Lo scorso giugno ho incrociato la notizia che 6 amputati avrebbero affrontato la scalata del Monte Rosa nell'ambito della Monte Rosa SkyMarathon®. Una follia? Mi sono documentata e ho raccontato quell'impresa, ma mentre scrivevo l'articolo cresceva in me il desiderio di conoscere meglio il progetto che si chiama AMA-bilmente: disabili che si mettono alla prova in montagna.
Amputati significa che ciascuna di queste persone ha una grande ferita nella sua storia. Perché porsi la sfida di scalare vette altissime? Solo un rischio incosciente? Eppure mi pareva tutto l'opposto di un'avventura folle. Mi ha commossa nell'apprendere che ogni scalatore amputato non era solo, ma aveva accanto una guida e un compagno durante la salita e la discesa. Ognuno era tre. E mi pareva un'immagine bellissima: per salire bisogna farsi in tre.
Dunque ho provato a contattare l'anima di questo progetto, Moreno Pesce. Lui si presenta così:
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Pensavo che, se mi avesse mai risposto, lo avrebbe fatto dopo essersi ripreso dalla scalata sul Monte Rosa. E invece, mi sono trovata un messaggio su Whatsapp quasi subito, proprio mentre era alla capanna Gnifetti (quota 3647 m) alla fine di una grossa tappa e non ancora arrivato alla meta (capanna Margherita, quota 4556 m). Ridendo, incredula, ho fatto una battuta per ringraziarlo della disponibilità: ci saremmo sentiti quando sarebbe tornato 'col piede per terra'. E così è stato.
La parola che Moreno ha scelto scelto di aggiungere alle nostre gemme ruotava attorno al significato di 'razionalità'. E può essere strano, visto il contesto. Ne abbiamo parlato perché mi aveva lasciato stupito. E in effetti quel che lui intende è proprio l'opposto di quel che oggi si pensa sia la razionalità (fare calcoli, sentirsi padroni della situazione). Quel che leggerete ora, dalla voce di Moreno, è la scalata a una razionalità davvero umana, sinonimo di umiltà. Ci è parso infine che 'limite' fosse la parola chiave del discorso. Il limite c'è, lo sa bene chi ha un corpo segnato da ferite che non si possono togliere. Ma proprio da lì fiorisce il desiderio di una seconda vita, dove si va più lenti, dove ci si deve far accompagnare, dove non manca il sorriso.
Per chi non mi conosce, sono un disabile. Sono rinato a 21 anni dopo un incidente motociclistico. Da quel momento sono ripartito, come un bambino, a riusare la gamba che mi è rimasta e ha imparare a usare la protesi. Poi mi sono dato degli obiettivi e progressivamente sono riuscito a raggiungerli. Ho scelto un'ipotesi per cui spendermi, quella della disabilità in montagna, e tutt'ora mi impegno per questo. Quando ho iniziato, eravamo in due o tre. L'idea era quella di affrontare le scalate in montagna e di vivere le difficoltà che ciò richiedeva. Non me l'aveva ordinato il dottore di fare tutta quella fatica, ho scelto io di ritornare a vivere la montagna come mi piaceva fin da bambino e ho incontrato tanta gente disponibile ad aiutarmi.
Non era più un passatempo, era vita. Era la vita che tornava dentro di me. All'inizio alcuni di quelli che mi hanno spronato lo facevano per curiosità, per vedere come se la poteva cavare un disabile con le stampelle sui monti.
E come se la cava? Durante le salite non ho tempo per guardare il panorama attorno e neppure di capire bene dove sto andando. Faccio un esempio. In uno degli ultimi week end ho portato a termine una scalata molto faticosa che è durata 9 ore il sabato e 14 ore la domenica. Durante questo percorso l'unica mia premura è stata quella di non essere di troppo disturbo a chi era più veloce di me sul tracciato (turisti e alpinisti esperti). Diciamocelo: c'è chi incrociandomi sui sentieri pensa: «Ma dove vuole andare questo qua? A mettersi a rischio?».
Non voglio mettermi a rischio, tento di riuscire a fare quello che facevo prima dell'incidente. E non è detto che ci riesca, non mi dà problemi se fallisco per il semplice fatto che esserci - oggi - per me è già una vittoria. Quando nel 2019 provammo a scalare il Monte Rosa qualcuno commentò l'esito dicendo che fallimmo. Sì, in quell'occasione fallimo di arrivare al traguardo finale, alla Capanna Margherita, ma io non ho visto attorno a me del fallimento. Ho visto 7 amputati ben preparati e presenti che hanno raggiunto la capanna Gnifetti a 3600 metri d'altitudine, poi la neve ci ha fermato e abbiamo rinviato.
Dal quel momento abbiamo preparato quello che poi abbiamo raggiunto a giugno di quest'anno. Quando sono arrivato in vetta, alla Capanna Margherita, sono esploso a piangere come un bambino ed è stato bello quel momento, una possibilità di vita su cui avevo scommesso. Eravamo in 6 amputati e tutti siamo riusciti a salire sopra i 4 mila metri. Abbiamo abbattuto un muro, arriverà chi farà meglio, ma intanto noi abbiamo cominciato.
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Riguardo a questo, però occorre fare chiarezza. Il punto non è trasformare il disabile in qualcuno che è capace di "fare chissà quali imprese". C'è chi non le fa e non le farà. Quando ho lanciato l'idea di salire sul Monte Rosa, il successo dell'impresa stava già tutto nel pensarlo e nel dirlo. Significava uscire da un blocco mentale e reagire. Ognuno lo fa nelle forme e nei modi che preferisce. A me piace vivere la montagna e stimolare altre persone a provarci. Per il prossimo anno mi piacerebbe trovare la copertura economica per poter permettere a tutti i disabili che vogliono cimentarsi nell'impresa, accompagnati da guide esperte.
L'altro aspetto è proprio questo. Non è che si può prendere, partire e scalare una montagna facendo finta di niente. Occorre essere umili e razionali. Bisogna accettare che ci sia un'alta possibilità di fallimento. Bisogna prenderla col sorriso, ma non di superficialità. E' stata una grossa croce arrivare in cima al Monte Rosa, siamo amputati e avevamo sulle spalle uno zaino da 70 litri. Tutti sapevamo cosa ci sarebbe costato.
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La mia seconda vita è cominciata dopo l'incidente, alcuni invece pensano di essere morti dopo una tragedia del genere. C'è anche il diritto a reagire con la disperazione, io ho reagito in un modo che in molti sono disposti a criticare. Spesso nei miei post pubblici punto sul sorriso e c'è chi commenta dicendo che dovrei togliermi quel sorriso dalla faccia e usa parole pesanti. Non credono che ci sia la possibilità di vivere bene con le protesi. (Nota bene: in questo momento ho la gamba piena di pomate e non posso usare la protesi perché l'arto mi fa davvero male).
Questi messaggi di critica per me sono un segno chiaro sul fatto che devo lavorare. C'è tanto da fare per andare oltre questa visione della disabilità, oltre questo muro. Sono contento di quello che siamo riusciti a costruire in questi anni, siamo riusciti a far capire alla gente che non siamo un pericolo e siamo solo persone che vanno in montagna e hanno bisogno di una mano.
E parlo al plurale. Una volta potevo dire: «Ho fatto», adesso devo dire: «Abbiamo fatto» perché non posso più fare le cose da solo. Noi amputati andiamo in montagna e abbiamo bisogno di una mano tesa, quella delle guide. Le guide per noi sono l'essenziale: sono persone pazienti, che rispettano la nostra situazione, la conoscono e la valutano, e poi accettano di andare piano. Rallentare per queste guide che ci accompagnano significa stare fisicamente male, perché rinunciano al ritmo di passo migliore per loro.
La montagna è una grande risorsa per gli amputati, si impara la razionalità. Cioé: mostra il limite di ciascuno e invita ad accettarlo. La parola che scelgo per riassumere il mio vissuto è proprio questa razionalità che guarda in faccia il limite.
Durante le mie cordate, oltre alla guida, ho anche un compagno ed è con lui che si valuta di momento in momento come affrontare la situazione. Si diventa capaci di accettare dei no che vengono detti da chi discerne bene il contesto. Ottenere un risultato passa dal confronto col limite. In questo senso razionalità in montagna è sinonimo di umiltà. Sul limite si lavora, ma c'è e per tentare di superarlo va accolto.