Aleteia logoAleteia logoAleteia
giovedì 25 Aprile |
Aleteia logo
Approfondimenti
separateurCreated with Sketch.

Laicità, la Cassazione contro il professore: gli dia sollievo la Chiesa!

WEB3-HAND-CROSS-CRUCIFIX-WOOD-Oleg-Golovnev-Shutterstock_485229292

Oleg Golovnev/Shutterstock

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 10/09/21

È forse al termine, con la sentenza di Cassazione, la ventennale disputa sul Crocifisso negli spazi pubblici. Ma al tormentato prof. Coppoli chi pensa?

Sembrerebbe paradossale auspicare che al Crocifisso giunga da una sentenza un “eterno riposo” – se non altro perché fu per una (iniqua) sentenza che fu crocifisso “l’uomo giusto”… – ma questo è pure quanto ci si sente di dover commentare dopo che finalmente – la notizia era attesa da luglio –, è arrivata la sentenza virtualmente passibile di mettere “una pietra sopra” all’ormai più-che-ventennale dibattito “crocifisso-sì – crocifisso-no”. 

Il caso e la sentenza definitiva 

Ieri in mattinata infatti è giunta la sentenza di Cassazione a Sezioni Unite sul ricorso del bizzarro professore che a ogni lezione, entrando in aula, staccava il crocifisso dalla parete: l’assemblea di classe aveva richiesto al dirigente scolastico, dopo mozione votata a maggioranza, di richiamare il docente Franco Coppoli; il preside aveva più volte informalmente richiamato l’insegnante, ma tanto inutilmente da vedersi costretto (il 16 febbraio 2009) a irrogare contro il professore – il quale nel frattempo si distingueva per frasario colorito all’indirizzo del superiore – una sospensione di un mese.

L’inquieto docente si rivolgeva allora al tribunale di Perugia e, vedendosi dare torto, faceva ricorso alla Corte d’Appello territoriale (sempre a Perugia) perché venisse tutelato il “principio di laicità”, e di nuovo è stato respinto. Nella sentenza è confluita la giurisprudenza derivata dalla sentenza CEDU del 18 marzo 2011 che esaltava le ineliminabili correlazioni fra potere politico e potere religioso, nonché quella del Consiglio di Stato (C.d.S. II parere n. 63/1988; C.d.S. VI n. 556/2006).

Il 18 settembre 2020, però, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha pubblicato l’ordinanza del precedente 22 luglio in cui si sollecitava il pronunciamento delle Sezioni Unite, in qualche modo offrendo un appiglio per una sentenza contraria. Si legge infatti nell’ordinanza (al § 12.2):

[…] sebbene la fattispecie che qui viene in rilievo non sia sovrapponibile a quella esaminata dal giudice eurounitario, tuttavia si potrebbe sostenere che l’esposizione del crocifisso, sempre che alla stessa si ricolleghi il particolare significato di cui si è discusso nei punti che precedono, pone il docente non credente o aderente ad un credo religioso diverso da quello cattolico, in una situazione di svantaggio rispetto all’insegnante che a quel credo aderisce, perché solo il primo si vede costretto a svolgere l’attività di insegnamento in nome di valori non condivisi, con conseguente lesione di quella libertà di coscienza che il datore di lavoro è tenuto a salvaguardare ogniqualvolta la prestazione possa essere utilmente resa con modalità diverse, che quella libertà garantiscano.

[…] 

La laicità è anzitutto “un problema dello Stato” 

Bisognerebbe che emergesse chiaramente una verità di fondo: questa annosa diatriba non è un braccio di ferro fra Stato e Chiesa, bensì un bilanciamento dell’autocoscienza della sola società civile. E ciò fin dal principio! 

Una svolta effettivamente impressa “da Costantino” 

Se infatti fin dai primi secoli dell’era cristiana si attesta la venerazione della croce – soprattutto tra le comunità giudaico-cristiane di tendenza “quartodecimana” (che cioè celebravano la pasqua cristiana in coincidenza con quella giudaica) –, fu soltanto col quarto secolo che si ebbe la svolta per la quale il segno d’ignominia divenne pubblicamente simbolo di trionfo. Chi scrive è solitamente restio a parlare di “svolta costantiniana” in termini di forte rottura, perché confortato da solidi studî circa la continuità essenziale della fede cristiana, però in questo specifico frangente (laddove si parla più di usi e di effetti che di fede) è effettivamente dato osservare una netta discontinuità, e ciò almeno in due sensi: 

  1. da una parte il succitato uso quartodecimano veniva esplicitamente contrastato, soprattutto con provvedimenti canonici del primo concilio di Nicea (325); 
  2. dall’altra i non molto posteriori “scavi archeologici” (che la letteratura attribuisce a Costantino ed Elena – ma l’archeologia porrebbe qualche problema…) imposero rapidamente nella “koinè simbolica” dell’Impero la croce cristiana come “signum victoriæ”, e dunque essa divenne presto la “crux invicta”. 

Sì, è vero che a Palmira, a Dura Europos e a Medula si rinvengono monumenti cultuali del II e III secolo recanti croci, ma nei cimiteri occidentali non sono mai state trovate croci antecedenti all’età costantiniana: e per quanto riguarda le rappresentazioni del Crocifisso (ossia del Cristo rappresentato sul patibolo), se si eccettua il celeberrimo graffito del Palatino (che però vale semmai “al contrario”, essendo evidentemente denigratorio) non si hanno esempi superstiti fino alla prima metà del V secolo, e più o meno a quegli anni sembra risalire anche il famoso portale di Santa Sabina. Ma si tratta di una chiesa, benché le domus ecclesiæ si fossero trasferite nei sontuosi palazzi regali (detti appunto, grecamente, “basilicæ”): è spazio pubblico solo iuxta modum, e comunque siamo appunto a un secolo dalla svolta – stavolta è il caso di dirlo, e con piena avvertenza – costantiniana. 

Non è che “la Chiesa perde potere”…

Cosa si vuole dire con questo? Semplicemente che le interminabili vicende giudiziarie che negli ultimi decenni hanno animato dibattiti pubblici non raccontano tanto di una Chiesa cattolica che perderebbe presa sul “braccio secolare” di una volta, quanto piuttosto di un potere politico in crisi d’identità: non furono certo i papi a ordinare a re e imperatori di puntellare di croci le loro corone, le loro spade e i loro stemmi… Furono invece questi ultimi ad appuntarsele ovunque: lo fecero per devozione o per opportunismo? Per mutuare dal potere religioso un po’ del suo prestigio sacrale o per usurparlo? Evidentemente non si può dare una risposta univoca e generale a queste domande. Sta di fatto però che il “rapporto del potere con la croce” (spesso confuso e morboso) è in principio un’iniziativa autonoma del potere secolare. 

Una sicura riprova di questa ricostruzione storica si trova nella natura delle argomentazioni addotte – fino a questa sera stessa – dalla giurisprudenza laica in difesa della croce: 

  • il crocifisso (sempre più tendono a scriverlo con la minuscola) è simbolo di valori non solo religiosi ma culturali; 
  • la laicità (della/nella Repubblica italiana) è piuttosto uguale disponibilità verso le fedi che uguale ostilità riguardo alle stesse. 

Vengono rigirate in innumerevoli declinazioni e con altrettante sfumature, ma tutte le argomentazioni non sembrano poter fare a meno di rifarsi a questi due concetti: l’entità del crocifisso e quella dello stato. Ovviamente la cosa pone problema solo dal momento in cui è lo stato a dichiararsi laico, perché altrimenti nessuno troverebbe alcunché da obiettare: il che però non significa che nessuno potrebbe avere alcunché da obiettare… 

…ma è lo Stato a vivere una “crisi adolescenziale” 

Se infatti la Chiesa cattolica non fosse per sua natura missionaria, e se dunque non vedesse di buon grado “l’esportazione” della propria simbolica (il che comporta, per inciso, una più o meno effettiva espansione del suo raggio d’azione), avrebbe certamente il diritto di impugnare come abusivo l’utilizzo, da parte di terzi soggetti, delle “proprie cose”. 

In altre parole, poiché lo Stato si definisce laico esso si sente in dovere di giustificare – a fronte della professata laicità – il suo uso di simboli religiosi; se invece lo Stato si definisse confessionale sarebbe la Chiesa a poter chiedere a che titolo esso s’impossessi di una simbolica estranea alla sua natura e ai suoi fini. Essa non lo fa solo perché nella propria natura e nei propri fini sono esplicitamente inclusi l’apostolato e la missione, e dunque l’estensione del proprio linguaggio – fatto anche, come ogni linguaggio umano, di segni e simboli. 

Chiaramente la Chiesa non può guardare con disinteresse agli effetti collaterali del processo di secolarizzazione, ma lo farebbe – se non avesse i suddetti obblighi di evangelizzazione – semplicemente come chi vedesse qualcuno rigettare i beni di cui si era precedentemente appropriato: «Mi avevi preso delle cose mie – in parole povere – e ora non le vuoi più. Ne prendo atto». 

Come avviene questo processo? In modo né graduale né lineare né omogeneo: la laicità è una cosa in Francia, un’altra in Germania, un’altra in Italia, e un’altra ancora negli Stati Uniti (e a chi scrive è capitato di parlare a Tunisi con degli autoctoni di un’ex colonia francese che neppure conoscevano il vocabolo “laïcité”).

Al netto della sentenza delle Sezioni Unite, inoltre, bisogna sfatare un luogo comune; si pensa che di queste cose si sia discusso solo in Europa, contando la sensibilità francese per la laïcité e l’ormai vetusta sentenza della Corte costituzionale tedesca del 1995, e si continui a discutere solo in Italia, per motivi storici. Non è così: il monumentale libro di Stefano Testa Bappenheim dedicato a questo argomento, uscito nel 2019 (“I simboli religiosi nello spazio pubblico. Profili comparati”, Editoriale scientifica, Napoli), ha documentato che di questo tema si è discusso in tutto il mondo, dal Canada, al Brasile col Cristo del Corcovado, agli Stati Uniti con i loro monumenti (ultime sentenze della Corte Suprema, la Salazar Buono e la American Legion), e si sta tuttora discutendo dinanzi alle Supreme Magistrature, in Brasile ed in Germania.

In Italia l’ultimo episodio della saga, sul piano politico, è stato il passaggio del discorso di Mario Draghi a Palazzo Madama – il 23 giugno scorso – in cui il premier disse: 

Cito una sentenza della Corte Costituzionale: «La laicità non è indifferenza dello Stato rispetto al fenomeno religioso, è tutela del pluralismo e della diversità».

Con ciò il presidente del Consiglio non esprimeva una tautologica ovvietà, ma confermava una particolare giurisprudenza ed esprimeva una precisa e nient’affatto scontata opzione politica: sono parole, quelle, che a certi teo-con saranno sembrate “troppo poco” ma che indubbiamente a non pochi laicisti sono parse assolutamente troppo. Chiosava infatti la prof.ssa D’Arienzo su Il Foglio

[…] sembra opportuno sottolineare come la invocata “rimozione temporanea” del crocefisso da parte del docente in conformità al proprio convincimento (ateo) in materia religiosa costituisca il nuovo banco di prova, dal punto di vista giuridico, della effettiva tutela del pluralismo dei valori nella scuola pubblica. In tal senso, anche la parete bianca e priva di ogni simbolo religioso sembra esprimere una neutralità solo apparente e delinea un modello probabilmente estraneo alla declinazione italiana del principio di laicità, volto a garantire la libertà di tutte le coscienze in materia religiosa. 

Maria D’Arienzo, in AA.VV., I limiti dello Stato laico, in Il Foglio del 6 luglio 2021, p. III

Dove c’è bisogno delle cure della Chiesa 

Si tratta di un trapasso epocale, sul piano del diritto pubblico (e dunque anche di quello ecclesiastico), e chiaramente miriadi di ecclesiastici stanno ponendo e porranno al caso la massima attenzione: la cura più squisitamente ecclesiale, tuttavia, sembrerebbe doversi orientare altrove, ossia anzitutto a quegli individui che più spiccatamente di altri manifestino forte disagio con la semiotica ecclesiale. 

Insomma, la Chiesa – nel suo mistero più intimo, che vive in ogni bravo cristiano – dovrebbe sentirsi stringere il cuore non al pensiero di star perdendo influenza nella società (sciocchezze che nel suo respiro millenario e di fronte all’eternità lasciano il tempo che trovano), bensì al pensiero di quel professore così visceralmente angosciato dal segno di Cristo da rigettarlo con tanta ostinazione. 

Ed era in realtà un topos di quella che una volta si chiamava “sacra eloquentia” (cioè la disciplina retorica finalizzata alla vita ecclesiastica): che i pastori si dessero come misura del proprio zelo per “salvare le anime” il medesimo ardore manifestato da quelle stesse anime per la propria perdizione. 

Questo è il compito proprio della Chiesa, e se essa non protesta riguardo all’uso dei simboli religiosi è proprio perché da consumatissima esperienza è acclarato che nessuno andrà a fare per lei “il lavoro sporco”. Attendendo la sentenza il 12 luglio il prof. Sandulli, appunto pronunciando la sua “apologia del crocifisso”, osservava sornione “contro” il professore all’origine della causa: 

[…] un lavoratore che pronuncia «frasi irriguardosi nei confronti del dirigente scolastico», ancorché non contestate […] evidenzia una personalità morale che non sembra bisognosa di particolari misure di tutela. 

Pasquale Sandulli, in AA.VV., I limiti dello Stato laico, cit., ibid.

Qualche bravo prete, insomma, dovrebbe andare a cercare questo professore dal cuore tormentato e certamente ferito… non per “convertirlo” bensì per dargli sollievo. Tutta la Chiesa, però, è chiamata ad accostarsi a questo mondo adolescente per capire come mai esso serbi tanto rancore verso Chi, protesta, non gli interessa e non lo riguarda: in realtà «Egli non toglie nulla, e dona tutto» (Benedetto XVI, Omelia per la Messa di inizio pontificato). 

Tags:
cristiani perseguitaticrocifissodiritto
Top 10
See More