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Il ruolo dell’ospitalità nella Bibbia

ABRAHAM AND THE ANGELS

By Aert de Gelder (1645–1727)

Daniel R. Esparza - pubblicato il 14/07/21

Dire che l'ospitalità è al centro della Scrittura non è un'esagerazione

San Benedetto da Norcia è in genere considerato il padre del monachesimo occidentale. Ciò non vuol dire che sia stato il primo monaco cristiano. Questo titolo va spesso ad Antonio Abate, che si ritiene abbia avviato la tradizione. La vita cristiana monastica, eremitica, è nata nel deserto egiziano almeno due secoli prima di Benedetto, verso l’anno 270. Se è stato Paolo daTebe ad avventurarsi per primo nel deserto, è stato Antonio a renderlo un movimento. Chi lo ha seguito ha presto formato una sorta di altra società cristiana – i famosi “Padri del Deserto”. Uno di questi padri, San Pacomio, ha organizzato le prime comunità monastiche cristiane sotto l’autorità di una figura nota come “abate”, termine derivante dall’aramaico “abbà”, padre.

Ciò significa che la famosa Regola non è la prima regola monastica. L’Asketica di San Basilio da Cesarea, un manuale etico volto a organizzare la vita nel chiostro, in uso ancora oggi nella Chiesa ortodossa orientale, è considerato il primo del suo genere, ma Pacomio ne aveva già uno. Il suo, ad ogni modo, non è necessariamente quello che ci si potrebbe aspettare da questo tipo di testi. Anziché offrire ai monaci istruzioni dettagliate su come organizzare la loro vita quotidiana, la regola di Pacomio è fondamentalmente composta da preghiere che i membri della comunità potevano imparare a memoria e ripetere durante la giornata. È chiaramente ispirata dal classico mandato paolino che si trova in 1 Tessalonicesi, “pregare incessantemente” (cfr. 1 Ts 5, 16-18). La famosa Regola di San Benedetto, a confronto, è decisamente esaustiva, un intero libro di precetti e istruzioni, organizzato in 73 capitoli. Questo testo è stato usato ininterrottamente dai monaci benedettini dal VI secolo.

Uno dei passi più famosi della Regola di San Benedetto è il capitolo 53, un testo relativamente breve che è tuttavia la parte più famosa e importante dell’intera Regola. In poche righe, riassume il principio fondamentale della leggendaria ospitalità benedettina, e recita così: “Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: ‘Sono stato ospite e mi avete accolto’” (Mt 25, 35).

È comprensibile che le comunità monastiche considerassero l’ospitalità alla base della loro missione e identità, soprattutto quando i monasteri erano situati, come accadeva spesso, nel deserto o in altre zone relativamente isolate, in cui i viaggiatori potevano avvalersi di tutto l’aiuto possibile. La carità cristiana spingeva i monaci a dare una mano. Questa tradizione viene preservata e onorata ancora oggi.

L’ospitalità, però, non è un’invenzione monastica, quanto piuttosto un valore profondamente biblico. Si potrebbe anche dire che sia al cuore della Scrittura. Alcuni, infatti, leggono l’inizio del Libro della Genesi come il gesto di ospitalità definitivo ed esemplare – Dio crea un interno mondo per farvi vivere gli esseri umani, e fa fronte a ogni loro necessità.

Il capitolo 18 della Genesi richiama questo gesto. Racconta la storia della generosa ospitalità di Abramo e Sara a tre visitatori giunti da loro presso le querce di Mamre. La vita seminomade portava spesso persone di famiglie e regioni diverse a contatto le une con le altre, con Canaan che costituiva parte di un ponte terrestre naturale tra Asia e Africa, e quindi una battuta rotta commerciale. In assenza di un’industria formale di ospitalità, che si sarebbe sviluppata soltanto in seguito (e che avrebbe raggiunto uno dei suoi picchi proprio con l’ospitalità benedettina), la gente che viveva in città, villaggi e perfino accampamenti aveva il dovere sociale di accogliere gli stranieri. Dice il testo:

“ Il Signore apparve ad Abramo alle querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della sua tenda nell’ora più calda del giorno. Abramo alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano davanti a lui. Come li ebbe visti, corse loro incontro dall’ingresso della tenda, si prostrò fino a terra e disse: «Ti prego, mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo! Lasciate che si porti un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e riposatevi sotto quest’albero. Io andrò a prendere del pane e vi ristorerete; poi continuerete il vostro cammino; poiché è per questo che siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai detto». Allora Abramo andò in fretta nella tenda da Sara e le disse: «Prendi subito tre misure di fior di farina, impastala e fa’ delle focacce». Poi Abramo corse alla mandria, prese un vitello tenero e buono e lo diede a un suo servo, il quale si affrettò a prepararlo. Prese del burro, del latte e il vitello che era stato preparato, e li pose davanti a loro. Egli se ne stette in piedi presso di loro, sotto l’albero, e quelli mangiarono.
Poi essi gli dissero: «Dov’è Sara, tua moglie?» Ed egli rispose: «È là nella tenda». E l’altro: «Tornerò certamente da te fra un anno; allora Sara, tua moglie, avrà un figlio»”.

La tradizione intende che questo passo significa (tra molte altre cose) che se non fosse stato per la loro ospitalità, Abramo e Sara non avrebbero mai avuto figli. È solo perché accolgono degli stranieri in casa loro che ricevono la benedizione di avere Isacco. Hanno rispecchiato il gesto iniziale di Dio, ospitale e letteralmente creativo.

Nel Libro della Genesi, però, c’è anche di più al riguardo. Dopo che gli angeli hanno ricevuto la spiritualità di Abramo e Sara, il Signore dice ad Abramo: “Siccome il grido che sale da Sodoma e Gomorra è grande e siccome il loro peccato è molto grave, io scenderò e vedrò se hanno veramente agito secondo il grido che è giunto fino a me; e, se così non è, lo saprò” (cfr. Gen 18, 20). Abramo chiede immediatamente al Signore se risparmierà la città se vi troverà 50 giusti. Dio dice che non la distruggerà per il bene dei giusti che vi vivono. Abramo “mercanteggia”, chiedendo a Dio la misericordia per numeri inferiori: prima 45, poi 40, poi 30, poi 20, e infine 10. Il Signore concorda ogni volta. Due angeli (non i tre che si trovavano nella tenda di Abramo) vengono inviati a Sodoma per indagare.

Lot, il nipote di Abramo che viveva a Sodoma, accoglie quegli estranei. Come Abramo, li invita a trascorrere la notte in casa sua, li serve, li nutre e dà loro un alloggio. Altri Sodomiti volevano invece che Lot li consegnasse. Piuttosto che consegnare i suoi ospiti, però, Lot offre le sue due figlie, ma viene rifiutato.

Al mattino, i due angeli lo esortano a prendere la sua famiglia e a lasciare la città, che stava per essere distrutta: “Metti la tua vita al sicuro: non guardare indietro e non ti fermare in alcun luogo della pianura; cerca scampo sul monte, altrimenti perirai!” Il resto della storia lo conosciamo già. La moglie di Lot disobbedisce, guarda indietro, la città, e viene immediatamente trasformata in una statua di sale. E il sale ha molto a che vedere con l’ospitalità.

Nella Bibbia, il sale gioca un ruolo interessante e spesso contraddittorio. Nell’antico Israele, era ampiamente usato a livello simbolico. Il Libro dei Numeri e il secondo Libro delle Cronache presentano il sale come il simbolo che conferma l’amicizia tra le parti. Mangiare sale insieme, di fatto, era (ed è ancora) segno di amicizia in alcune regioni del Mediterraneo.

Secondo la tradizione, la moglie di Lot era sodomita. Ciò vorrebbe dire che l’ospitalità non faceva parte dei suoi costumi. Alcune fonti sostengono che quando Lot le chiese di offrire del sale agli ospiti si sia lamentata dicendo: “Vorresti introdurre in questo luogo anche questo costume malvagio?” (cfr. Midrash Agadah, Bereishit 19, 32). Visto che non avevano sale in casa, ha bussato di porta in porta per chiederne un po’ ai vicini, facendo sapere loro che suo marito aveva ignorato le leggi della città: aveva invitato degli stranieri. Il Midrash spiega allora che avendo peccato con il sale “è stata punita con il sale”.

Questa “punizione” è davvero significativa. Una terra coperta di sale, nella Bibbia, è anche una metafora per una terra di nessuno, una terra desolata, in cui non cresce nulla (cfr. Salmo 107, 34; Giobbe 39, 6; Geremia 17, 6). Visto che è stata l’ospitalità a permettere ad Abramo e Sara di avere un figlio, crescere e prosperare, nella stessa logica chi nega l’ospitalità (non solo la moglie di Lot, ma l’intera città di Sodoma) diventa una terra desolata.

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