre 1930 concesse ai vescovi cattolici di beneficiare del trattamento di «eccellenza reverendissima», confermato con il motu proprio di Pio XII Cleri sanctitati il 2 giugno 1957 per distinguere il titolo ecclesiastico da quello conferito a personalità civili, estendendo lo stesso trattamento anche ai patriarchi benché la Santa Sede continuasse a rivolgersi loro con il titolo di beatitudine.

L’Istruzione emanata dalla Segreteria di Stato il 31 marzo 1969 Ut sive sollicite rese opzionale l’uso dell’aggettivo «reverendissima» conservando il titolo di «eccellenza» anche per il decano del Tribunale della Rota Romana, per il segretario del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica e per il vicecamerlengo.

Il trattamento onorifico riservato ai cardinali della Chiesa cattolica è «sua eminenza reverendissima». In passato i cardinali di nobile estrazione erano chiamati «sua eminenza illustrissima e reverendissima». Lo stesso titolo di riguardo in origine fu tributato a re e imperatori.

Papa Urbano VIII nel concistoro del 10 giugno 1630 pubblicò il decreto con cui accrebbe la preminenza dei cardinali e degli arcivescovi non cardinali di Magonza, Treviri e Colonia, in quanto elettori imperiali del sacro Romano Impero, e del Gran Maestro dell’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme, l’attuale Sovrano Militare Ordine di Malta. A essi dette il titolo di «eminenza» in sostituzione di quello che prima i cardinali avevano di «signoria illustrissima» rimandando al grande prestigio di cui godevano e per questo ancora oggi, se pur di rado, vengono chiamati anche «principi della Chiesa» o «eminentissimi principi». Con questo titolo il Papa volle distinguere i membri del Sacro Collegio da ogni altro gruppo gerarchico nella società e nella Chiesa.

Anche nella Chiesa orientale, sia cattolica che ortodossa, al Patriarca spetta il titolo di «sua beatitudine». Il medesimo trattamento spetta agli arcivescovi maggiori, ai quali in genere è tributato anche il titolo di primate, che sono a capo di una Chiesa sui iuris senza titolo di patriarca. Il titolo di «sua beatitudine» non spetta invece ai patriarchi di rito latino di Venezia, Lisbona e Indie orientali, che hanno trattamento pari a quello di arcivescovo.
Il titolo di «sua santità», oltre a essere attribuito al Romano Pontefice, lo troviamo anche presso i capi di altre religioni come ad esempio il buddismo, lo shintoismo ecc.

La Sacra Congregazione del Cerimoniale fu soppressa da Papa Paolo VI il 29 giugno 1967. Era stata istituita da Papa Sisto V nel 1587 per sovrintendere al decoro del cerimoniale dei cardinali della corte pontificia e all’ordine di precedenza delle varie cariche onorifiche all’interno delle cerimonie pubbliche della Santa Sede, tra prelati, ambasciatori e cavalieri.
La decisione di Paolo VI era il segno di un’epoca di cambiamenti radicali che avanzava e che per questo oltre a salvaguardare il contenuto essenziale del cerimoniale, doveva essere abbandonato ciò che vi era di superfluo o fosse caduto in disuso. Attualmente le competenze della Congregazione del cerimoniale sono state assunte quasi interamente dalla Prefettura della Casa pontificia.

La terminologia che suggerisce il nostro lettore per rivolgersi in privato a un cardinale o a un vescovo non è vietata né sollecitata. Ognuno può avvertire per il proprio vescovo un vincolo di paternità spirituale e spesso, senza mancare di rispetto, c’è chi con sentimenti filiali si indirizza a lui chiamandolo padre anche quando alla dignità episcopale si unisce quella cardinalizia.

I titoli di eminenza o eccellenza sono termini che richiamano alla specifica dignità di cui è investito un cardinale o un vescovo. Il titolo non è un termine superfluo visto come un orpello da superare, ma esprime la «dignità» che promana dalla levatura della carica ricoperta per la quale qualcuno è considerato «degno» nel significato di meritevole.
La dignità cardinalizia è sancita dal Codice di Diritto Canonico (can. 351 §§1 e 3), alla quale il cardinale neppure è in grado di rinunciare senza il consenso del Romano Pontefice (Costituzione apostolica Universi Dominici gregis, n. 36).

Sulla stessa linea, anche per ciò che si riferisce all’episcopato il presbitero viene insignito della dignità propria di questo munus (can. 481 §2).

Come abbiamo visto il trattamento distintivo in ambito giudiziario, militare e nobiliare nasce e si evolve a seconda delle cariche e funzioni operanti all’interno di strutture socialmente organizzate che anche la Chiesa ha conosciuto durante i secoli nella sua realtà religiosa, politica e sociale. Tuttavia, quanto oggi resta come residuato di un complesso e articolato cerimoniale mette in luce che la dignità non ha origine dal titolo, che in definitiva resta solo un termine che serve a esprimerlo, ma da una funzione o da una carica che richiede, oltre alla competenza, anche specifiche qualità e idoneità che contraddistinguono una particolare persona.

Occorre, pertanto, uscire dall’equivoco e distinguere tra stile istituzionale e funzionale del titolo che spetta ai Pastori e il vincolo che scaturisce dalla relazione spirituale e affettiva che ci lega a loro e che ci permette anche di chiamarli e ritenerli veramente «padri».

Qui l’articolo originale di Toscana Oggi

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