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Se insulti sui Social, questo articolo fa per te

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Emiliano Fumaneri - pubblicato il 25/08/21
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Se avessi la bacchetta magica per poter eliminare una pratica dai social, la prima candidata all'oblio sarebbe senz'altro quella dell'insulto, il lato oscuro del linguaggio che in rete appare ormai onnipresente.

Certo, gli esseri umani si sono sempre insultati e Freud aveva le sue ragioni a dire che «il primo umano che scagliò un insulto al posto di una pietra fu il fondatore della civiltà». L’insulto, come scrive il letterato cinese Liang Shiqiu (1903-1987), nasce come «nobile arte» marziale che educa a contenere e ritualizzare l’istinto di aggressività.

In questo senso l’insulto appare una tipica espressione della capacità umana di simbolizzazione che, indirizzandosi verso sostituti sempre più astratti, risparmia la distruzione della vita umana.

Ma se diamo ascolto a un altro pensatore orientale, il coreano (trapiantato in Germania) Byung-Chul Han, la nostra epoca è caratterizzata, al contrario, da una preoccupante perdita dell’attività simbolica – uno dei maggiori, se non il principale, tra i contrassegni che distinguono il mondo umano da quello animale.

È tempo di crisi per la sublimazione. Decadono le forme rituali e il loro declino lascia progressivamente spazio a quella istintualità animalesca che il rito vuole disciplinare. In una parola, civilizzare.

«Oggi – scrive Byung-Chul nel suo La scomparsa dei riti – viviamo in una cultura degli impulsi bestiali: laddove vengono a mancare i gesti rituali e le forme di cortesia, ecco che gli eccessi e le emozioni forti prendono il sopravvento. Anche nei social media si riduce quella distanza scenica costruttiva dell'agire pubblico e si arriva a una comunicazione priva di distanza e impregnata di impulsi».

Ciò rappresenta un indubbio regresso: dalla civiltà delle buone maniere all’orda animalesca che Kipling ha rappresentato nell’antisocietà anarcoide delle Bandar-Log. Anche l’insulto segue questa discesa nella scala della civiltà: sempre meno nobile arte e sempre più prosecuzione del linciaggio con altri mezzi. È il massimo degrado della parola, scritta e parlata, che diventa lo strumento di una volontà maligna di annientamento.

L’ingiuria assume così l’aspetto di una espressione violenta e brutale: una sorta di deflagrazione emotiva che rivela in un lampo il nostro atteggiamento ostile e conflittuale. Si insulta smodatamente, senza misura, dilaga la violenza verbale.

Non è un caso. Nella violenza è innata la mancanza di misura; la violenza si manifesta sotto le spoglie del caos, del tumulto, dell’emotività. Non per nulla di essa si dice che “scoppia” o “esplode”. L’insulto segue la stessa logica frenetica, presentandosi come una scorciatoia cognitiva che “taglia corto” per evitare i più lunghi e ardui sentieri della comprensione.

Viviamo in tempi rissosi che il linguista Filippo Domaneschi definisce – e non ci sorprende – come l’epoca d’oro dell’ingiuria.

Questa percezione è dovuta almeno a due ordini di ragioni, sostiene Domaneschi nel suo saggio Insultare gli altri (Einaudi, 2020).

      In particolare l’offesa sui social media, osserva Domaneschi, produce almeno tre effetti:

        Tanto è vero che l’epoca d’oro dell’ingiuria ha riportato in auge una barbarie che pensavamo sepolta per sempre: la gogna.

        Ne è convinto Jon Ronson, giornalista nato a Cardiff ma vissuto a Londra e in Usa. Ronson è l’autore de I giustizieri della rete, una inchiesta sul ritorno della gogna pubblica nei social media. Il libro del giornalista di origini gallesi. che stila un lungo elenco di vite rovinate dal linciaggio della rete, ricorda come la gogna fosse stata abolita tra Sette e Ottocento perché si ritenne che la pubblica umiliazione fosse un peso insopportabile sul piano psicologico.

        Un giudizio condiviso anche da Benjamin Rush, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, autore nel 1787 del saggio An Enquiry into the Effects of Public Punishments Upon Criminals and Upon Society [Un’inchiesta sugli effetti delle punizioni pubbliche sui criminali e sulla società] in cui chiedeva di mettere fuori legge la gogna, la berlina e il palo per le frustate perché, così scriveva «l’ignominia [è] universalmente riconosciuta come punizione peggiore della morte».

        E non si creda che Rush fosse un liberale dal cuore tenero, visto che come pena alternativa alla gogna proponeva di rinchiudere i criminali in celle isolate, lontane dallo sguardo del pubblico, per somministrare loro del «dolore fisico». Comunque sia, il suo saggio ebbe successo e le punizioni pubbliche furono abolite cinquant’anni dopo la sua pubblicazione.

        Nel XXI secolo la gogna sembra essere tornata, ma sotto una forma ancor più devastante rispetto a quella che già faceva orrore a Benjamin Rush. Il progresso tecnologico ha provveduto infatti ad amplificarne a dismisura gli effetti già terrificanti.

        Un tempo bastava spostarsi di luogo, cambiare di città o paese per sfuggire alla gogna.

        L’oblio del tempo poi faceva il resto.

        Ma col web questi limiti spazio-temporali non valgono più: la berlina segue ovunque e per sempre la sua vittima. Tanto è vero che sono nate apposite società informatiche che per garantire il diritto all’oblio si occupano di “ripulire” la reputazione andando a “bonificare” i risultati dei motori di ricerca.

        Un caso particolarmente clamoroso di gogna mediatica è quello che coinvolge Justine Sacco, un’anonima impiegata di New York. Justine gestisce le pubbliche relazioni per la IAC, un importante conglomerato mediatico, e ha la sventurata idea, nel dicembre 2013, di postare un tweet dal sapore (apparentemente) razzista prima di volare verso Città del Capo, in Sudafrica. Poco prima di salire in aereo, scrive così su Twitter: «Vado in Africa. Spero di non beccarmi l’Aids. Sto scherzando. Sono bianca!».

        Per una buona mezz’ora il suo commento non riceve risposta alcuna con Justine che rimane delusa dal silenzio tombale dei suoi (pochi, circa 170) follower su Twitter. Nulla lascia presagire quel che avverrà in seguito. Una volta iniziato il volo, è costretta a spegnere il telefono che riaccende solo all’arrivo, undici ore dopo. E subito le arriva il messaggio dispiaciuto di un ex compagno di scuola che non vedeva dai tempi del liceo: «Mi dispiace vedere tutto quello che sta succedendo». Justine lo rilegge, stupita, non capisce. Di lì a poco comincia a intuire qualcosa: il telefono viene letteralmente subissato da uno tsunami di messaggi e notifiche. Justine ha l’impressione che sia sul punto di esplodere. È l’inizio di un incubo kafkiano che la perseguiterà a lungo.

        Cosa succede in quelle undici ore di volo? Semplicemente il finimondo: un blogger britannico di nome Sam Biddle legge il comento di Justine e lo condivide indignato coi suoi 15.000 follower che a loro volta rilanciano il tweet rendendolo virale. E così a cascata per centinaia di migliaia, forse milioni di volte.

        Nel frattempo il profilo di Justine viene preso d’assalto da una valanga di commentatori violenti e ingiuriosi. Un linciaggio di massa online che trasforma il commento “razzista” in un caso mediatico. Lei non lo sa, ma la IAC, incalzata dalla tempesta di commenti furiosi, l’ha già licenziata in tronco. Quando atterra a Città del Capo, ancora ignara delle dimensioni dello scandalo in cui è precipitata, c’è un uomo ad aspettarla all’aeroporto. È un utente di Twiter che la fotografa e la posta online: «Eh sì», scrive, «@JustineSacco in effetti È APPENA atterrata al Cape Town International. Ha deciso di nascondersi dietro un paio di occhiali da sole».

        Tutto cambia nella vita di Justine. E non è per il meglio. A tre settimane dal tweet “incriminato” il New York Post la segue ovunque, anche in palestra; i giornali setacciano il suo account su Twitter alla ricerca di nuovi “orrori”. Per fare un paragone, a novembre 2013 il suo nome era stato ricercato non più di una trentina di volte sul motore di ricerca di Google; nel dicembre 2013 le ricerche ammontano a un milione e duecentoventimila.

        Justine confesserà a Ron Jonson il significato del suo tweet: un commento autoironico sull’indifferenza del nord del mondo verso i drammi del sud del mondo. Justine ha letto da qualche parte le statistiche sull’Aids in Sudafrica: i numeri dicono che i bianchi sono meno esposti dei neri al contagio. «Vivere in America – scrive nella mail a Jonson – vuol dire vivere in una bolla per quanto riguarda ciò che sta accadendo nel Terzo Mondo. Ecco, io stavo facendo sarcasmo su quella bolla».

        Insomma, parliamo di una battuta certamente mal formulata, ma che con un minimo di sforzo intellettivo e di benevolenza ignaziana (*) avrebbe potuto essere interpretata in altra maniera. Avrebbe potuto, ma non nel caso di Justine contro la quale la rete – che ricorda tutto e non perdona nulla – finirà per accanirsi ferocemente.

        In gergo tecnico, la gogna mediatica che investe la vita di Justine Sacco si definisce una shistorm, una “tempesta di merda”, una specie di irresistibile fumana di insulti che scorre ad altissima velocità sui social per scagliarsi, con la stessa identica violenza, contro l’autore di un commento effettivamente spregevole ma anche, come nel caso di Justine, contro il malcapitato autore di una battuta infelice.

        È sempre Byung-Chul Han a evocare l’immagine dello sciame digitale: un assembramento senza riunione composto da individui isolati e autosegregati, seduti davanti allo schermo del computer. È una massa senz’anima contraddistinta da una estrema volatilità, che si dissolve con la stessa rapidità con cui si è formata. La figura tipica dello sciame digitale è il cosiddetto hater: il rancoroso che odia tutto e tutti, un vetrioleggiatore virtuale che esiste solo per attaccare, distruggere e deridere senza pietà.

        Siamo in presenza di un contagio psichico e morale che porta gli uomini ad accanirsi verso i propri fratelli in umanità, soprattutto sui più deboli e indifesi. Papa Francesco, lo ricordiamo, è intervenuto più volte per mettere in guardia contro lo spirito di accanimento che ispira pratiche odiose come il bullismo. Un tema approfondito da un bell’articolo apparso qualche anno fa sulla Civiltà Cattolica. L’articolista, Diego Fares sj, sottolinea la natura diabolica di questo contagio di ferocia gratuita, tanto più pericoloso nella sua versione “educata”, che agisce in maniera subdola ma con la medesima, disumana crudeltà. Esiste un accanimento coi guanti bianchi, meno distruttivo all’apparenza ma altrettanto nocivo.

        Un motivo in più per vigilare contro questa terribile tentazione.

        (*) «[…] è necessario presupporre che ogni buon cristiano debba essere più disposto a salvare l’affermazione del prossimo che a condannarla; e se non la possa salvare, cerchi di sapere quale significato egli le dia; e, se le desse un significato erroneo, lo corregga con amore; e, se non basta, cerchi tutti i mezzi adatti perché, dandole il significato giusto, si salvi». (Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1988, p. 52)