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Perché preferisco un calice di legno

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Pataradon Luangtongkum | Shutterstock

padre Carlos Padilla - pubblicato il 07/10/21

Credo di assomigliare più al legno che all'oro e all'argento, per il mio peccato, la mia povertà, la mia verità e la mia allegria...

L’oro e l’argento sono più preziosi del legno, o almeno così sembra a prima vista. Il legno si brucia, imputridisce, si rompe più facilmente, si spezza. Non sembra nobile ed eterno come l’oro o l’argento.

Penso che Dio meriti sempre il meglio, ciò che è più prezioso, unico e irripetibile, ciò che è più puro.

E se decido di versare in un calice il Sangue di Cristo, voglio che sia d’oro, o d’argento. O se metto con tenerezza il Suo corpo nella mia patena, non voglio che sia di legno.

Perché mi lascio influenzare dalle apparenze? Perché mi preoccupa tanto quello che gli altri dicono o pensano di me? Cosa mi importa quello che dicono su quello che penso, dico o faccio?

Decido allora di non scegliere né l’oro né l’argento, e opto felice per il legno. Lo vedranno male gli occhi che lo guardano?

L’origine: ulivo di Gerusalemme

Penso al mio calice di legno, con il suo vaso di cristallo trasparente dentro di sé.

Penso alla sua storia passata, alla sua origine in quel legno d’ulivo di Gerusalemme. La sua purezza, la trasparenza del vetro su cui riposa il Sangue di Gesù.

E contemplo la mia patena fatta anch’essa di legno d’ulivo. Quegli ulivi che un giorno hanno visto Gesù piangere sangue e acqua. In mezzo al Suo dolore, in un orto degli ulivi. In una notte di tradimento e di dono di Sé.

Il legno è forse indegno di contenere tutto il pianto di Gesù? Non credo.

Mi appassionano la sua struttura, la sua forma, la sua fermezza. E quella mano che un giorno ha dato forma al legno, lo ha lavorato pensando che sarebbe diventato la culla del Bambino Gesù e avrebbe potuto contenere il Suo sangue, quella presenza che mi dà vita.

Assomiglio più al legno

Credo di assomigliare più al legno che all’oro e all’argento. Come scrive p. Juan Pablo Rovegno, “il legno privo di qualsiasi artificio, della patina e dello stucco, della falsa uniformità perfetta e della superficialità del fulgore”.

Così è il mio sacerdozio, la mia vita, fatta di legno, o di argilla. Di peccato e di povertà. Di verità e di allegria.

Alcuni da lontano si confondono, vedono brillare l’oro o l’argento. Non vedono che è legno, solo argilla.

Guardo con verità e gioia il mio calice di legno, e verso la speranza in quel recipiente che pretende di contenere Dio, di trattenerlo tra gli uomini come un grande tesoro in un vaso d’argilla. Aggiunge p. Rovegno:

“Il nostro sacerdozio… più altare del sacrificio e dell’offerta che marmo freddo o duro cemento. Tavola condivisa e diversa, più che asimmetria e distanziamento. Più cuore e realtà che volontà e cervello”.

Scelgo quel legno gettato sul cammino per forgiare il mio sacerdozio. Scelgo quel tronco tagliato e vecchio, disprezzato dagli uomini.

Un destino inaspettato

Guardo quel ramo che è impossibile pensare che si possa trasformare in calice o in patena. La mia vita è così.

Nessuno poteva pensarlo, salvo Dio che un giorno si è concentrato sui miei passi goffi. E penso che potrei ospitare il Suo sogno impossibile nelle mie viscere strette e chiuse. E potrei disegnare con le mie mani tremanti il Suo volto sulla sabbia della mia spiaggia.

Passano gli anni e la mia vita serve da alveo, da pozzo, da specchio. Riflesso di una luce che non è mia.

Portatore di un’acqua che non mi appartiene. Salvatore degli uomini quando io stesso non sono capace di salvare neanche me stesso.

Trattenere il cielo sulla terra

Sì, scelgo il legno piuttosto che l’oro perché mi ricorda la mia vita fatta di mistero e di solitudine, di cadute e di sogni, di speranza e di mani che sostengono il mio debole andare.

Il mio legno forgiato col passare degli anni, ripetendo il mio “Sì” dalla sera all’alba. E sogno, con molta forza, dal profondo, il cielo sulla terra.

Sogno quella capacità perduta di trattenere il cielo nelle mie mani di argilla, e di contenere le stelle nel vetro della mia miseria.

Sento quel canto che sgorga dalla mia gola spezzata e diventa dolce melodia messa a tacere nelle notti senza stelle.

Dico di sì al sacerdozio, e so che oggi continua ad essere un affanno smisurato, una pretesa vana, un’audacia in mezzo a un mondo che non considera reale quell’opzione. Questo mondo in cui la terra e l’argilla sono troppo visibili.

Scelgo il sacerdozio di legno

E ascolto il battito tanto forte da spegnere qualsiasi altro grido che nasce dal silenzio.

Scelgo di essere sacerdote e sembra una temerarietà imprudente, un salto nel vuoto che fa sì che non valga la pena di provare di nuovo.

Chi può salvarmi se non c’è una rete che mi sostegna nella caduta?

Torno a scegliere il legno per il mio calice, per la mia patena, e sostengo la mano che li lavora e dà loro forma.

Sento nelle mie viscere il dolore di essere intagliato. Eliminando ciò che è di troppo, quello che non è necessario, perché ci sia spazio per il mare del Sangue di Cristo nella mia stretta fenditura di carne, di vita.

Torno a scegliere la vita, l’amore, la fraternità, la famiglia, scegliendo di seguire i passi del Maestro, del mio amico.

Scelgo il sacerdozio di legno affondando nelle acque violente che minacciano di farmi affondare per sempre.

Un “Sì” che porta a galla

La barca della mia vita oscilla tra tante onde, e i miei piedi fanno qualche passo e poi affondano. Desidero una mano salda che mi tiri fuori dall’acqua e mi salvi.

Accarezzo il mio calice di legno. La mia patena di legno incrinata col passare del tempo, della vita.

Sbocciano i sogni che riverso nella terra feconda, perché diano frutto senza sapere bene come sarà il futuro. Non ho paura.

Risuona per sempre nella mia anima come un grido la voce di quel Dio che mi chiama, che mi ama. Sì, un sì per sempre lavorato dalle mie mani che sostengono la vita.

Vedo la stella più luminosa in mezzo alla notte, il cielo limpido. C’è speranza nella mia vita, nel “Sì” che pronuncio nuovamente.

Speranza nell’imperfezione

C’è vita in quel povero legno, al di là dell’oro e dell’argento. Nella mia imperfezione, al di là della perfezione che un giorno altri sognavano per me, o io stesso desideravo inutilmente.

Sono fatto di argilla, sono calice di legno, sono naufrago nel mare della mia speranza, affondando per la paura i piedi nell’acqua agitata.

Anelo a toccare un giorno il cielo. È quello che sogno, debolmente mentre una mano salda del mio amico Gesù sostiene i miei passi che vacillano e cadono per inerzia, goffamente.

E poi si rialzano rendendo grazie, lodando. La mia vita è un mistero. Lo dico a Gesù che mi conosce.

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