La regista è donna, il film, tratto da un libro del 2014 di Annie Ernaux (..) di cui mantiene anche il titolo, è su un tema che la regista ci fa sapere essere da troppo tempo condannato al silenzio: l'aborto.
Detta così sa tanto di empowerment femminile in recupero crediti; o di un altro voucher da spendere al discount della parità di genere. Ma come, di nuovo sull'aborto e sulla donna che sembra libera solo se e quando riesce a sgravarsi anzitempo di un figlio in gestazione?
E non è nemmeno un film sull'aborto in senso stretto, spiega tra i sorrisi e le lacrime levando il premio in alto, Audrey Diwan.
E che cos'è, dunque, e perché merita il premio come miglior film, il più prestigioso?
Ecco, per prima cosa non sono in pochi a dire che, appunto, non se lo merita. Tra i favoriti spiccava l'ultima opera di Paolo Sorrentino che, proprio passando per la morte dei suoi genitori e la "mano di Dio", con e senza virgolette, ha potuto intonare un intenso, commovente inno alla vita.
Come osserva Mario Adinolfi il premio alla regista franco-libanese paga pegno al sempre più asfissiante e grottesco politically correct e ad uno dei suoi principali argomenti-dogma: la parità di genere in combinata con il diritto all'aborto.
Ora, forse siamo talmente abituati a sentire questa espressione che quasi non ci accorgiamo più dello shock che comporta: la soppressione di un essere umano in formazione non solo non è condannata ma è promossa e nobilitata fino al rango di diritto inalienabile.
Ecco cosa sa fare il linguaggio quando lo si usa a lungo, diffusamente, concordemente per distorcere la realtà: che la distorce. Ma quella, imperterrita, continuerà a riemergere caricata della pressione accumulata per essere stata trattenuta e taciuta.
Il fatto che il premio sia stato consegnato in ossequio al pensiero dominante e ai suoi emissari spicca ancor di più per la scarsa qualità registica, i salti narrativi e l'enfasi trionfale sulla conquista delle leggi abortiste.
Davvero la vogliamo fare così la battaglia per la libertà femminile? Fino ad ora la libertà della donna è stata tradotta sempre e solo come una liberazione. E da cosa? Dal "peso" della maternità e di tutto ciò che ne consegue: casa, fedeltà coniugale, figli, distanza dal mercato del lavoro.
Anche la protagonista è libera quando si libera. Così può tornare agli studi, alle amiche, al resto, più disillusa e triste, certo.
Anne compie questo "viaggio" attraverso il proprio corpo, commenta la regista, al punto che Anamaria non è solo un'attrice, le griderà dal palco con il Leone levato in su, ma essa stessa il film; in esso vive i cambiamenti che la gravidanza comporta e più quelli si manifestano più diventa determinata la volontà di interromperla.
Il corpo è protagonista, dice; il corpo è della donna e di esso Anne vuole disporre; ciò che la rammarica e le causa sofferenza è il fatto di ritrovarsi sola e di doverlo affrontare clandestinamente, questo benedetto, maledetto aborto.
Il tema, posto malissimo come solo uno stanco manicheismo camuffato di modernità può fare, è ancora quello del corpo concepito come oggetto di cui disporre; e come dispone del proprio così, di fatto, la donna, dotata da questa molesta particolarità, deve poter disporre di quello del figlio.
Il titolo in francese è L'evenement; della scelta dell'autrice del libro, soprattutto, mi hanno colpito due cose: la forte, evidente assonanza del termine con l'altro evento che secondo la Diwan troppo si tace: in francese si dice avortement.
Ma i titoli a volte girano intorno alla verità come squali a una preda già sanguinante. L'avvenimento è l'aborto, e sia, e forse persino le leggi che lo renderanno legale e "sicuro" ; ma di più lo è un figlio.
Le dodici settimane, così sarà la versione in italiano del film che sarà nelle sale a ottobre (possiamo resistere anche più a lungo a dire il vero), non sono solo una clessidra che si va svuotando e prima che lo faccia occorre trovare un medico che si presti a compiere l'intervento; sono anche un ventre abitato che si dilata, si ammorbidisce, richiama sangue e nutrienti, pretende ossigeno, ferro, calcio perché ha qualcosa, anzi qualcuno da fare.
Ora mi rendo ben conto che, non avendo letto il libro né ancora visto il film le mie considerazioni restano appoggiate a dati molto scarni. Ma ce n'è uno, notevole, che non si può negare e che riguarda più l'autrice del libro che quella del film: ha deciso di parlarne anzi di scriverne -scripta manent - dopo decenni e dopo che tutto l'occidente ha reso l'aborto praticabile praticamente sempre.
Tutto sembra ruotare proprio intorno a quell'evento, doloroso. Perché? Non c'entrerà col fatto che, quando si perde un bambino per un aborto, sia esso spontaneo o volontario, ciò che si teme come madri è l'oblio della sua esistenza, la negazione da parte del mondo della sua realtà?
La regista ci assicurava che il suo non è un film sull'aborto ma sulla libertà delle donne.
Ma non siamo stufe di questa versione dei fatti? Davvero siamo libere se nessuno e niente si interpone tra una gravidanza indesiderata e il suo porvi fine chimicamente o chirurgicamente?
La protagonista, Anne, decide e resta inamovibile sulla decisione presa: devo abortire. L'escalation, se ci sarà nel film, è tutta per i tempi che si fanno stretti, per la vita normale e le sue possibilità che la giovane sa le verrebbero tolte; per la maternità come stato di vita che incombe su di lei e che non vuole associare alla sua storia. Per il sesso che non potrà più praticare come prima e che vuole invece godersi, come fanno gli uomini. Per gli uomini che spariscono.
Ancora queste cose, ancora le stesse. E commentate come si sarebbe fatto decenni fa: l'aborto è taciuto, bisogna parlarne.
Ma se se ne parla in ogni occasione, se ci sono le giornate mondiali per quello sicuro, le campagne internazionali, gli Osanna che si levano da tutti i cori. Ci sono persino i TikTok. Questo tema, invece, è sempre accompagnato e preannunciato da un ormai insostenibile piagnisteo di vittime di professione che impongono di continuo il tema al dibattito (magari ci fosse vero dibattito) pubblico.
Magari ci fosse silenzio autentico intorno alla vita del concepito, e alla fatica immane di ogni gravidanza; un silenzio che fa spazio e si dà il tempo di riconoscere una verità che ci è vicina e che continuiamo a negare. Silenzio vero e non l'omertà che anche questo film sembra di nuovo rinfacciare alla società moderna come non fosse ancora abbastanza permissiva sulla pratica dell'aborto.
Andava bene, come lettura, forse ai tempi dell'evento-aborto che è raccontato nel libro, il 1964.
Ma quel libro e il fatto che sia uscito nel 2014, ovvero 50 anni dopo quel fatto a me fa pensare una cosa sola: che la signora, l'autrice, abbia mascherato, sotto il solo linguaggio che ha imparato da mezzo secolo in qua, un fatto che non la lascia in pace, di cui esige sia riconosciuta la verità storica. E non ce l'ha tanto, io credo, con i rischi dell'aborto clandestino che lei e altre hanno subito; non ce l'ha davvero con la fatica che le è costata liberarsi di quel bambino. Ma col fatto che nemmeno ora, che è in menopausa da almeno 20 anni, riesca a dimenticarsene.
Ecco a cosa si attaglia perfettamente il termine evento: non tanto all'aborto a cui ammicca almeno coi suoni, ma all'inizio di una vita tutta nuova, di un bambino, una persona di una persona che mai aveva fatto capolino sulla terra e che non potrà mai più ripresentarsi.
Un bambino è l'evento, la persona è avvenimento per definizione.
Io non ci credo che una donna non lo sappia, o non lo scopra, prima o poi. Soprattutto se ha speso gioventù e maturità in battaglie che, a ridosso dei capitoli finali della propria vita, le viene il sospetto siano state una perdita di tempo.
Cosa resta, cosa sarebbe potuto restare dopo una vita di progetti, studi, carriere, conquiste, sesso libero? cosa rimarrebbe più dell'aver messo al mondo un figlio?
A lei invece resta il fatto che lo ha tolto.
Lo stesso vale anche per la regista (mediocre, mi dicono), che lo racconta con compunzione e gratitudine perché lei ha potuto compierlo in un ambulatorio ospedaliero, lettino pulito, strumenti sterilizzati, rifiuti speciali per il feto estratto, sorrisi di qualche infermiera, forse.
L'aborto sarebbe il viaggio che una donna compie, come chiosa Audrey nel suo discorso di premiazione? E da dove parte e che destinazione ha? E il bambino ancora in formazione ma non deforme che sa di essersi fatta resecare dalle pareti interne del proprio utero, che viaggio ha compiuto? dal liquido amniotico alle garze e con quelle in un bidone.
Che viaggio è mai quello?
E ora che le parole sono state usate per nascondere e invece rivelano che si fa?
Ora che state dicendo che il corpo della donna reclama diritti, spazio, voce politica, cosa facciamo: riusciamo o no a dire che proprio nei nostri corpi femminili che non sono cose, è scritto qualcosa di decisivo per la persona tutta?