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Lavoro forzato e minorile: la pandemia ha peggiorato le cose

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Di Sk Hasan Ali|Shutterstock

Paola Belletti - pubblicato il 24/06/21

Le condizioni di lavoro tra i più poveri sono ulteriormente peggiorate come effetto della pandemia e della gestione ingiusta dei fondi di sostegno all'economia.

Gli sprechi e la vera ecologia

Non sono poche le iniziative, meritevoli, che ci aiutano a riflettere su quanta acqua venga sprecata per produrre i nostri beni di consumo; la carne (candidata a diventare paria dell’alimentazione contemporanea) ma anche per esempio una t-shirt di quelle basic, prodotte da pressoché tutti i marchi low cost che riempiono in gradi diversi gli armadi di tanti di noi.

L’acqua è un bene preziosissimo e non va sprecata, su questo dobbiamo essere tutti d’accordo.

Ma nel processo di produzione di beni divenuti in molti casi commodities vere e proprie, quanta umanità, quanta dignità, quanto rispetto e protezione delle persone viene sprecata, scialacquata, ridotta anch’essa a scarto di lavorazione?

Abusi fisici e verbali, intimidazioni, restrizioni, false promesse, inganni, sfruttamento… Questo è l’incubo che vive chi produce i nostri vestiti, mentre le aziende che così si arricchiscono hanno addirittura avuto accesso ai finanziamenti di emergenza durante la pandemia. Un nuovo report svela il lato oscuro dei nostri vestiti.

Greenme

Il lavoro, dimensione nobile della vita umana

Insieme alla famiglia c’è certamente la dimensione del lavoro che deve essere non più solo difesa ma recuperata nella sua profonda dignità per l’uomo. E’ una parte fondamentale o meglio ancora è la vera matrice dell’ecologia integrale.

Ciò che emerge da recenti studi sul fenomeno delle pessime condizioni di lavoro in settori come l’abbigliamento è che proprio durante e a causa dello scenario imposto dalla pandemia Covid quelle dei lavoratori già a rischio siano ulteriormente peggiorate. In alcuni paesi l’esposizione al lavoro forzato (anche minorile) è aumentato.

Lo studio dell’Università di Sheffield

Il documento che raccoglie i risultati dell’indagine realizzata dall’Università di Sheffield si intitola The Unequal Impacts of Covid-19 on Global Garment Supply Chains. Ciò che emerge è che le restrizioni imposte dal Covid e l’uso inadeguato e ingiusto dei fondi a sostegno dell’economia del settore abbiano esacerbato le condizioni di lavoro per molti addetti in Etiopia, Honduras, India e Myanmar; molti dei quali producono marchi famosi e diffusi nel Regno Unito e in Europa.

L’indagine è stata svolta su un campione di 1200 lavoratori impiegati in 302 fabbriche, individuati tramite la tecnica della palla di neve; ai primi soggetti individuati si chiedeva cioè di indicare altre persone candidabili all’intervista per la raccolta dati.

Questa tecnica è stata utilizzata per ovviare alla difficoltà di individuare candidati dovuta alla conformazione dei territori e alle condizioni della popolazione e dei mezzi a loro disposizione. Il periodo preso in esame va dal novembre 2020 al febbraio 2021.

Sia quelli che hanno avuto la fortuna di mantenere la propria occupazione, sia quelli che hanno perso il lavoro nell’ultimo anno e ne hanno trovato uno nuovo, hanno riportato un forte calo dei loro guadagni e delle condizioni di lavoro. Entrambi i gruppi hanno sperimentato un aumento del rischio di lavoro forzato durante questo periodo.

Lo studio ha utilizzato un nuovo sistema completo per individuare se fossero presenti gli indicatori di vulnerabilità al lavoro forzato. Tra questi vi sono abusi fisici o verbali, episodi di razzismo, intimidazioni, restrizioni e tanto altro.

greenme

Nei grafici riportati nello studio l’elenco riporta numerosi indicatori infatti:

la mancanza di equipaggiamento di sicurezza e di protezione sociale; gli abusi sia verbali che fisici, le minacce, impedimenti gravi (all’uso dei servizi igienici per esempio), false promesse, ritardi nei pagamenti, oneri ingiusti, riduzione degli incarichi, discriminazioni in base al sesso, abusi sessuali veri e propri.

Ecco una delle tabelle dello studio, con l’elenco degli indicatori di lavoro forzato:

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pag 24 dello Studio The Unequal Impacts of Covid-19 on Global Garment Supply Chains

Che cosa si intende per lavoro forzato

Se ci interroghiamo solo superficialmente su cosa si intenda per lavoro forzato probabilmente nelle nostre menti si accampano immagini di secoli lontani o di luoghi assai remoti;

ma non esiste solo il lavoro da campo di concentramento e detenzione (pratica peraltro ancora molto in uso e in paesi che su altri fronti consideriamo moderni e industrializzati, come la stessa Cina); ci sono oggi nuovi modi di forzare al lavoro e non solo la diretta coercizione fisica.

Così risponde alla questione la prof.ssa Genevieve LeBaron, del Dipartimento di politica e relazioni internazionali dell’Università di Sheffield, come riporta sempre la testata Greenme da cui citiamo:

Non esiste una definizione comunemente accettata di ciò che costituisce lavoro forzato e, a differenza delle percezioni pubbliche della schiavitù moderna, le persone non possono essere trattenute contro la loro volontà.  Possono finire in un posto di lavoro che non possono lasciare per una serie di motivi;

false promesse e inganni per mantenere una persona a lavorare in condizioni di crescente peggioramento, minaccia di sanzioni contro il lavoratore o la sua famiglia se se ne andassero, o talvolta obbligare una persona a indebitarsi con il produttore attraverso una paga scarsa, lasciandoli in difficoltà per coprire i loro bisogni di base per l’alloggio e il cibo.

Non la pandemia in sè ma l’ingiustizia sistematica di un’economia tutta e solo orientata ai profitti ha fatto sì che le condizioni già precarie di molti lavoratori diventassero ancora più inadeguate e umilianti.

Il lavoro minorile, una piaga che torna ad espandersi

Sul fronte del lavoro minorile, infatti, si è assistito ad una battuta d’arresto della riduzione del fenomeno e ci si aspetta un peggioramento e un nuovo aumento dei numeri proprio a causa degli effetti della pandemia.

In forte e costante diminuzione dal 2000, il lavoro minorile coinvolge ancora a livello mondiale circa 160 milioni di bambini e ragazzini, ma soprattutto ha ripreso ad aumentare negli ultimi anni e si teme che le conseguenze socioeconomiche della crisi pandemica possano causare un ulteriore incremento. Questa la situazione nel 2021, Anno internazionale per l’eliminazione del lavoro minorile. Gli obiettivi della comunità internazionale sono chiari: porre fine al lavoro minorile nel mondo entro il 2025, mentre il 2030 è l’anno entro cui dovrebbero essere eliminati il lavoro forzato, la tratta di esseri umani e le varie forme di schiavitù moderna. È però piuttosto evidente come la diffusione globale della pandemia di Covid-19 stia minacciando il raggiungimento di tali obiettivi.

Informazione sociale europea

I più colpiti sono i più piccoli

Sono 160 milioni i bambini che lavorano con conseguente povertà educativa, morale e grandi rischi per la propria salute e per la loro stessa sopravvivenza.

Sono 63 milioni di femmine e 97 maschi, di un’età compresa tra 5 e 17 anni. Dal 2016 ad oggi il numero è passato da 152 agli attuali 160 milioni. Il primo aumento da quando il dato è monitorato, cioè dal 2000, quando erano addirittura 245 milioni.

Secondo il Rapporto Ilo-Unicef il 72% del lavoro minorile si svolge ancora in famiglia e il 70% circa continua a verificarsi nel settore agricolo. Sono infatti decine di milioni in tutto il mondo le aziende agricole familiari che dipendono funzionalmente dal lavoro minorile: si tratta di «un problema strutturale nelle economie rurali di molti Paesi e catene di approvvigionamento, nazionali e globali» osservano gli autori dello studio. Un terzo dei bambini coinvolti nel lavoro minorile è poi completamente al di fuori del sistema educativo e quelli che lo frequentano ottengono scarsi risultati.

Ibidem

Il rapporto è stato pubblicato il 10 giugno scorso e racconta anche che la concentrazione geografica dello sfruttamento del lavoro infantile e minorile è l’Africa sub-sahariana.

Per questo, sostengono l’Ilo e l’Unicef, «raggiungere una svolta nell’Africa subsahariana sarà essenziale per il progresso globale contro il lavoro minorile». Nelle altre regioni mondiali fortemente interessate dal fenomeno, quelle dell’Asia e Pacifico e dell’America Latina e Caraibi, il lavoro minorile ha invece continuato a diminuire negli ultimi due decenni in termini percentuali e assoluti, con un forte calo di 2,3 milioni dal 2016 in America Latina.

Ciò che emerge dai dati e dalle tendenze che si possono ipotizzare è proprio il possibile aumento del numero di bambini sfruttati: entro la fine del 2022 potrebbero crescere di quasi 9 milioni. Sarebbe questo uno degli effetti più tragici e prevedibili dell’aumento della povertà indotto dal Covid. E come succede spesso saranno proprio i più deboli tra i piccoli ad essere colpiti di più:

La crisi pandemica e i suoi effetti sul lavoro

i bambini di età compresa tra 5 e 11 anni rappresentano infatti oltre la metà dell’aumento previsto. «Questo possibile aumento equivale a un raddoppio dell’aumento del lavoro minorile a cui abbiamo assistito nei quattro anni precedenti lo scoppio della pandemia» sottolinea il Rapporto, condannando il fatto che, nonostante questo rischio, sia dedicato al supporto di minori e famiglie solo il 2% degli stimoli fiscali introdotti per contrastare le conseguenze sociali della pandemia.

Ibidem

Investimenti per un vero sviluppo

Servono risorse e impegno di tutte le istituzioni per raggiungere questo ambizioso obiettivo che la coscienza di tutti dovrebbe sentirsi autoimposto.

E’ proprio sulle famiglie, sullo sviluppo e l’educazione dei più piccoli e svantaggiati che bisogna investire in maniera sistematica, controllata e persistente.

Dietro ogni processo e decisione, prima delle tendenze di mercato e delle linee guida ci sono sempre le persone con la loro coscienza e responsabilità; ci auguriamo, anzi preghiamo, che siano molti a muoversi davvero per il bene comune, qualunque posizione si trovino a ricoprire. Ne è un esempio luminoso la vita di Robert Schuman, padre fondatore dell’Unione Europea, da poco riconosciuto venerabile dalla Chiesa Cattolica.

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