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«Siamo servi inutili», ecco perché il Vangelo ci chiede di definirci così

JESUS HEALS DEAF AND STAMMERING

Philip De Vere | CC BY-SA 3.0

Toscana Oggi - pubblicato il 07/09/21

Gesù ci invita a fare il nostro dovere dicendo «Siamo servi inutili». Un invito a mettersi al servizio, senza pretendere ricompense, sapendo di non essere indispensabili.

Nel Vangelo di Luca troviamo la parabola narrata da Gesù ai suoi discepoli sul servo che lavora nei campi, al quale al suo ritorno viene chiesto anche di preparare e servire da mangiare. Alla fine della parabola Gesù ammonisce i suoi discepoli a fare quello che viene chiesto loro ma dicendo «Siamo servi inutili». Cosa intendeva dire Gesù?
Marco Giraldi

Risponde don Francesco Carensi, docente di Sacra Scrittura
Questo testo del Vangelo non lascia indifferente l’uomo moderno. Si parla di padrone e servo. E fin qui niente di nuovo. Ma ciò che può scandalizzare è il fatto che il padrone è Dio che si comporta come certi padroni incontentabili (tali erano al tempo di Cristo e non soltanto allora), che sempre chiedono e pretendono e non danno un attimo di pace ai loro servitori. Ma è proprio questo il senso della parabola di Gesù? Il Vangelo ci racconta che Dio è tutto l’opposto di quel padrone.

Gesù rivela il volto di Dio come colui che è venuto non per essere servito ma per servire: la sua vita è paragonabile al cameriere che sta in piedi e serve, non al padrone che siede a tavola (Lc. 22,27). La parabola non vuole descrivere l’atteggiamento di Dio verso l’uomo, bensì indicarci l’atteggiamento dell’uomo verso Dio. È necessario capire il versetto 10: «Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare».

Questa è la traduzione della Cei. Cosa significa l’aggettivo inutile? La parola greca tradotta con inutili è acreioi. Cosa vuol dire? Significa inutile, inutilizzabile, buono a nulla, senza valore. Ora la domanda è questa: se lo schiavo è utile al padrone nel compiere il proprio dovere, non è forse esagerato trarre come conclusione, come morale della parabola, l’affermazione della nostra inutilità? Luca insiste sulle mediazioni tra Dio e gli uomini, e sul fatto che Dio non abbia bisogno degli uomini. Si può pensare secondo alcuni esegeti che questo versetto sia da riferirsi al materiale proprio di Luca ossia, a un materiale successivo più vicino alla Chiesa alla quale Luca indirizza il Vangelo che alla formulazione originaria della parabola di Gesù. Quindi un versetto aggiunto dopo, che riflette i problemi all’ interno della Chiesa di Luca. Per l’evangelista questa parabola riaccolta e riletta alla luce della Chiesa alla quale destinava il Vangelo, ha un secondo senso e si riferisce a realtà ecclesiali. Il termine servo, doulos, può indicare un ministro della Chiesa, e i verbi servire e pascere, fanno pensare a servizi dentro la Chiesa, come mangiare e bere fanno pensare all’eucarestia.

Il verbo «arare» fa riferimento all’annuncio della parola di Dio e il temine «campo» al mondo, sul quale la Chiesa è chiamata a gettare il seme. Dunque è la missione della Chiesa. Luca si aspetta dai ministri della Chiesa che svolgano la loro missione con zelo e fedeltà, senza attendersi qualche lode o ricompensa particolare. Dio ha bisogno di uomini e donne a svolgere un ministero nella Chiesa, ma reputa inutili quelli che si sentono indispensabili. Ciò che conta è l’azione al servizio di Dio e nella comunità. E per ogni persona che ha un ministero all’interno della comunità il modello da seguire è il servizio di Cristo.
Non si può stare al servizio del Vangelo con lo spirito del salariato: tanto lavoro e tanta paga. Non siamo legati a Dio da un contratto, per cui ogni nostra azione è una prestazione che pretende un corrispettivo, che può essere non solo economico, ma gratificazione, potere, carriera, risultati ottenuti. Mi viene in mente San Paolo, in 1 Cor 9, 18: «Quale è dunque la mia ricompensa? Quella di predicare gratuitamente il Vangelo senza usare del diritto conferitomi dal vangelo».

Dunque si tratta semplicemente di mettersi al servizio, sapendo di non essere indispensabili.

Qui l’articolo originale pubblicato su Toscana Oggi

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