Qualcuno è in cerca di una sua voce, perché il maschile e il femminile non lo identificano, e sceglie in astratto segni che però non potrà pronunciare nel parlato. È come cercare un nuovo modo di dire "io" e scegliere il silenzio.
La lingua più di ogni altra cosa è segno che l’uomo risponde alla realtà, non la crea. Quando il bimbo articola dei suoni e dice “Mamma” si mette in relazione con la presenza viva che ha di fronte a sé. Non saprebbe ancora darne una definizione, ma sa che c’è. E non crea la mamma in base a un pensiero e poi le dà un suono e poi la chiama. La realtà ci chiama, e non c’è cosa più straordinaria del fatto che noi siamo in grando di risponderle. Riflettere sul linguaggio è una faccenda concretissima, tutt’altro che pura filosofia per intellettuali. Attualmente è anche un’urgenza necessaria per non finire stipati nel bidone della pura ideologia su un tema che ideologico non è.
Il dibattito su schwa e asterisco è solo un dibattito?
Tutti noi ci siamo imbattuti in qualche post o messaggio che appare così: “Ciao a tutt*”. Oppure, al posto dell’asterisco compare una e rovesciata, lo schwa: “ə“. Una casa editrice ha incluso quest’ultimo strano carattere tra le norme grafiche editoriali, un comune emiliano ha scelto di usarlo per tutti i suoi messaggi social.
Perché? Si tratta di una scelta maturata in seno al dibattito apertissimo sull’inclusione delle persone che non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile. La mossa è quella di attribuire un segno grafico che oltrepassi la prassi di fare dipendere tutto dalla vocale “o” per il maschile e dalla “a” per il femminile. E qui segno grafico e usanza sono proprio i nodi della faccenda. Ma prima di approfondire ascoltiamo le voci in campo.
La sociolinguista Vera Gheno fa notare che il problema riguarda meno del 1% della popolazione, ma ha anche ragione nel dire che ogni voce conta quando si mette a tema l’identità personale. Motivo per cui non basta dire: riguarda pochissimi, lasciamoli perdere.
“Io non sono un asterisco”
Oltre ai messaggi in cui occasionalmente ci siamo imbattuti, oltre al caso dell’editore e del Comune emiliano già citati, nelle ultime settimane il dibattito su quest’ipotesi linguistica sostenuta dal mondo LGBTQ+ si è spostato sui quotidiani e in particolare su Repubblica. E, strano a dirsi, per una volta possiamo dire che la carta stampata ha adempiuto al dovere di cronaca, cioé si è piantata dentro la realtà… proprio parlando di lingua.
Lo scrittore Maurizio Maggiani ha buttato il sasso nello stagno con un pezzo intitolato “Io non sono un asterisco”. Basta l’incipit a delineare l’orizzonte:
Ho ricevuto un invito a una manifestazione culturale piena di buona volontà indirizzato a un asterisco, car* amic*. Non andrò, io non sono un asterisco, ho solo qualche modesta certezza su me medesimo ma so per certo che non necessito di un richiamo a fondo pagina, posso essere caro e forse anche amico, ma non un impronunciabile *.
L’impressione è quella di una battaglia ideologica imposta dall’alto e il timore di Maggiani è quello di altri: che venga imposto a suon di slogan sul politically correct e sull’inclusività un modo di parlare che metta a tacere il dato biologico di realtà sul maschile e femminile. Viene da porsi delle domande sull’imperante tam tam che ci spinge sempre più verso il filtro neutro sulla realtà:
Immagino che l’intenzione sia quella di rivoluzionare alfabeto e lingua per rivoluzionare il sistema delle relazioni tra i sessi, farla finita con la lingua maschia, instaurarne una inclusiva cominciando con la neutralizzazione per iscritto degli esseri. Bene, allora davvero è ragionevole pensare che quando parleremo tutt* a scatti il mondo fuori dallo schermo sarà un posto migliore?