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Jacobs e Tamberi: due ori azzurri in un unico abbraccio

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Giuseppe CACACE / AFP

Paola Belletti - pubblicato il 02/08/21

Hanno vinto entrambi ieri, domenica 1 agosto 2021, salendo il gradino più alto del podio. Le Olimpiadi di Tokyo ci stanno regalando non solo medaglie ma storie di grandi campioni.

La finale dei 100 metri piani e l’oro azzurro

Ieri pomeriggio mi sono persa la finale di Marcell perché ero impegnata col figlio più piccolo (ma resto comunque imperdonabile) però ho sentito la telecronaca di mio marito al piano di sotto:

Dai, dai, dai, spingi, spingi, spingi, ancora!! Sì!!!

Detta così sembra più l’assistenza partecipata ad un parto invece era la gara stratosferica di Marcell Jacobs, l’atleta desenzanese che ha vinto con un tempo di 9,80 i 100 metri piani. Era dai tempi di Pietro Mennea, nel 1980 – per le mie figlie si tratta di un’era geologica o due fa – che intorno al collo di un atleta italiano non veniva messa la medaglia del metallo più prezioso per una gara di velocità, ma erano i 200 metri. Ora c’è la sua, e Marcell lo dice, non gli sembra vero.

Che sport strano e ingrato può essere l’atletica; fatto anche di solitudine, di sforzi continui, prolungati, nascosti, senza gratificazione e poi tutto che si gioca in una manciata di secondi, per alcune discipline.

“Sono italiano in ogni cellula”, e si sente

Jacobs è un ragazzo del ’94, nato in Texas ma “italiano in ogni cellula del suo corpo” dice lui, che è italiano perché bresciano e bresciano in quanto desenzanese; con la mamma Viviana è arrivato sulle sponde del Benaco a 18 mesi, mentre il padre, militare USA, fu mandato in Corea del Sud.

E’ nato in USA, Marcell, ma i suoi ricordi iniziano in Italia. E per il 2021 ne aveva in serbo di nuovi e speciali, scriveva sul suo profilo Instagram a gennaio scorso:

“Pronto per un 2021 di grandi cose”. Sensazioni e presentimenti di una stagione da record, per lui e per lo sport italiano. Con il primato nazionale di 6″47 nei 60 metri indoor, fatto registrare all’Europeo di Torùn dello scorso marzo, Jacobs spicca il volo, crescendo in consapevolezza giorno dopo giorno.

Primo azzurro capace di qualificarsi per una finale olimpica nei 100 metri piani, batte il record italiano nella disciplina regina di Filippo Tortu (9″99), correndo in 9″95 a Savona, a maggio, nelle batterie del Memorial Ottalia. Numeri poi frantumati in una serie di gare da urlo a Tokyo, con il 9″94 delle batterie, il 9″84 della semifinale e il 9″80 della finale.

Gazzetta

Tutto il prima di quei 9 secondi e 80

Per essere un lampo, il più veloce di tutti, servono interminabili allenamenti, sforzi, sofferenze, maturazione fisica, certo, ma soprattutto mentale e umana.

Ora che Jacobs è salito sull’Olimpo, come in tanti dietro la tastiera siamo tentati di dire giocando con parole e immagini, ci si precipita a vedere da dove venga, chi siano i suoi genitori, cosa c’è dietro e dentro un campione che ha gonfiato di orgoglio una nazione intera.

Mamma e papà si sono conosciuti da giovanissimi e sposati presto, lei 18, lui 20 anni; il padre, un marines, viene mandato in Corea e la mamma, Viviana Masini, decide di tornare in Italia a vivere e far crescere quel figlio.

Gli fa da madre e padre, racconta ai microfoni, e avrà fatto del suo meglio. Eppure per Marcell quel padre assente è un macigno che va fatto rotolare via. No, anzi, il masso che va tolto dal petto è la rabbia, il risentimento per il suo non esserci stato. Una fame d’amore, questa, che si manifesta come può. Sarà la mental coach Nicoletta Romanazzi a capire che con quel peso sul petto Marcell non avrebbe potuto liberare del tutto la sua potenza. Il primo muscolo da sciogliere, dunque, il cuore.

E’ talmente italiano Marcell che per parlare col papà da poco e solo in parte ritrovato si fa aiutare da Google (ma grazie per aver detto con l’accento inconfondibile per me dei lacustri bresciani che you tray stay, you dont know,…sciolto?!)

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Il rapporto col padre

 “Con mio padre non è ancora tutto risolto, però almeno con papà ora comunichiamo. Cioè, io copio e incollo: il traduttore di Google mi dà una mano quando non capisco. Lo so, lo so, dovrei rimettermi a tavolino a rispolverare la grammatica inglese: i termini li conosco, è che per paura di sbagliare mi paralizzo e sto zitto. Ora mi sento sbloccato. È incredibile la potenza dell’energia che si muove quando abbatti un muro. Lo odiavo per essere scomparso, ho ribaltato la prospettiva: mi ha dato la vita, muscoli pazzeschi, la velocità. L’ho giudicato senza sapere nulla di lui. Prima se una gara non andava bene davo la colpa agli altri, alla sfortuna, al meteo. Adesso ho capito che i risultati dipendono solo dal lavoro e dall’impegno“.

Fanpage

Una delle cose bellissime di questo ragazzo, l’ho scoperta parlando questa mattina con Flavio Ghizzi, presidente per 20 anni dell’atletica desenzanese, Pro Desenzano, la stessa che anche le mie bimbe da piccole hanno frequentato con un allenatore che auguro a tutti di trovare, Adriano Bertazzi, lo stesso che ha avviato Marcell all’atletica.

Era un bambino normale, piuttosto vivace, allegro. Flavio, nella telefonata, pensando a quello scricciolo che si agitava in macchina nelle trasferte per le gare provinciali e all’impresa che ha appena compiuto, si mette a piangere. Pensa al suo sorriso.

“E com’è? cos’ha di speciale?”, gli domando

“No, niente, però è sereno, aperto, sincero”.

Dietro questo ragazzone tutto muscoli e tatuaggi, oltre la sofferenza che ha attraversato per le vicende familiari, per le fatiche ingrate che uno sport come questo esige, c’è anche un bambinetto che andava allo stadio Tre stelle e giocava, si allenava, e lo faceva in un ambiente che, posso dirlo davvero per esperienza, cerca sempre di offrire ai ragazzi movimento, libertà, impegno, lavoro ma senza pressarli, senza trasformare prematuramente dei bambini in potenziali campioni da copertina (leggi “importanti ingaggi economici”).

In Flavio e in Adriano c’è un amore per lo sport e per il valore educativo che ha nella vita di tutti e a maggior ragione per i più piccoli che vorrei salisse sul podio insieme a questo fuoriclasse. Che doveva emergere, non c’è dubbio. Ma non era quello l’obiettivo assoluto.

Non cambia un po’ l’atmosfera così, rispetto alle giovanili di calcio con quella fauna genitoriale che preme dalle tribune e urla e si sbraccia e pretende?

C’è un aneddoto che mi è rimasto impresso, anzi due: Marcell era veramente veloce, dotatissmo, vinceva sempre in tutto; il calcio no, non era proprio il suo.

Imparare a perdere per imparare a vincere

Adriano, per aiutarlo a maturare, a comprendere cosa significa metterci la testa, saper gestire le energie e puntare a un traguardo per cui non basta il talento naturale, lo iscrisse ad una gara di corsa campestre.

Marcell non aveva nessun entusiasmo per la cosa, anzi pare abbia protestato energicamente. Parliamo di un bambino che ha iniziato ad allenarsi a 8, 10 anni.

Adirano è irremovibile: farai questa gara. Ok, parte a tutta potenza, brucia tutti gli avversari al primo giro. Che però, appunto è solo il primo giro.

E’ stanchissimo, si ferma e non vuole più proseguire; invece da bordo pista allenatore e dirigenti insistono, “Forza Marcel, ce la puoi fare, l’importante è che arrivi in fondo non devi per forza vincere, ma non mollare”.

Marcell si convince, si rialza, cammina poi riprendere a correre: arriverà comunque secondo!

Ma ha forse iniziato a capire lì quanto conti l’aspetto mentale, il controllo delle proprie risorse fisiche e psicologiche. E’ grato per le doti fisiche che si ritrova (ha due caviglie che sono delle molle, dice Flavio Ghizzi), ma ha capito che non bastano.

Così si tirano su i bambini nello sport; facendoli provare, misurandosi con sè stessi e gli altri, aiutandosi.

Marcell ha fatto anche il “Cavaliere” nei camp estivi, sempre promossi e guidati da Adriano Bertazzi. Una sorta di aiuto animatore, un ruolo che ricoprono i ragazzini già grandicelli ma non ancora maggiorenni e che affianca quello dei responsabili adulti.

Non c’è niente che faccia crescere e maturare i figli come dare piccole e crescenti responsabilità.

Emergere ma non per schiacciare

Ecco, questo è il mio punto di vista molto local ma che a guardarlo ora, dal gradino più alto del podio olimpico che Jacobs si è indubbiamente guadagnato, fa tutto un altro effetto. Dietro quell’approdo c’è una scia lunga, rimasta finora invisibile, di uomini e donne che hanno offerto a Marcell un’occasione dietro l’altra, insegnandogli a perdere (come dice la mamma ora dopo la cerimonia di premiazione), che lo hanno guardato come persona, come bambino prima e come uomo ora; è papà di tre bambini eppure ha ancora quel sorriso lì, dice Flavio.

Mi dà un grande conforto perché significa che si può eccome eccellere, anzi quando ti ritrovi con certe doti direi che è un dovere provarci fino in fondo; ma significa anche che nessuno di noi vale solo per quello, nessuno è solo l’oro che gli mettono al collo; nessun bambino è solo un potenziale futuro fuori classe.

Educare è una vera impresa e sempre la più urgente

C’è un prima di semina e attesa che non deve avere fretta di raccogliere alcunchè; ah, che mestiere gramo e magnifico quello dei veri educatori!

A vederlo così, Jacobs, che corre ad abbracciare un altro azzurro che con lui ha appena scritto un pezzo di storia dello sport e riempito di orgoglio l’Italia, sembra che alla fine le soddisfazioni quando arrivano, arrivino sul serio.

Due ori, un cuore solo

L’altro è il marchigiano Gianmarco Tamberi, classe 1992, che vincendo nel salto in alto con 2,37 mt ha portato a 27 le medagli azzurre a Tokyo.

Si corrono incontro lui e Marcell, si abbracciano e non credono a quello che hanno combinato.

Gianmarco nel dubbio non vuole più dormire, per non perdere questo sogno incredibile che l’infortunio subito a ridosso dei Giochi Olimpici di Rio nel 2016 aveva creduto irraggiungibile.

“Fino a due giorni fa non sapevo se ne era valsa la pena, invece vincere un oro olimpico dopo un infortunio come quello che ho avuto dopo Rio è una emozione incredibile. Dal giorno dell’infortunio ho sempre pensato solo a Tokyo 2020, sentivo che sarebbe successo qualcosa di magico”.

SkySport

C’è quel gesso portato sulla pista a dimostrare che certi limiti sono messi lì apposta perché ci decisiamo a svegliare il leone che sonnecchia dentro ciascuno di noi; perché tiriamo fuori forse imepnsabili, perchè ci lasciamo scolpire da fatiche, dolore e speranza ostinata di farcela.

La grandezza di “Gimbo”

Gianmarco ha lottato e ci ha creduto e così è saltato più alto di quasi tutti; perché con lui c’è l’atleta del Qatar Barshim. Ma questa condivisione non ha fatto che aumentare la gioia dei due atleti. Ecco cosa dice Barshim

“L’oro a pari merito? Ci siamo guardati negli occhi con Gimbo, non e’ servito usare parole. Eravamo in gara da tre ore, è uno dei miei migliori amici e abbiamo avuto lo stesso infortunio. Essere insieme sul tetto del mondo e’ un sogno”.

Sportmediaset

Hanno deciso di non fare lo spareggio, niente tempi supplementari o estenuanti calci di rigore: non è magnifica l’atletica leggera?

Mutaz racconta di quando si sono conosciuti in Canada ai mondiali juniores e ha pensato che questo ragazzo fosse pazzo. E suona come un vero complimento.

Questo ragazzo pazzo è pazzo davvero, nel senso più positivo del termine, quando lo usiamo per dire che uno sa osare, sa vedere la bellezza anche quando si nasconde e sa scommettere pesante quando ha capito di avere le carte giuste in mano ma in pochi ci credono.

Prima di saltare più in alto di tutti, si è messo in ginocchio

Sapete che ha fatto pochi giorni prima della finale questo spilungone di Civitanova Marche?

Si è messo in tiro, ha portato a cena la sua ragazza, le ha offerto un mazzo di fiori e le ha chiesto di sposarlo.

Era il 16 luglio e questa cosa non si poteva proprio rimandare.

“Hai messo davanti alla tua vita la mia vita, hai trasformato i miei obiettivi nei tuoi obiettivi – ha scritto ‘Gimbo’ – Hai deciso di vivere al mio fianco come se fossi il mio sostegno quotidiano per arrivare dove io ho sempre sognato. Ogni istante che incrocio i tuoi occhi mi innamoro un po’ di più, sei semplicemente la donna che ho sempre sognato“.

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