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L’asterisco e lo schwa non danno voce a chi la vorrebbe

SCHWA, ASTERISCO, SPECCHIO

Cristina Conti | Shutterstock

Annalisa Teggi - pubblicato il 13/08/21

Qualcuno è in cerca di una sua voce, perché il maschile e il femminile non lo identificano, e sceglie in astratto segni che però non potrà pronunciare nel parlato. È come cercare un nuovo modo di dire "io" e scegliere il silenzio.

La lingua più di ogni altra cosa è segno che l’uomo risponde alla realtà, non la crea. Quando il bimbo articola dei suoni e dice “Mamma” si mette in relazione con la presenza viva che ha di fronte a sé. Non saprebbe ancora darne una definizione, ma sa che c’è. E non crea la mamma in base a un pensiero e poi le dà un suono e poi la chiama. La realtà ci chiama, e non c’è cosa più straordinaria del fatto che noi siamo in grando di risponderle. Riflettere sul linguaggio è una faccenda concretissima, tutt’altro che pura filosofia per intellettuali. Attualmente è anche un’urgenza necessaria per non finire stipati nel bidone della pura ideologia su un tema che ideologico non è.

Il dibattito su schwa e asterisco è solo un dibattito?

Tutti noi ci siamo imbattuti in qualche post o messaggio che appare così: “Ciao a tutt*”. Oppure, al posto dell’asterisco compare una e rovesciata, lo schwa: “ə“. Una casa editrice ha incluso quest’ultimo strano carattere tra le norme grafiche editoriali, un comune emiliano ha scelto di usarlo per tutti i suoi messaggi social.

Perché? Si tratta di una scelta maturata in seno al dibattito apertissimo sull’inclusione delle persone che non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile. La mossa è quella di attribuire un segno grafico che oltrepassi la prassi di fare dipendere tutto dalla vocale “o” per il maschile e dalla “a” per il femminile. E qui segno grafico e usanza sono proprio i nodi della faccenda. Ma prima di approfondire ascoltiamo le voci in campo.

La sociolinguista Vera Gheno fa notare che il problema riguarda meno del 1% della popolazione, ma ha anche ragione nel dire che ogni voce conta quando si mette a tema l’identità personale. Motivo per cui non basta dire: riguarda pochissimi, lasciamoli perdere.

“Io non sono un asterisco”

Oltre ai messaggi in cui occasionalmente ci siamo imbattuti, oltre al caso dell’editore e del Comune emiliano già citati, nelle ultime settimane il dibattito su quest’ipotesi linguistica sostenuta dal mondo LGBTQ+ si è spostato sui quotidiani e in particolare su Repubblica. E, strano a dirsi, per una volta possiamo dire che la carta stampata ha adempiuto al dovere di cronaca, cioé si è piantata dentro la realtà… proprio parlando di lingua.

Lo scrittore Maurizio Maggiani ha buttato il sasso nello stagno con un pezzo intitolato “Io non sono un asterisco”. Basta l’incipit a delineare l’orizzonte:

Ho ricevuto un invito a una manifestazione culturale piena di buona volontà indirizzato a un asterisco, car* amic*. Non andrò, io non sono un asterisco, ho solo qualche modesta certezza su me medesimo ma so per certo che non necessito di un richiamo a fondo pagina, posso essere caro e forse anche amico, ma non un impronunciabile *.

Da Repubblica

L’impressione è quella di una battaglia ideologica imposta dall’alto e il timore di Maggiani è quello di altri: che venga imposto a suon di slogan sul politically correct e sull’inclusività un modo di parlare che metta a tacere il dato biologico di realtà sul maschile e femminile. Viene da porsi delle domande sull’imperante tam tam che ci spinge sempre più verso il filtro neutro sulla realtà:

Immagino che l’intenzione sia quella di rivoluzionare alfabeto e lingua per rivoluzionare il sistema delle relazioni tra i sessi, farla finita con la lingua maschia, instaurarne una inclusiva cominciando con la neutralizzazione per iscritto degli esseri. Bene, allora davvero è ragionevole pensare che quando parleremo tutt* a scatti il mondo fuori dallo schermo sarà un posto migliore? 

Ibid.
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A rispondere a questa domanda, sempre su Repubblica, sono intervenuti due studiosi di lingua, il professor Luca Serianni (professore emerito di Storia della lingua italiana alla Sapienza) e il professor Maurizio Bettini (filologo, classicista e scrittore).

NB: sì, sembra strano, ma per fare un passo di realtà occorre ascoltare degli esperti dilingua, che ci riportano lì… alla meraviglia per cui accade che noi siamo esseri in grado di esprimere con la voce la nostra presenza, i desideri, gli affetti, i dolori.

Ma come pronuncio l’asterico e lo schwa?

Oggi si propone di ampliare il nostro alfabeto con due nuovi segni, lo schwa (ə) e l’asterisco (*) che non rappresentano però suoni grammaticalmente esistenti nell’italiano standard. Stiamo compiendo cioé un’operazione rovesciata rispetto al passato. Lungo i secoli infatti ci si è sforzati di creare segni capaci di catturare al meglio i suoi pronunciati in una data lingua; oggi invece si vuole introdurne dei nuovi i quali, con ogni probabilità, resteranno privi di un loro corrispettivo fonico reale.

Da Repubblica

L’orale viene prima dello scritto, perché l’esperienza della realtà viene prima della sua comprensione o classificazione o memoria. Ritorniamo all’esempio iniziale della mamma. Lei c’è. E c’è il sole, la grandine, le guerre, ci siamo noi stessi. La voce dell’uomo è il grido di fronte all’urto con il reale. E la scrittura è un passo successivo per fare memoria, prendere nota della voce. Ora: che suono ha un *? Come lo pronuncio? E’ qualcosa che esiste solo nello scritto. Non c’è una voce nella realtà che pronunciando quel suono identifica una presenza.

Qualcuno è in cerca di una sua voce, perché il maschile e il femminile non lo identificano, e sceglie in astratto un segno che però non potrà pronunciare. È come cercare un nuovo modo di dire “io” e scegliere il silenzio. Che aiuto reale sarà per la sua identità? E per lo schwa il ragionamento è simile. Nota il rabbino Riccardo Di Segni, richiamando l’origine ebraica di questo segno linguistico:

Insomma lo shewà non è una vocale vera e propria, è una via di mezzo tra il silenzio e una vocale pronunciata, una “semivocale”. Il nome stesso del segno, vicino alla parola shav, “senza valore” indica questa sua natura difettosa e incompleta.

Da Shalom

L’asterisco non ha suono, lo schwa ha il suono impercettibile che non appartiene alla nostra lingua. Come si può dare corpo e sostanza a un’identità in discussione attraverso segni che non hanno voce? Hanno molta visibilità nello scritto, catturano l’attenzione. E questo è un altro aspetto rilevante e dolente.

L’abbaglio della scrittura …

E’ il professor Luca Serianni a suggerire perché questa tendenza linguistica sia basata sullo scritto. E lo fa con la voce dello studioso, non di chi rigetta le istanze del mondo LGBTQ+. Alla domanda su cosa significhi il dibattito su asterisco e schwa, risponde:

Raccontano il grande potere dello scritto sul parlato. L’asterisco nasce agli inizi della storia della tipografia italiana: serve a indicare una lacuna nel testo. Noi siamo una società largamente alfabetizzata, abituata a leggere le parole, a vederle, prima ancora che a pronunciarle. […] Io direi che siamo sempre più immersi nella scrittura, proprio grazie alla rete.

whastapp conversation

Questo è un ritratto autentico di noi, per quanto amaro. Siamo dentro questa trappola: una cosa esiste perché la scrivo o la vedo scritta (cellulari, Facebook, schermi di ogni tipo). E’ come se camminassimo a rovescio, coi piedi per aria. Sì, siamo un passo oltre e peggio del Cogito ergo sum. Invece ogni presenza esiste perché c’è, non perché la penso o la scrivo.

L’abbaglio dunque è quello di ritenere che si riesca a imporre un uso linguistico usando gli strumenti da cui dipende in gran parte la comunicazione attuale.

Questo fronte virtuale ci vede tutti perdenti. Una riconquista della realtà è un bene salvavita per tutti. Spostare il baricentro sempre di più sul mondo virtuale, a dibattere a favore o contro l’asterisco, a dimostrarci sostenitori o detrattori del mondo LGBTQ+ ci allontana pericolosamente da una coscienza incarnata. Ci trasforma tutti in chiacchieroni che sono presenze mute nella vita vera. Infatti, se fossimo in un bar o in piazza a discutere di questo come ne parleremmo? Riusciremmo a pronunciare una sola frase con una resa fonetica dell’asterisco? Ecco, una banalissima esperienza ci richiamerebbe all’ordine. Il punto scoperto della questione è altrove.

La già citata Vera Gheno sostiene che lo schwa sia adatto alla perché è “un segno indistinto per un genere indistinto”. E questo fa sentire tutto il bruciore di una ferita aperta, perché nessuna persona è un indistinto.

… e la democrazia dell’uso

La buona notizia è che per il bene di tutti noi non c’è da fare nulla. La lingua è quel regno in cui nessuna imposizione astratta può atticchire. Le ideologie possono cambiare una lingua? Risponde Serianni:

Possono riuscirci nei regimi dittatoriali. Il fascismo ci ha provato: forse sarebbe riuscito a eliminare il “lei” se non fosse caduto pochi anni dopo il divieto. I cambiamenti imposti dall’alto sono più difficili in un assetto democratico e policentrico come il nostro. Anche per questa ragione la possibilità di intervenire in modo coattivo sul nostro alfabeto mi sembra destinata al fallimento.

Da Repubblica
WOMAN MIRROR

Il campo da gioco è l’uso e non l’imposizione. Una lingua cambia e si trasforma nei secoli e nei millenni perché è la cartina al tornasole dell’esperienza umana. Diciamo cavallo e non più caballus perché nel corso del tempo il parlato ha plasmato una parola più snella e facile da pronunciare. Le consonanti a fine parola dei latini sono cadute perché il popolo ha smesso di pronunciarle, nessuna legge grammaticale è stata scritta a priori.

È nell’incontro tra persone che il vulnus dell’identità merita di essere ospitato, tra volti che s’incontrano e ascoltano timbri di voce precisi. Altro che suoni indistinti o silenzi. Ogni coscienza, anche piena di interrogativi più che di chiarezze, è una presenza lampante.

Ho il ricordo bellissimo della mia insegnante di Storia della Lingua italiana (Prof.ssa Maria Luisa Altieri Biagi) che ogni tanto terminava la lezione dicendo che doveva andare a un corso di aggiornamento. Intendeva dire che l’aspettava un pomeriggio in veste da nonna in compagnia di una nipotina che cominciava a parlare. Ecco il campo da gioco: l’incontro di un essere umano con il mondo e il suo tentativo di imparare a dire io di fronte a ciò che accade.

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