La modernità ci ha aiutato a scoprire moltissime cose di noi uomini, della nostra natura, di come siamo fatti, di come ci sviluppiamo, di cosa ci faccia stare bene o male.
Ma si è dimenticata di dirci, anzi di dire a sé stessa che l'uomo non è un assemblaggio bensì un unico, un intero, una sintesi viva e in dialogo perenne con l'ambiente esterno (e quello interno).
No, non siamo macchine, non siamo il cervello a capo di un corpo ben strutturato a cui far eseguire ordini complessi e per certi versi ancora ignoti, ma non più misteriosi.
Non siamo una sorta di robot ibrido, un'intelligenza impastata con la biologia - quelle faccende mollicce - che a breve l'intelligenza artificiale soppianterà per la maggior capacità e velocità di calcolo, intuizione persino, lettura della complessità del reale ed efficienza.
Di chi è colpa? Da chi abbiamo preso per buono questo modello interpretativo dell'essere umano? Forse il più responsabile più vicino a noi è Cartesio, che ha messo in primo piano la potenza del pensiero e dell'autocoscienza e ha relegato il corpo ad una res con la quale trovare un qualche raccordo.
E che si fa con le res, le cose? le si usa, se ne dispone. Anche la quota pensante è una res (cogitans), forse anche lì si annida un pericolo. La res extensa ridotta a semplice porzione spaziale, materiale, con alcuna consapevolezza di sé è una vera e proprio ingiustizia ai danni della persona e di tutto il modo di concepire l'uomo e la la cultura che da lui deriva.
Invece il corpo, se proprio vogliamo essere onesti con noi stessi, è piuttosto autoritario con noi: reclama una certa obbedienza (la sete, per esempio, non è un comando imperioso?) e attende il nostro governo. Ma soprattutto ha bisogno di guarigione. Ed è il primo, con tutte le sue propaggini a farci accorgere che ci siamo, che siamo sempre noi, in ogni angolo del self (si dice così ora) .
Ho letto un articolo davvero interessante sull'Huffington post, nella sezione Life, Salute. La firma è di uno psicologo, ma potrebbe essere quella di un filosofo e il paradigma che riconosce, più che proporlo, per definire l'umano dovrebbe entrare sempre più nell'uso comune e scalzare vecchie metafore inadeguate e dannose. Quelle che ci tengono inchiodati all'immagine di noi stessi come cose, come assemblaggio di diverse componenti, come un'interazione articolata di parti con uno scopo preciso, che funzionano per compiere azioni e processi.
Come fossimo, noi, soltanto dei robot, ma ricoperti di tessuti più morbidi e piacevoli al tatto delle macchine in rivolta contro l'umanità, quelle che ormai un secolo di fantascienza ci ha abituato ad immaginare.
Che cosa, in ultima in analisi, non potrà mai essere davvero replicabile? che cosa lascerà per sempre gli androidi, i robot super evoluti e in grado persino di cogliere e di interagire con le nostre emozioni soltanto, loro sì, delle macchine?
E' proprio la radicale diversità di paradigma che ci spiega e che non si può trasferire ai nostri sempre più stupefacenti manufatti. Non siamo macchine molto complesse per cui basterà dare tempo all'ingegno umano perché possa riprodurre questa complessità e persino superarla; traguardi peraltro già raggiunti in molti ambiti. Persino nel giornalismo pare che ci siano algoritmi molto più bravi di noi nell'ottimizzazione SEO.
Altra domanda: cosa ci impedisce di liberare davvero le nostre forze e potenzialità? Sempre questo, il paradigma sbagliato, la cornice, asfittica e deformante, nella quale ci siamo chiusi. Non sappiamo più chi siamo né di cosa davvero abbiamo bisogno.
Ora azzardo una mia semplice considerazione da profana; anche se, pure questo va ribadito, ognuno di noi ha i crediti per diventare esperto in umanità, perché ne è titolare egli per primo; non è la scienza (quella che misura, calcola, testa) in quanto tale che può dirci chi è l'uomo e in cosa consiste.
Ecco dunque la riflessione: molte delle aberrazioni e distorsioni che stanno affliggendo le ultime generazioni in merito al rapporto con la propria corporeità e all'aspetto che di essa è più emergente, la sessualità, hanno radice in questo modo di considerarci. Saremmo una sorta di entità cerebrale, fatta di intelletto, autocoscienza e forse volontà, che può e deve disporre della parte somatica che le è capitata in sorte.
E' come se fossimo dei piloti su veicoli che non abbiamo scelto (che rabbia per l'autodeterminazione!) e che a volte non ci piacciono proprio.
L'utero è mio e lo gestisco io è l'inizio di una grande solitudine, ma non tanto rispetto alla relazione amorosa con l'altro e con il figlio, bensì innanzitutto rispetto a sé stessi. Tu, che possiedi quel corpo, anzi quella sua parte, dove abiti?
Sono finito in un corpo sbagliato a cui seguono comprensibili richieste di aiuto ma ingiustificabili concorsi di colpa nell'impossibile correzione di un assetto biologico sessuato, che alla fine si risolve in brutale manomissione.
Credo che una possibile, stramba salvezza della nostra negata ma irriducibile unitarietà di anima, mente e corpo possa venirci dall'eccesso di attenzione che come civiltà occidentale riserviamo al benessere: quando inseguiamo il benessere "rischiamo" di accorgerci che il corpo non è qualcosa ma siamo pur sempre noi, o meglio l'unica possibilità attuale di "metterci in scena" e di stare in relazione.
Il corpo va ascoltato, nutrito, provato, esercitato, coccolato e consolato, piegato a volte, mortificato ma senza opprimerlo: persino i campioni di ascesi e digiuno lo sapevano, nei primi secoli di monachesimo cristiano.
Non ce ne rendiamo conto, dunque, ma continuiamo a guardarci e a farci guardare così, assimilandoci alle macchine, temendone un epilogo catastrofico.
Le tecnologie pronte a sostituirci nelle attività produttive e di servizi saranno sempre di più. A noi che resterà? solo di gestire delle consolle e a breve nemmeno più quello?
L'autore del pezzo riconosce il ruolo di difesa immunitaria a questo attacco all'uomo e alla sua unicità esercitato dalla religione: essa infatti ci rivela che siamo figli di Dio e ci dice che siamo dotati di un'anima immortale (verità assodata anche per gran parte della cultura classica); ma aggiunge un'ulteriore considerazione che dovrebbe rassicurare anche noi credenti.
E' la stessa ragione umana che, se esercitata correttamente, è in grado di riconoscere che la visione dell'uomo come macchina è falsa poiché non descrive la nostra realtà.
Dovremmo renderci conto che le "parti" che abbiamo scoperto della nostra natura umana, le novità studiate ed approfondite sono come delle "zoomate" su un dettaglio che continua a far parte e ad avere senso in una figura intera, con una fisionomia non scomponibile.
L'uomo resta intero sempre anche dietro la molteplicità che pure lo caratterizza. L'unica spinta alla scomposizione che ci assedia, lo sappiamo per rivelazione e anche per amara esperienza, è quella che ci infligge la ferita del peccato.
Su tutti i fronti, biologico, antropologico, filosofico, la ragione ci dice che l'uomo è tale da subito e senza alcuna interruzione. Per noi credenti è così persino nella prospettiva ultramondana: sarà un passaggio per diventare ancora di più noi stessi.
L'unica radicale alterità rispetto all'ambiente di cui pure facciamo parte è quel quid che ci rende superiori - non sopraffattori! - ad ogni altro essere vivente e a maggior ragione a quelli che potremmo "assemblare" noi, pur con processi sempre più complessi e autonomi, capaci persino di sfuggirci di mano.
La psiche, certo, dice l'autore del pezzo; ma per noi è anche l'anima; quel luogo in cui siamo sempre liberi e capaci di novità.
Condivido con grande sollievo la conclusione dell'autore perché per altre vie arriva dove la stessa Chiesa ci sta accompagnando da secoli, instancabile.
Se vogliamo stare bene ma bene sul serio bisogna che non ci trattiamo per ciò che siamo davvero (e per ciò cui siamo destinati, aggiungo io).
Per questo occorre che ci prendiamo cura di noi e dell'ambiente (anche quello interiore, non solo boschi, ruscelli, atmosfera) riscoprendo il ritmo che ci corrisponde, rimuovendo gli ostacoli che forse noi stessi abbiamo messi o che qualcuno, infido, ci ha suggerito. Occorre fare spazio all'altro amandolo come dovremmo reimparare ad amare anche noi stessi; serve che in questo panorama riprendano spazio le presenze e la Presenza. Allora quegli strani eserciti di super robot pronti a sopraffarci in ogni cosa spariranno dall'orizzonte o meglio smetteranno di essere una minaccia.