Santa Thérèse di Lisieux è un genio spirituale la cui audacia si fonda su una teologia sicurissima. La Chiesa non l’ha forse riconosciuta come uno dei suoi dottori? È alla luce della sua solidità dottrinale che possiamo meditare la sua celebre poesia “Se io avessi commesso…”:
La rivelazione del Sinai ci insegna che Dio è un fuoco che non consuma. A che può servire un fuoco, se non a bruciare? Ora, il mistero di un fuoco che brucia senza consumare non è comprensibile che se vediamo all’opera un Essere che, come un “braciere ardente”, brucia in noi i nostri peccati senza distruggerci. E poiché Dio è infinito in misericordia, quest’ultima sarà sempre superiore all’insieme delle nostre trasgressioni, cosa che sostiene Thérèse nel conservare fiducia malgrado “tutti i crimini possibili”. Benché serissimi, questi ultimi sono come “gocce d’acqua” comparate al braciere della misericordia divina.
Qui la poesia sottintende la divinità di Cristo: quale altro cuore potrebbe non lasciare il credente «né di giorno né di notte», se non quello onnipresente di Dio? Anzi, Dio – che conosce le proprie creature – non è mai disgustato dalle loro debolezze, al contrario vi ravvisa l’occasione di spalancare ancora di più la propria misericordia.
In questa quartina Thérèse sottolinea la realtà dell’Incarnazione: in Gesù, Dio si è fatto pienamente uomo al punto da essere diventato capace di soffrire. Egli resta nondimeno Dio, e dopo essere risorto al terzo giorno non può più morire.
Notiamo che la fraternità di Cristo rispetto a noi risulta esemplata sulla sua capacità di soffrire come noi e con noi. È questa amicizia nella solidarietà che spinge Thérèse a meravigliarsi di un Dio che l’«amasse fino a questo punto».
Thérèse non si fa troppe illusioni sulla giustizia degli uomini. Ad ogni modo non si scoraggia: non cerca in sé stessa la virtù, ma in Gesù. La comunione dei santi significa anzitutto comunione nelle cose sante. Ora, la prima “cosa santa” è Gesù stesso. Quel che è suo è pure, per l’opera della Redenzione, diventato nostro, così come nell’Incarnazione quel che è nostro è diventato suo. Noi gli abbiamo dato una natura mortale e, in cambio, egli ci ha donato la sua santità. In virtù di questo admirabile commercium, tutto a nostro vantaggio, i nostri sacrifici assumono valore quando vengono appuntati sulla Croce.
Questa quartina completa la precedente. La Scrittura afferma che anche gli angeli non sono puri agli occhi di Dio. A fortiori gli uomini! E tuttavia ancora una volta Thérèse «non trema»: «L’amore perfetto esclude il timore» (1Gv 4,18). Effettivamente, perché tremare laddove, per la fede, la nostra virtù non è la nostra ma quella dell’Uomo perfetto, Gesù? In ciascuno di noi il Padre vede il Figlio nel quale «noi ci nascondiamo», secondo le parole della poesia: come potrebbe Egli trattarci altrimenti, allora, che come figlie e figli amatissimi?
Paradossalmente, è la piccola via di Thérèse che ci offre la sicurezza di poter stare senza paura davanti a Dio. Come una bambina, Thérèse si rimette completamente al nostro Padre celeste per arrivare a camminare sulle vette. Anche la sua spiritualità, ancorata in una teologia sicurissima, è liberatrice perché porta a compimento quel che Gesù è venuto a elemosinare su questa terra: la nostra fede e la nostra fiducia. La santa di Lisieux opera una sorta di prodigiosa sintesi dello spirituale e del dottrinale.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]